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Chateaubriand o Carnage?

Marianna Rizzini

Che succede nella scuola delle élite francesi, dove bulli, fasci e radical danarosi convivono e litigano come in (quasi) ogni altro istituto. Fra genitori assaliti dalla realtà (Roma nord) e parigini finiti in minoranza.

"Pochi casi”, dice il preside Joel Lust. Ma “il caso” si è creato a prescindere. “Bullismo e razzismo allo Chateaubriand”, è stato il titolo sui giornali; “botte e insulti a un ragazzo di colore, slogan fascisti”, è stato il tam tam su siti e cronache locali; “la scuola non ha reagito e l’ambasciata ha insabbiato”, è stato il sovrappiù di accuse della madre del dodicenne vittima dell’episodio di “intimidazione” accertato da una commissione interna alla scuola francese a Roma, episodio che ha dato il via ai titoli suddetti: ripetuti insulti tipo “sporco negro”, “calci e pugni” sferrati o minacciati da tre compagni italiani poco più grandi, ormai dieci mesi fa. E ieri una denuncia ai carabinieri di un’altra mamma, moglie di un francese: la figlia di nove anni è stata scaraventata violentemente a terra nel cortile della scuola da un “bambino italiano di due anni più grande”, rompendosi il polso nella caduta. E la madre, racconta il Messaggero, dice anche altro: che la scuola le ha proposto “uno sconto” sulla retta per il suo silenzio, e che lei, visti “gli altri casi” di bullismo “venuti alla luce”, non vuole “insabbiare”. “Ma perché la storia del ragazzino nero viene fuori solo ora?”, si sono intanto chiesti, attoniti, i genitori degli alunni di Chateaubriand, alcuni ignari, altri convinti che la vicenda fosse stata già risolta: “C’è stata la commissione, l’indagine”, dicono. I ragazzi erano stati sospesi per mezza giornata, la psicologa aveva consigliato un incontro tra aggressori e aggredito, la famiglia di quest’ultimo aveva rifiutato, il ragazzino aveva infine cambiato scuola. Punto (così pareva). Si sapeva che il ragazzino era figlio dell’ex console francese. Non si immaginava che la madre, ex dipendente del consolato, avrebbe chiamato in causa (ex post) anche i referenti dell’Istruzione a Parigi, che a suo dire hanno fatto finta di niente. E oggi l’ambasciata, che tre giorni fa aveva definito “adeguata” la reazione dello Chateaubriand all’epoca dei fatti, risponde “agli attacchi contro la presunta inerzia” delle autorità francesi in Italia definendo “intollerabile qualsiasi atto di bullismo a scuola, sia in Francia sia in Italia”. “Seguiamo da vicino ogni episodio segnalato perché si faccia il necessario”, dice un portavoce, parlando anche di “rafforzamento” del piano antibullismo pre-esistente allo Chateau. Ma dopo giorni di titoloni, con l’onta che aleggiava, l’allarmato e incuriosito passaparola telefonico tra genitori romani e francesi di alunni dello Chateaubriand (ma anche no) ha preso a correre, gonfiando e sgonfiando “il caso” a seconda dei punti di vista. “Razzismo nella scuola dei vip”, era la sentenza mediatica non del tutto esente da riflesso guardone anticasta (della serie: guarda che cosa succede nell’élite, pensavate di essere immuni, eh?). Che cosa fare e che cosa dire (anche a se stessi), era la questione allo Chateau. Ed era come quando al luna park ci si vede magrissimi e oblunghi oppure grassissimi e quadrangolari nello specchio deformante (non saremo mai così, ci si dice, sperando che sia vero). Alcuni perdevano una sicurezza illusoria: qui non succederà mai, mica siamo allo stadio dove quattro trogloditi insultano Mario Balotelli, siamo in una propaggine della Francia dei “diritti”, dell’égalité & fraternité, nella scuola dove si celebra ogni anno una giornata “multiculti”. E invece è successo. “Pochi casi”. Ma in qualche modo è abbastanza per doversi arrendere a quello che già si sapeva, in fondo, ma forse non ci si diceva: e perché non sarebbe dovuto succedere, qui?

