“Bertolt Brecht. A Literary Life” è la biografia che il più importante germanista di lingua inglese, Stephen Parker, ha dedicato all’autore dell’“Opera da tre soldi”

Un genio da tre soldi

Giulio Meotti

Uomo di Berlino est ma con conto in Svizzera. Una nuova biografia rivela le ipocrisie di Brecht

Era così sensibile da aver teorizzato che di fronte alla dittatura di Adolf Hitler era un crimine anche soltanto scrivere una poesia sulla bellezza dei meli in fiore. Ma aveva sempre taciuto sull’altra dittatura, quella stalinista e della Germania dell’est. Che Bertolt Brecht fosse un maestro di doppiezza morale e di opportunismo ideologico si sapeva. Lo abbiamo saputo grazie a Paul Johnson, che gli dedicò un ritratto magistrale fra i suoi “Intellettuali”, a “Cultural Amnesia” del critico Clive James e alla biografia di John Fuegi.

 

Ma quest’ultima risale a oltre vent’anni fa. Oggi è il più importante germanista di lingua inglese, Stephen Parker, a cimentarsi in una nuova biografia di Brecht, “A Literary Life”, pubblicata da Bloomsbury. E’ un Brecht piccolo piccolo a uscire dalle settecento pagine di questo libro, che ha il grande pregio di non canonizzare il biografato, ma di restituircelo in una luce terrena. Gli occhi di Brecht erano rivolti a est, ma le sue tasche si orientavano a ovest.

 

Con il suo occhialino di ferro, così trendy, e il giaccone di pelle nera, così elegantemente operaista, Brecht è stato uno dei più idolatrati scrittori del Novecento. Famoso per i suoi capitalisti farabutti, per i suoi mendicanti strozzini, per le sue puttane. Brecht si trasmette ancora alla radio e alla tv, è oggetto di conferenze, tesi di laurea, lavori di abilitazione, piccole e grandi monografie, ricordi, conversazioni, diari. Ma dietro la facciata del rieducatore della “marcia borghesia occidentale”, dietro al catechista della rivoluzione, un po’ dandy un po’ bonzo, si nascondeva un egoista ipocrita e sfruttatore.

 

[**Video_box_2**]“Bert – testimonia la sua prima moglie Marianne Zoff – non si lava mai, un sudiciume che ha i suoi costi perché bisogna acquistare prodotti carissimi e profumatissimi per eliminare l’aria maleodorante delle stanze”. La biografia di Parker illumina soprattutto il suo opportunismo. Come il fatto che questo eroe culturale del comunismo voleva a tutti i costi ottenere la cittadinanza austriaca dopo il suo arrivo a Berlino est. Nella primavera del 1948, poco dopo il ritorno in Europa dall’America, Brecht riceve in Svizzera la proposta di occuparsi, come regista e drammaturgo, del Festival di Salisburgo e di mettere in scena lavori a Vienna. Accetta e in cambio chiede d’intercedere presso le autorità austriache per la concessione della cittadinanza e il rilascio del passaporto. Un documento che lo mette al riparo dai provvedimenti più esosi del governo comunista, come quelli relativi alla libertà di movimento. I burocrati della Ddr non ammisero mai, ed è comprensibile, tale mancanza di fiducia da parte di Brecht. Parker ha avuto accesso alle carte e ai documenti della Germania dell’est. E’ vero che i burocrati della Germania socialista non lo vedevano di buon occhio, quanto come un soggettivista di stampo modernista, un intellettuale difficile e astuto, un pericoloso ammaliatore che con il suo pensiero radicalmente dialettico seduceva la gioventù. Ma Brecht rimase fino alla fine un apologeta dello stato di polizia.

 

Nuova luce è gettata da Parker sul celeberrimo rifiuto di Brecht di dare il suo appoggio alle rivolte antigovernative dei lavoratori di Berlino est nel 1953, simbolo ricorrente del suo servilismo politico. In una lunga lettera indirizzata all’editore Peter Suhrkamp, Brecht spiega quanto i lavoratori fossero giustamente amareggiati. “Eppure – egli scrive – anche nelle prime ore del 17 giugno le strade presentavano un grottesco insieme di lavoratori non solo uniti alla gioventù più degradata… ma anche a figure rozze e grossolane appartenenti all’èra nazista, il prodotto locale, gente che per anni mancava di una banda, ma che era rimasta lì tutto quel tempo”.

 

Una astuzia diabolica e perfida consentì a Brecht di sopravvivere. “Certo che lo so: / sono l’unico che, per fortuna, / è riuscito a sopravvivere a così tanti amici”. Versi scritti prima di quel 25 maggio 1955 quando, nella sala Sverdlovsk del Cremlino, il drammaturgo venne insignito del Premio Stalin per la Pace. Onorificenza ricevuta dalle mani di Nikolai Tichonov, che a quel tempo era impegnato a distruggere ogni traccia di intellighenzia anticonformista in Unione sovietica.

