Matteo Salvini (foto LaPresse)

Fighissimi e sfigatissimi

Marianna Rizzini

Il garbato eloquio e la scriminatura in stile Eton del pd Taddei, la fosca banalità del catatonico Salvini. Uno educato, gentile, “figlio orgoglioso” della scuola pubblica, l'altro che più che il mondo nuovo della Lega pare il mondo vecchissimo tout court.

Arriva garbatamente e in leggero ritardo in televisione, il responsabile economico del Pd Filippo Taddei. Entra nell’inquadratura di “Otto e mezzo” con la camicia azzurra mentre gli altri sono già tutti seduti, si accomoda trattenendo il fiato, si scusa e sorride reclinando la testa mentre ribatte ottimisticamente a tesi pessimiste sul tema “il mistero del tfr”. Ha 37 anni, tre figlie e una scriminatura di capelli alla Errol Flynn nella fase di ciuffo più corto, Taddei, ex civatiano scippato da Renzi a Civati, professore di Economia alla Johns Hopkins University di Bologna e bolognese lui stesso (anche se cresciuto professionalmente a New York).

 

Quando qualcuno (Giovanni Floris) gli chiede con chi lui e Matteo Renzi discutano di urgenze economiche nelle segrete stanze, con l’aria di voler far intendere che qualche nome grosso dei poteri grossi ci dev’essere per forza, Taddei sgrana gentilmente gli occhi, e a mani giunte piega il collo sulla giacca scura, per poi far notare che “questo non rileva”, e che ovviamente “ci sono sempre delle conversazioni informali con persone ben informate”, ma che per il resto, mi scusi, l’argomento è un altro. Pare educato a Eton, Taddei, uno che d’inverno indossa il Montgomery. Invece si è sempre detto un “figlio orgoglioso” della scuola pubblica, e alla fine, controllato ma spontaneo, dice al conduttore l’indicibile: ho dimenticato la domanda numero tre. A confronto con ospiti da lamentazione fissa ed economisti mesti che dubitano dell’effetto taumaturgico dei soldi da fine-lavoro anticipati in busta paga, Taddei oppone esempi pratici – protagonista sua moglie, una “gran risparmiatrice” che il tfr non lo vorrebbe vedere conferito adesso, e infatti “è giusto che il lavoratore decida liberamente”, oppure le sue tre bambine per le quali, come ha detto un giorno all’Espresso, il bolognese anglosassone non vorrebbe mai vedere un futuro da cervelli in fuga (come è stato per lui). Dice serenamente di essere anche un po’ “abbagliato” dal riflettore dello studio, l’ex civatiano che alla Leopolda del 2010 aveva già colpito Matteo Renzi e che nelle prime ore al Nazareno prometteva di tassare “l’immobile” (case) e dare le ali a ciò che è “mobile” (lavoro non protetto). Che dica verità o castronerie, è comunque un altro mondo, specie quando, alla domanda universale del conduttore di talk-show – ma Renzi aumenterà le tasse? – oppone un cortese: “Se non si fida di me, aspetti due settimane”.

 

Il “me ne frego va forte”, ma certo Bossi…

Poi c’è Matteo Salvini, il leader della Lega. Quello che dice sempre “me ne frego” e poi va in Corea, in Sicilia, sulle rive del Po, con i bastoni e i forconi (metaforici, ma il genere è saturo), ad annunciare scioperi fiscali o a nominare un nigeriano a capo dell’immigrazione leghista, ma sempre senza mai sorridere e dicendo almeno una volta al giorno, su tutti i teleschermi, che “Renzi abbaia ma non morde”. Salvini, che più che il mondo nuovo della Lega pare il mondo vecchissimo tout court, ha fatto della ripulitura della Lega da ogni residuo bossismo la sua ragion d’essere politica. Tutto era casta nella Lega, tutto è casta fuori, è il succo dei suoi interventi televisivi (si salva solo Marine Le Pen, alleata rivendicata a ogni piè sospinto). Complice l’eclissi di Beppe Grillo, ma senza il corpaccione da attore di Beppe Grillo, Salvini sale nei sondaggi e prende voti tra primarie ed europee, mentre Libero lo incorona preventivamente possibile anti Renzi del centrodestra. Solo che poi, a quel Salvini dall’occhio fisso e dall’eloquio catatonico, manca drammaticamente ciò che ha fatto grande il padre della Lega poi finita nella polvere: la mattana di Umberto Bossi, l’estro di Umberto Bossi, l’autoironia (non di Umberto Bossi ma in generale). E quando Salvini siede vestito da raccattapalle anni Ottanta col braccialetto verde, eterna replica di se stesso che dice a Simona Bonafe’ o ad Alessandra Moretti “non m’interrompere”, quasi quasi vien voglia di rimpiangere non solo Bossi ma pure Grillo, che almeno il comico lo sa fare.

  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.