 

Si parla di genitori civilissimi e figli civilissimi che si comportano “in pochi casi” da incivili, in questa storia. Solo che nessun genitore, allo Chateau, in questi giorni, vuole essere descritto come un protagonista di “Carnage”, il film di Roman Polanski (da una pièce di Yasmina Reza) in cui due evolute ed educate coppie newyorchesi si ritrovano a combattere senza più orpello di correttezza politica in un salotto dove, in teoria, si doveva ancor più educatamente discutere dell’indicibile e inaccettabile bastonata data dal figlio undicenne degli uni al figlio degli altri (i genitori poi si massacreranno di cattiverie, l’esperta raffinata di finanza vomiterà nel salotto dell’ipocrita scrittrice, uno dei padri dirà che “sentir nominare” la politicamente correttissima Jane Fonda “fa venire voglia di aderire al Ku Klux Klan”, e mogli e mariti scopriranno il bestiale che è in loro, mentre i figli saranno di nuovo amici, comunque più sani di quei quattro adulti borghesi che si credevano protetti dalla presentabilità sociale).

 

Né si pensa, in questi giorni, allo Chateau, che ci si ritroverà mai seduti a tavola in un bel ristorante a parlare amabilmente di gamberi di fiume in vinaigrette, sì, ma pure dei figli che hanno colpito e ucciso una clochard vicino a un bancomat, ripresi dalle videocamere di sicurezza, come nel romanzo “La cena” di Herman Koch (a cui è ispirato “I nostri ragazzi” di Ivano De Matteo, giunto sugli schermi dal Festival di Venezia), dove il dilemma è: punirli in nome dell’etica o difenderli contro ogni edificante convinzione? Si parla, allo Chateaubriand, del perché, “dall’esterno”, “pochi singoli casi di razzismo e bullismo vengano visti come il portato di una classe sociale, di un ambiente di ‘pariolini’”, dice una mamma, “e non di qualcosa di purtroppo comune a tutte le scuole e a tutti i censi da cui non si sa come salvarsi”, e nessuno vuol vedersi schiaffato dai giornali in uno scenario “da bande di ragazzini annoiati che per passare il tempo fanno qualche casino”, dice un papà (stavolta pare un film di Sofia Coppola, invece siamo a Roma).

 