 

Sapeva Brecht degli arresti dei suoi amici a Mosca? Senza dubbio. Nel maggio 1941, il giorno prima della sua partenza per gli Stati Uniti, promise all’amico regista e critico Bernhardt Reich di intervenire perché Stalin liberasse sua moglie, Asya Lacis, da tre anni nel lager. Promise, ma non fece mai nulla.

 

Brecht giustificò, piuttosto, a più riprese le purghe di Stalin, anche quando visitò Mosca a bordo di una limousine. Il filosofo americano Sidney Hook ha riferito di una conversazione che ebbe con lui nel 1935 a Manhattan. Sollevando i casi di Zinov’ev e Kamenev, Hook chiese a Brecht come facesse a collaborare con i comunisti, che fucilavano oppositori, poeti e dissidenti. La risposta di Brecht fu: “Più innocenti sono, più meritano una pallottola in testa”. Quando la sua ex amante Carola Neher, che interpretò per lui l’“Opera da tre soldi”, fu arrestata a Mosca, Brecht disse: “Se è stata condannata, dovevano esserci delle prove contro di lei”. Carola morirà di tifo in prigione.

 

Il Brecht paladino di Berlino est aveva sempre la valigia pronta. Un vizio che lo accomuna a tanti altri figli della rivoluzione della Germania orientale. “Hilde la rossa”, la donna ministro della Giustizia cui si devono migliaia di condanne contro gli oppositori del regime, ha obbligato il suo unico figlio a studiare in Russia perché aveva cercato di recarsi a Oxford. Anche il capo del Partito comunista della Germania occidentale, Max Reimann, che viveva a Berlino est, aveva avuto dei guai con i figli. Il più anziano, Joseph, fuggì nella Germania di Bonn, ma fu presto raggiunto da agenti comunisti che lo riportarono a forza nella zona sovietica. O come Kurt Ebert, figlio del borgomastro della Berlino orientale, Friedrich, condannato a vent’anni di reclusione per spionaggio.

 

La leggenda brechtiana racconta che a scuola bruciò in pubblico la Bibbia e il catechismo, rischiando anche di essere espulso per le sue opinioni pacifiste. Una bugia costruita ad arte. Il drammaturgo era un maestro di propaganda: ogni giorno si pettinava i capelli sulla fronte, teneva perennemente una barba di tre giorni e scriveva i suoi libri in brossura grigi, anonimi.

 

Dopo la guerra si trasferì a Berlino est, ma si faceva pagare su un conto nella grassa, compiaciuta, filistea, borghese Svizzera. Eccolo il conto di Brecht a nome di Lars Schmidt: “Union Bank of Switzerland. Bahnhofstrasse. Zurigo”. Ma già negli anni Venti, si era rifiutato di avere a che fare con le cooperative editoriali del Partito comunista tedesco. Gli preferiva le aziende capitalistiche che pagavano puntualmente i diritti. Avverrà anche con l’editore Suhrkamp, simbolo di quei tedeschi dell’ovest “sfruttatori capitalisti”, profittatori, “distruttori sfacciati di esistenze”, “freddi”, sprovvisti di “calore umano”, “insensibili ai valori”, incapaci di “familiarità, amicizie autentiche”, “stregati dal consumismo”.

 

Dal libro di Parker, che indulge spesso nel discolpare Brecht “eretico” del comunismo, si scopre anche che il celebre poeta e scrittore abbandonò l’amante Margarete Steffin in un sanatorio per la tubercolosi a Mosca. La ragazza soffriva molto e quando i medici ne consigliarono l’immediato ricovero, Brecht non ne volle sapere: “Non servirebbe a nulla, e poi adesso ho bisogno di lei, non può starsene in ospedale”. In quel tempo Brecht cominciò a beneficiare dei tanti diritti di autore che gli venivano pagati da Mosca e Londra e viveva in una stanza di albergo a Boulevard St. Germain con telefono in camera. Eppure si lamentava della “povertà” e si rifiutò di provvedere alle cure per Steffin.

 

Margarete rinunciò alle cure e continuò a lavorare per il grande scrittore, per poi essere abbandonata a Mosca nel 1941, quando Brecht partì per la California. E a Mosca morì qualche settimana dopo, a trentatré anni, con l’ultimo telegramma di Brecht in mano. Mentre il suo idolo e amante ripeteva: “Sprofonda nella sozzura – abbraccia il boia – ma cambia il mondo – perché il mondo ne ha bisogno”.

