Alessandro Profumo (presidente Mps), Fabrizio Viola (ad Mps) (Foto La Presse)

Quasi lieto fine a Siena

Cala il sipario sul “banking horror show” al Monte dei Paschi

Alberto Brambilla

La banca dei presunti scandali rimborsa i prestiti pubblici, e il contribuente gongola. Giornata storica, dice Viola.

Roma. I cultori del banking horror show sono costretti ad abbandonare la sala, adesso che il soccorso pubblico al Monte dei Paschi si è ufficialmente rivelato un affare per lo stato interventista. Dopo avere concluso con successo l’aumento di capitale da cinque miliardi di euro, ieri mattina la bistrattata banca senese ha rimborsato la maggior parte dei prestiti statali ricevuti due anni fa dal Tesoro – 3 miliardi sui 4,1 dei cosiddetti Monti bond –, il resto nel 2016. Con essi ha ripagato i relativi interessi a beneficio dell’erario, per 455 milioni di euro; e l’incasso aumenterà una volta che il rimborso sarà completo. Tutt’altro film rispetto a quello proiettato l’anno scorso dal circo mediatico, dai reporter mastini con le froge impregnate dell’olezzo di torbide inchieste giudiziarie, poi rivelatesi inconcludenti sia che si parli della transazione in derivati con Nomura, sia riguardo alla presunta maxi tangente Antonveneta, che per ammissione dei magistrati inquirenti esisteva solo nelle ricostruzioni della stampa. Né l’ad di Mps, Fabrizio Viola, né il presidente, Alessandro Proumo, davano per scontato un esito del genere, premiato ieri dalla Borsa con un rialzo del titolo del l’8,5 per cento e ancora prima dall’agenzia Moody’s con l’upgrade del rating dell’istituto di uno scalino (da B1 a B2), pur sempre in area a rischio speculativo. “Un traguardo impensabile anche solo un anno fa quando la banca sembrava l’emblema della crisi del sistema Italia”, ha detto Viola al Sole 24 Ore per poi rincarare la dose (“è una giornata storica”). Complice l’arrivo degli investitori esteri, captati da Antonella Mansi, presidente uscente della Fondazione, e il piano di ristrutturazione della banca (tagli dei costi, chiusura di sportelli, esuberi ed esternalizzazioni). “Quello che per noi è rilevante – ha aggiunto Viola – è che abbiamo rimborsato la maggioranza dei Monti bond […] e che, ripagando nei tempi previsti a metà 2014, abbiamo anche evitato la parziale nazionalizzazione della banca che sarebbe avvenuta pagando con azioni, pari a circa il 15 per cento del capitale, gli interessi destinati allo stato”. Interessi peraltro elevati, del 9 per cento crescenti di anno in anno: clausola stringente imposta come forma di autotutela dal governo Monti. La nazionalizzazione era il ritornello mediatico di inizio anno. Il partito nazionalizzatore ha messo d’accordo politici, analisti e osservatori solitamente distanti: da Vincenzo Visco a Massimo Mucchetti, da Beppe Grillo a Oscar Giannino. Per diverse ragioni e con diversi fini invocavano l’intervento dello stato come unica e saggia alternativa a quella che pensavano fosse una ricapitalizzazione dall’esito fallimentare; poi però è arrivato il rinforzo dei fondi stranieri. E’ stato un altro “spezzone” del banking horror, pellicola d’essai che tuttavia alletta ancora i più irriducibili aficionados. Sono quelli che hanno montato i primi fotogrammi, come la mattatrice di “Report” Milena Gabanelli che ieri ha prodotto per il Corriere della Sera un’articolessa sulla “partita quadrupla del bilancio di Mps”. Difficile da decifrare, ma sufficiente a fare intuire al lettore che, sotto sotto, ci sia ancora qualcosa di losco in quanto “Mps redige il proprio bilancio facendo seguire i tradizionali documenti che compongono il prospetto, da prospetti pro forma che mostrano numeri completamente diversi” (è illegale?). L’articolo richiama evocativi inghippi finanziari (lo scandalo Enron, la fusione Unipol-Fonsai, riesuma Parmalat) ma il dato essenziale sta nell’accenno sbrigativo, liquidatorio, alla “conclusione dell’aumento di capitale” (mentre al rimborso del prestito pubblico è dedicata una breve in pagina).  A voler fare qualche paragone, magari con l’estero, la notizia rilevante semmai era un’altra.

 

Il “dàgli al banchiere” va sempre di moda

 

Lo stato italiano se l’è cavata meglio dei big europei in fatto di salvataggi bancari: il governo inglese è azionista (scontento) di Royal Bank of Scotland e Lloyds, ha speso 83 miliardi per sostenere il sistema bancario; il mercato del credito tedesco è in larga parte pubblico, gli enti locali controllano le Landesbanken, Berlino ha un piede in Commerzbank e ha speso 67 miliardi per sorreggere il credito. L’Italia ne ha impiegati 6,3 (compresi i Tremonti bond a Mps, Bpm, Banco popolare, Creval) e ottenuto “consistenti ritorni” per lo stato, ha detto il governatore di Bankitalia Ignazio Visco.  Gli appassionati del genere “dàgli al banchiere” ora potrebbero interessarsi alle banche internazionali accusate di trafficare coi tiranni. L’ultima è Bnp Paribas che ha patteggiato con le autorità americane il pagamento della multa più alta di sempre per avere trattato con paesi sotto sanzioni (come Hsbc, Standard Charter, Ing, Credit Suisse). Oppure, perché no, al caso della principale banca portoghese, Banco Espírito Santo, sotto inchiesta da parte delle autorità lussemburghesi. Buona visione.

 

  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.