Non si vogliono sentir descrivere come “figli di ricchi che dicono ‘sporco negro’” neppure gli studenti stessi dello Chateaubriand, riuniti due giorni fa in assemblea per discutere il caso mediatico che li riguarda: ma noi non siamo così!, dicono, e lo dicono anche quelli che a ricreazione il francese non lo vogliono parlare perché, come racconta un padre francese, “essendoci ormai a scuola più italiani che francofoni, l’italiano evidentemente fa più figo” – ed è il mondo alla rovescia, nel microcosmo dello Chateau; la nemesi per un genitore italiano che nel francese vedeva una porta spalancata verso la raffinatezza, la tolleranza, la cultura e, perché no, le buone conoscenze. Intanto un genitore francese si chiede come sia possibile “che, in una scuola francese, il francese non sia lingua comune ma lingua che divide”. Ed ecco che emerge il problema numero uno, che solo linguistico non è, con il francese che, da lingua predominante dell’insegnamento e, si pensava, dei momenti di evasione, resta predominante sui banchi ma arretra paradossalmente a idioma della “minoranza francofona” all’interno della scuola francese, e addirittura a lingua non sempre ben sopportata all’ora di ricreazione (situazione da cui discende, secondo un ex studente uscito da poco, “una diffidenza spaccona verso chi l’italiano non lo sa bene perché resta in Italia solo pochi anni al seguito del padre ambasciatore o verso chi parlerebbe più francese che italiano perché figlio di francesi: suonata la campanella ai romani va di parlare in romanesco”. Altro che grandeur. Lontani sono i tempi dello “chateaubrianais”, ibrido italo-francese e franco-italiano di cui parla un ex alunno giornalista, ora ultracinquantenne, memore di quando allo Chateau si andava, letteralmente, a “merenda da Tiffany” (chez Audrey Hepburn in persona, madre dell’alunno Sean Ferrer). Allo Chateau i francesi e francofoni si dividono in varie categorie. Ci sono i figli di coppie agiate: diplomatici (l’ambiente del ragazzino aggredito), professionisti (giornalisti, analisti, professori), dipendenti di grandi aziende d’oltralpe che danno un contributo economico all’istruzione (all’estero non può essere del tutto gratuita come in Francia), e dunque il benefit prende la forma del pagamento della retta scolastica dei figli del fuorisede, più spese: circa seimila euro. E ci sono i francesi non abbienti ma beneficiari di borse di studio. Gli italiani che vanno a Chateau, invece, non appartengono più, per la maggior parte, a famiglie di gente di cinema, musica e arte (nella scuola ha studiato Suso Cecchi D’Amico, poi il figlio di Age e le due Comencini, i due Vanzina e Chiara Mastroianni – lei ovviamente anche per via della mamma francese). E se a un certo punto lo Chateau ha visto come alunni i fratelli Cocciante – Anita Cocciante, da maestra in pensione, tuttora insegna per hobby Arte circense ai bimbi dell’asilo – nessuno avrebbe potuto immaginare che l’ex alunno Paul Mazzolini sarebbe diventato Gazebo, il cantante che negli anni Ottanta spopolava con “I like Chopin”.

 

Santoro e la medievale Maria Laura Rodotà

 

Oggi, tra gli italiani che iscrivono i figli allo Chateau, sono minoranza i nobili decaduti che al francese sono affezionati per indole e nostalgia, i soliti diplomatici, i giornalisti scomodi tipo, qualche anno fa, Michele Santoro (l’iscrizione della figlia di Santoro allo Chateaubriand fu oggetto di uno scambio epistolare tra Santoro stesso e Maria Laura Rodotà sul Corriere della Sera, con Rodotà che chiedeva a Santoro di dare in privato “una chance” alla scuola italiana, visto che la difendeva tanto in pubblico e visto che, “a sinistra e a destra, la scuola dei figli viene vista sempre più spesso dai benestanti come uno status symbol dove il rigore può diventare un seccante optional; l’importante è che siano bilingui e frequentino bene”, e con Santoro che rivendicava il diritto di fare quel che gli pareva e piaceva: “La scuola frequentata da mia figlia… è francese ma non è privata”, scriveva, “è una scuola pubblica statale a tutti gli effetti e ha ai miei occhi un pregio in più della scuola pubblica italiana: è rigorosamente laica. Potendomi permettere di pagare una retta non esosa dopo aver contribuito con le tasse all’istruzione di tutti, l’ho scelta senza rimorsi… Non vorrei sentirmi di nuovo in contrasto con le mie convinzioni, come quelle che tutti abbiano diritto a non morire di fame e a spostarsi con trasporti pubblici efficienti. Comunque ho capito che noi che signori non lo nacquimo dobbiamo imparare a comportarci sobriamente e ad accontentarci di poco per passare inosservati. Altrimenti, come in quei quadretti medievali, compare la Rodotà a ricordarci che dobbiamo morire”).