 

E’ lo stesso Brecht che il 15 dicembre 1953 scrive una lettera al costruttore Hermann Hensellman implorandolo di fargli avere un water personale: “La casa in Schumannstrasse 14b è un edificio storico. Il Berliner Ensemble ha ricevuto in questa casa un appartamento di nuova costruzione. Ma il signor Koepsel del centro Bvm dice che non può installare un wc per ogni individuo per ragioni sociali, così gli altri residenti defecano nella tromba delle scale. Ora non si può impedire ai passeri o alle persone di cagare. Ti prego, come ricompensa per i miei versi su una vita migliore, di installare un bagno a quell’indirizzo”.

 

In un’altra lettera, Brecht supplica le autorità di fornirgli un lasciapassare da usare al checkpoint di Dahlwitz-Hoppegarten: “Caro compagno Maron, vorrei ancora chiedere un permesso speciale sulla base del quale posso passare il checkpoint. Il tono della polizia del popolo è diventato deprimente. Ho bisogno di riposo. Per favore, aiutami ad avere un documento che mi liberi dalle discussioni con la polizia del popolo”. E’ lo stesso Brecht che giustificava così lo stato di polizia: “Quando la grande borghesia e la nobiltà riuscirono a mantenere in vita il sistema capitalista instaurando una dittatura su tutte le altre classi, rinunciarono al tempo stesso a molte libertà individuali. Come può il proletariato sperare di istituire, senza questa rinuncia, la propria dittatura, indispensabile per edificare il socialismo?”.

 

I grandi letterati odiavano Brecht per questo suo cinismo ipocrita da manuale, da W. H. Auden, che lo definì “una persona odiosa”, a Thomas Mann, che lo chiamò “il mostro”.  Parker racconta di quando Brecht comparve di fronte alla House Un-American Activities Committee, che investigava sulle sue simpatie comuniste, e che nel rapporto definì lo scrittore “cooperativo”. Brecht si prostrò di fronte alla commissione americana in una “apparizione servile” pur di ottenere il visto per l’Europa. Dove iniziò a sputare contro Hollywood, che gli aveva dato da mangiare, in quanto “industria di narcotici”, contro il vero teatro, l’ensemble, il collettivo.

 

Interrogato il 30 ottobre del 1947 dalla commissione del senatore Joe McCarthy, alla domanda se fosse mai stato iscritto al Partito comunista rispose con un risentito diniego: “No, no, no, no, no mai!”. E quando gli chiesero se le sue opere fossero ispirate al marxismo disse: “No, penso di no, ma naturalmente, avendo scritto dei drammi storici, mi sono dovuto documentare… Le mie attività sono sempre state attività puramente letterarie, in totale indipendenza”. Gli intellettuali americani imputati assieme a lui avevano rifiutato di rispondere, difendendo il diritto alla libertà di pensiero, ed erano finiti in carcere. Uomini come Dalton Trumbo (l’autore di “Papillon”), Albert Maltz, Edward Lawson e altri come Alvah Bessie, Samuel Orty e Edward Dmytryk, che tennero testa alla commissione dopo aver deciso di servirsi del primo emendamento della Costituzione per avvalersi della facoltà di non rispondere. Brecht invece se ne andò con le sue gambe. E con i ringraziamenti della Corte per il valore della sua “sincera” collaborazione. Appena al sicuro in Europa, sbeffeggiò i suoi giudici e coimputati.

 

Era questo Brecht, una maschera di sardonica indifferenza e cinismo. La stessa che assunse quando i coraggiosi manifestanti di Berlino est vennero massacrati nelle strade sotto la sua finestra. Lui se ne stava a Buckow, sul lago di Scharmützel, in una splendida villa confiscata dal governo comunista a un “capitalista”. La usava per i suoi soggiorni estivi, ma in giro faceva sapere che viveva nella “villetta del giardiniere”. Per lui fu coniato un termine: “Salonbolschewik”.

 

Altro che eroe fideista dell’interesse collettivo. Piuttosto un bolscevico da salotto con un passaporto austriaco e che morirà da austriaco, ma con l’appoggio politico e finanziario del blocco orientale comunista, un generoso editore che lo sovvenzionava dalla libera Germania di Bonn e con un cospicuo conto in una banca svizzera, dove finirono anche i 160 mila rubli ricevuti per il Premio Stalin. Ovviamente detassati. Un mostro di meschinità, dunque.

 

Un altro intellettuale marxista di ben altra intelligenza critica, T. W. Adorno, di Brecht scrisse le parole più terrificanti, e autentiche: “Ogni giorno passa ore a infilarsi sporcizia sotto le unghie per sembrare un operaio”.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.