Anarchia libica

Redazione

Aeroporti chiusi, scontri, oleodotti fermi. Non c’è un’exit strategy

Tutti gli aeroporti della Libia sono chiusi: quello di Bengasi lo è da due mesi, quelli di Misurata e di Tripoli lo sono da lunedì, da quando gli scontri tra le milizie fedeli al generale Khalifa Haftar e le milizie islamiche sono diventati sanguinosi e incontrollabili, al punto che i razzi hanno colpito e distrutto la torre di controllo nella capitale. L’unica via ancora percorribile è la strada per la Tunisia, l’unica che rimase accessibile anche alla fine degli anni 90, quando la Libia dell’allora rais Gheddafi era sotto sanzioni occidentali. Il personale dell’Onu sta lasciando il paese, i convogli già domenica occupavano le strade, molti stanno uscendo proprio attraverso la via tunisina: non c’è modo di garantire la sicurezza, al punto che il governo – è chiamato così per convenzione: non governa nulla – ha detto di essere pronto a richiedere un intervento internazionale.

 

Oltre alle violenze, c’è il problema petrolifero: la Libia non sarà in grado di esportare petrolio attraverso i suoi porti dell’est, quelli più grandi e importanti, fino almeno alla fine di luglio, e anche l’accordo trovato due settimane fa per sbloccare l’assedio degli oleodotti da parte delle forze islamiche è scricchiolante. Ras Lanuf e Es Sider, i porti principali, hanno bisogno di manutenzione, ma ogni giorno le guardie esterne vengono ammazzate prima di poter aprire i cancelli ai tecnici. Insieme possono esportare 500 mila barili al giorno, più di un terzo di tutta la capacità libica che è pari a 1,25 milioni di barili al giorno. Ma per ora non funzionano, e gli esperti non sanno dire quando questo paese tanto strategico e tanto anarchico potrà tornare a essere un affidabile esportatore di greggio.

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