 

Ma ancora il bullo-razzista non si era affacciato come fantasma. E oggi, a parte i pochi outsider radical-chic (modello ex alunna e ministro Marianna Madia), a parte i paladini romantici e disinteressati della cultura francese (una mamma ha iscritto i figli “per regalargli una lingua che non si userà più tantissimo ma è meravigliosa”), la maggior parte degli italiani sono professionisti altoborghesi per lo più residenti a Roma nord, per lo più attirati dalla scuola straniera come viatico di carriera (“la scuola anglosassone è più cara”, dice un francese, “ma i diplomati italiani allo Chateau vanno spesso a finire, poi, in università anglosassoni, ed è un paradosso pure questo”). L’ambiente dell’italiano-tipo dello Chateau è omogeneo, sicuramente più omogeneo di quello francofono, e magari è più facile trovare lì la famiglia in cui pare più verosimile – pare – che scappi distrattamente l’insulto non politicamente corretto, ma pure questo, dicono allo Chateau, “è un pregiudizio dei giornali”. E che un “ambiente” faciliti la presunta onda bullo-razzista è tutto da vedere (“cambi zona, e l’insulto magari diventa omofobo, oppure non è omofobo ma scappa la frase razzista non contro il nero ma contro il romeno”, dice un genitore di figlio che va a scuola pubblica nel centro storico. Viene voglia di sentire un padre che ha la figlia in periferia: “Sento parolacce di tutti i tipi, dette contro i figli di immigrati ma anche da figli di immigrati”, dice). E quest’estate un alunno di scuola internazionale, ma non francese, al mare, in un lido toscano tradizionalmente equo, solidale e di sinistra, è stato udito dire alla tata straniera: “Sta’ zitta, schiava”. Come la mettiamo? Pariolino o solo cretino? Superficiale o consapevole pre-razzista?

 

Fatto sta che allo Chateau la cosa sorprende, come se la “francesità”, iper-democratica in teoria, facesse risaltare ancora di più il fatto increscioso. Si sono interrogati, i genitori, e si sono risposti che non c’è “un’emergenza razzismo e bullismo a scuola, altrimenti io non avrei lasciato qui mio figlio”, dice una mamma italiana; si sono detti che “purtroppo accade in molti altri istituti” , che “il pericolo è trasversale”, e che è necessario “chiedersi piuttosto come possiamo arginare e capire quest’aggressività superficiale generalizzata e precoce”). E si sono detti che sì, “c’è stato l’episodio del figlio del console” e ci sono stati altri “tre o quattro” episodi anche ammessi dal preside (“uno di antisemitismo” e “uno di cyberbullismo tra studentesse”, “ma come in altre scuole e non di più”, ha detto Joel Lust, raccontando di averli “risolti con l’educazione”: un incontro con un sopravvissuto ai campi di sterminio, la discussione in classe sulle questioni sollevate dalle aggressioni, temi sul bullismo). Si sono chiesti, i genitori, dove passi il confine tra atteggiamento sbruffone da normale “comitiva cattiva” e la devianza da “ragazzi cannibali” in nuce che a vent’anni chissà che cosa faranno. Ma, chiede un padre, “la descrizione da ‘Arancia Meccanica’ sparata dai media sarebbe stata fatta anche per una scuola ‘non così rinomata come lo Chateaubriand?”. E dunque quello che di sicuro si trova in questi giorni allo Chateau è la paura che una verità presunta si faccia suggestione collettiva, e che il caso accertato del ragazzino di colore insultato dagli italiani – di “ottima famiglia” come gli aggressori, dicono vari genitori – porti con sé la dannazione sommaria per un’intera scuola e un intero entourage.

 

Molli reazioni, impotenti educatori e possibili scenari di vessazione giovanile? Tutto il contrario dell’immagine che ha di sé una scuola francese, vessillo ideale di tolleranza. Un recente ex alunno di origine asiatica, “mai sfiorato da bullismo o razzismo”, dice: “Poteva accadere ovunque, una cosa così, tra ragazzini deboli di fronte a un debole”. “Scontro tra personalità problematiche”, è la diagnosi di una madre. “Quando andavo a scuola io eravamo ancora vicini agli anni Settanta, gli slogan a sfondo fascista e razzista erano confinati ad alcune scuole di area più destrorsa, oggi ci sono ragazzetti che allo Chateaubriand dicono ‘sporco negro’ e ‘viva il duce’ per sentirsi parte di un gruppo, per immaturità, perché non hanno voglia di parlare con chi è nuovo”, dice un padre di origine marocchina, ex studente Chateau e genitore di alunno Chateau.

