Tutte le privatizzazioni che ancora non hanno messo il turbo

Redazione

Dopo la delusione per Fincantieri, ora s’arresta la quotazione di Poste. Solo Mps fa gongolare il Tesoro

Ora che il percorso di privatizzazione delle società a partecipazione pubblica pare in salita, con la deludente quotazione di Fincantieri e il rinvio di quella di Poste, dev’essere stato con un sospiro di sollievo che il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha incassato l’assegno del Monte dei Paschi di Siena. Con la restituzione dei prestiti pubblici ricevuti dalla banca senese e i relativi interessi, il Tesoro ha potuto rimpolpare con 3,45 miliardi di euro il fondo di ammortamento dei titoli di stato, appena svuotato di quasi tutto ciò che vi restava causa il rimborso parziale, senza emettere nuovo debito, del Btp in scadenza proprio il primo luglio. In realtà del maxi-assegno girato da Siena la plusvalenza reale a beneficio del Tesoro è di 455 milioni, tra interessi e sovrapprezzo: il resto è quanto lo stato aveva anticipato con i Tremonti e poi con i Monti bond. Ma un guadagno del 16 per cento in un anno, e in attesa che arrivi l’ultimo miliardo (con circa 300 milioni di relativi interessi), vale più di una privatizzazione, come quelle che in effetti dovrebbero alimentare il fondo di ammortamento del debito. Il governo nel Documento di economia e finanza aveva indicato nello 0,7 per cento del pil il gruzzolo da ricavare dalle privatizzazioni nel triennio dal 2014 al 2017, cioè 11 miliardi. L’obiettivo per ora non sembra a portata di mano. O quantomeno non è di così pronta realizzazione come invece gli entusiasmi governativi lasciavano intuire, vista soprattutto l’incertezza, sui tempi e sui modi della privatizzazione più consistente, quella di Poste – quotazione in Borsa del 40 per cento delle azioni con un ricavo stimato di 4,8-5 miliardi – che pure fa parte del catalogo del governo Renzi per le dismissioni da completare prima della fine dell’anno (come Enav e Cdp Reti, che ha in pancia Terna e Snam).

 

Il nuovo ad di Poste, Francesco Caio, nominato a maggio, ha chiesto più tempo. Martedì il cda di Poste ha comunicato che “la quotazione è un progetto di respiro strategico e va realizzata nelle migliori condizioni possibili, nell’interesse dell’azionista, dei futuri investitori”. Concetto ribadito ieri da Caio in commissione Bilancio alla Camera. Nella stessa sede, Caio ha ricordato che le attività bancario-assicurative di Poste (preponderanti e in positivo) vanno a finanziare quelle postali (in perdita) che, assieme ai servizi connessi, costano 1 miliardo di euro mentre lo stato offre copertura solo per 340 milioni. “Questo è il punto di partenza – dice Caio – come Poste italiane la privatizzazione non implica affatto che noi abdichiamo a quei servizi di presenza territoriale, di erogazione dei servizi di utilità pubblica che devono essere inquadrati in maniera chiara, trasparente, e vanno spiegati a chi dovrà mettere i soldi su Poste”. Allora, come privatizzare le Poste? La risposta manca ancora.

 

[**Video_box_2**]Il messaggio è che le ambizioni del Tesoro vanno ridimensionate e che il progetto precedente, congegnato dall’ex capo azienda Massimo Sarmi, e benedetto dall’esecutivo Letta,  non appare così convincente. A consigliare cautela c’è anche la patata bollente di Alitalia. La richiesta di contribuire a un’ulteriore ricapitalizzazione a complemento dell’operazione di salvataggio da parte di Etihad costringe Caio a riflettere sull’opportunità di nuovi investimenti che, dice, “saranno valutati in base a logiche di mercato”. E poi, quando ci saranno le condizioni, “bisognerà trovare un equilibrio giusto fra il nostro interesse nelle sinergie industriali (nella logistica) e le disponibilità finanziarie”, dice Caio data l’incertezza sul futuro di Alitalia (vedi editoriale in pagina). La lezione è che una privatizzazione un po’ affrettata può diventare controproducente, sia per l’incasso sia soprattutto come segnale al governo e al mercato. E lo si è visto con la quotazione di Fincantieri, le cui buone intenzioni sono state offuscate sia da una tempistica sfavorevole – vedi l’ingorgo a Piazza Affari creato da altre Ipo private (Anima, Cerved e, ieri, Fineco) e ricapitalizzazioni, bancarie e non, per complessivi 13 miliardi richiesti al mercato in pochi mesi – sia dalle aspettative troppo alte, dato che gli investitori istituzionali hanno lasciato cadere l’offerta scaricando l’onere sui piccoli risparmiatori. Ma almeno, nel caso Fincantieri, l’azionista pubblico, cioè la Cassa depositi e prestiti attraverso la Fintecna, aveva già girato al Tesoro 10 miliardi per un pacchetto che comprendeva la Fintecna stessa, la Sace e la Simest. Per quanto questi stop-and-go ufficialmente non allarmino l’esecutivo (il viceministro dell’Economia, Enrico Morando, invita a ragionare nell’ottica del piano triennale) la morale è che invece di partite di giro mascherate servono privatizzazioni vere. E tornando a Mps non c’è dubbio che lo sia. Da un lato la nazionalizzazione si è rivelata uno spauracchio. Dall’altro, la privatizzazione è avvenuta, per quanto forzosa, fortuita e con le ben note difficoltà di un contesto inquinato dall’assalto mediatico-giudiziario. Con le ultime operazioni la Fondazione è scesa al 2,5 per cento, non possiede più la maggioranza assoluta del capitale che deteneva fino a poco tempo fa, in deroga alla legge firmata nel 1996 da Carlo Azeglio Ciampi. A privatizzare sono stati gli enti territoriali senesi, che governano la Fondazione, egemonizzati a sinistra, a cominciare da comune e provincia. Fare ricorso al mercato ha insomma giovato al settore pubblico e favorito la cesura di un rapporto localistico incestuoso.

 

Un esempio questo che potrebbe essere imitato per le 7.472 società municipalizzate (il 97 per cento dei comuni detiene quote in almeno un’azienda) che secondo la Corte dei Conti sono per un terzo in perdita. O anche quando non lo sono si rivelano dei postifici inefficienti con un sovraffollamento di cariche dirigenziali o sono controllate in maniera bislacca: il caso classico è quello dell’Acea, azienda quotata della quale il comune di Roma (commissariato e pluri-indebitato) si ostina a mantenere la maggioranza, quando invece lo stato possiede solo un terzo di Eni e Enel.