 

[**Video_box_2**]Negli anni Ottanta si attaccava il grasso, il brutto, il brufoloso, il timido, quello con l’apparecchio ai denti, quello senza ragazze, quella senza ragazzi. Il “quattrocchi” e l’imbranato, lo scemo e il secchione. Ma è proprio la stessa cosa, dire “ciccione” o “sporco negro” per sentirsi parte del gruppo? In Francia, dice un genitore francese, “c’è nelle scuole il problema degli attacchi antisemiti a professori e compagni, c’è un contesto politico e di immigrazione che non è da sottovalutare, quegli slogan sono parte di una situazione preoccupante”. In Francia. Ma in Italia? Allo Chateau non ci si capacita della “generalizzazione”, del trambusto mediatico ancora prima di capire se il caso c’era oppure se era diventato un caso per via del fondale. Come fosse bastato intanto il nome, la parte per il tutto: la prestigiosa e seria scuola francese con tre sedi (dall’asilo al liceo) sparse tra Villa Borghese e Porta Pia, con grande parco ed edificio storico un tempo frequentato da pittori e mecenati, Villa Strohl Fern, bellissima e decadente, “e per alcuni aspetti pure fatiscente: c’è sempre qualche intonaco da mettere a posto”, dice un genitore consapevole del fatto “che la scuola, pur dipendendo dalla Francia, non può avere lo stesso trattamento economico riservato alle scuole francesi, dove i soldi arrivano abbondanti anche dagli enti locali” (motivo di lamentela tra mamme francesi giunte da poco al seguito dei mariti, ancora alla ricerca di un lavoro a Roma e preda di nostalgia canaglia: “Qui non è come in Francia”, dicono). La domanda da farsi, dicono italiani e francesi, “non è se la scuola ha reagito, perché comunque ha reagito, ma se quella della scuola, in casi come questo, basti come reazione”. Differenze di percezione, e una scissione nelle associazioni-genitori. Dall’associazione storica, l’Ape, dicono che è stato fatto il possibile. Una rappresentante dei genitori che faceva parte della famosa commissione di accertamento dice che è stata accertata “l’intimidazione, non il bullismo, e che è stato previsto un percorso educativo” e che questi episodi, “purtroppo”, sono “in qualche modo fisiologici nelle scuole in questo momento storico: i ragazzi, anche se non tutti, sono così”. La concorrente e neonata associazione Upel, invece, con una lettera aperta al preside, adombra una gestione non proprio gradita del “caso”: “L’episodio che riguarda il figlio dell’ex console francese è stato gestito esclusivamente, nel corso dello scorso anno, da Lei e dal suo entourage”. E alla fine si torna sempre al punto, all’immagine in cui non ci si ritrova: “Trovo personalmente riprovevole che la scuola sia presentata come frequentata da teppisti e da figli di ricchi prepotenti quando si tratta invece per la larghissima maggioranza di ragazzi che desiderano, per lo più, far parte della nuova Europa e conseguire una preparazione aperta e polivalente”, scrive la presidente dell’associazione. Lo slogan “sporco negro”, pur se detto per fare gruppo, non trova posto in questo quadro (cui si pensa di corrispondere, lo si spera fortemente, e c’è qualcuno che rimpiange i tempi in cui i giornali, quando parlavano dello Chateau, raccontavano della mirabolante e stramba occupazione dell’anno Duemila, quando gli studenti “con cognome famoso”, tra cui i figli di Luis Bacalov e di Vasco Rossi, chiedevano “trasparenza”, sì, ma anche, modestamente, una scala antincendio).

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.