Autodifesa di un consigliere: “Ormai il garage c’è, tanto vale usarlo. In Italia non spendiamo i fondi europei, poi buttiamo i soldi pubblici per opere incomplete. Sarebbe sbagliato. Persino immorale”

Il giardino dei parrucconi

Salvatore Merlo

Palazzo Spada a Roma, interno giorno. Là dove c’era l’erba di un cortile seicentesco (rifatto), con fontane, palme e limoni, ora c’è un parcheggio interrato. E’ possibile? Sì, perché qui lavorano i consiglieri di Stato

Roma. Trasandate ragazze tedesche in minigonna che denuda le cosce possenti scattano fotografie con il cellulare. “How cute”, esclamano anziane signore americane con dentiere marmoree e vestiti incredibilmente succinti su corpi caduti. Impossibile un paragone con la ninfa dalle braccia armoniose che adorna la fontana, qui, a piazza Capo di Ferro, quindici metri da piazza Farnese, trenta metri da via Giulia. Ti guardi intorno, osservi i turisti, e la classicità sembra defunta, testimoniata soltanto nella piccola fontana e poi nelle nicchie, nelle statue apollinee, nei fregi e nella facciata di questo Palazzo maestoso che il cardinal Spada fece ristrutturare nel 1632 da Francesco Borromini. Ma per vederlo meglio questo Palazzo barocco bisogna farsi largo nella selva di lamiere d’automobili posteggiate, macchine di grossa cilindrata, talvolta dai vetri oscurati: sono le auto dei Consiglieri di Stato, supremi magistrati amministrativi d’Italia, potere grigio, senza individualità propria, senza nulla di sublime né di luciferino. Questa è casa loro, da cento anni. Prima posteggiavano dentro il giardino, tra gli alberi di limone, le palme e le fontane, in quest’ombra verde che si allargava per milleseicento metri quadrati a fianco di Palazzo Spada. Adesso il giardino è stato divelto, raso al suolo, le palme segate, e tra qualche mese i consiglieri potranno finalmente posteggiare nel garage “sotto” il giardino, laddove con il permesso della Soprintendenza ai Beni culturali si è scavato, a partire dal 1994, tra i marmi e le fondamenta di antiche costruzioni romane. Il sottosuolo di Roma, così friabile, così misterioso, così ricco di impicci e di memorie, di reperti e di fantasticherie. E’ talmente città di scavi, Roma, che per dare il senso di quel che accade sotto terra c’è voluto il genio visionario di Fellini.

 

[**Video_box_2**]“Lei lo sa quanto conta il Consiglio di Stato?”. Vezio De Lucia è uno dei più importanti urbanisti d’Italia, e mentre dice queste parole mi scocca uno sguardo duro e allusivo: “Il Consiglio di Stato è un potere pervasivo”, mormora. “E io lo so perché ho fatto l’assessore all’Urbanistica, a Napoli. Tutta la Pubblica amministrazione ha un rapporto con il Consiglio di Stato. Anche la Soprintendenza ai Beni culturali, ovviamente. Ecco, qui, a Palazzo Spada, sono stati concessi permessi inimmaginabili per il resto dei comuni mortali”. E dunque De Lucia mi racconta anche l’enormità antistorica rappresentata dai parcheggi, che siano interrati sotto palazzi del ’600 nel centro di Roma o sotto i grattacieli futuristici di New York e di Dubai. Mi dice che tutta l’urbanistica moderna è fondata sulla rimozione estetica delle automobili: nello Shard di Renzo Piano, a Londra, esiste uno spazio solo per un’eventuale autoambulanza. “E qui invece sono riusciti a costruire un parcheggio, scavando tra reperti archeologici del III e IV secolo. Malgrado i vincoli severissimi”. Codici e vincoli architettonici in Italia sono infatti macchine sorprendenti, piene di trappole anche negli articoli più semplici, che non si possono mai ricordare o citare a memoria e che vanno sempre aperti e letti a ogni applicazione, come il messale. Il prete la sa a memoria la messa, dopo tanti anni, ma la segue sempre sul messale, come la prima volta. L’ingegner Gianfranco Ruggeri, che lavora alla ricostruzione dell’Aquila, e che impazzisce da anni avviluppato nel groviglio della burocrazia, ha tenuto il conto dell’overdose di norme che regolano soltanto i lavori nell’Abruzzo terremotato: 5 leggi speciali, 21 direttive, 73 ordinanze del Consiglio dei ministri, 720 ordinanze del Comune… E tante sono le leggi, i commi e i codicilli d’Italia che Matteo Renzi, a un certo punto della sua lotta alle grandi burocrazie di Stato, ha definito così i soprintendenti: dei “signor no” che “incatenano il paese”, “un potere monocratico che non risponde a nessuno, ma passa sopra a chi è eletto dai cittadini”. E non c’è comune, provincia o regione d’Italia in cui qualche soprintendente non abbia impedito o quantomeno ritardato per anni la realizzazione di una piccola o grande opera, la ristrutturazione di un edificio storico, il restauro di un monumento o di un altro bene artistico e culturale. “La paralisi della conservazione. Il blocco preventivo. La cautela della tutela”, l’ha definita Giovanni Valentini su Repubblica. E Diego Della Valle, il signor Tod’s, stanco di aspettare che Roma accettasse i suoi venticinque milioni di euro per il restauro del Colosseo, si è talmente innervosito per tutto questo fluire vischioso, questo sostare, questo agitarsi nel torpore burocratico, da essersela presa con gli ultimi ministri della Cultura: “Tre deficienti”. Della Valle dice di volere fare del Colosseo, e dei suoi restauri, un business moderno e una vetrina di definitiva eleganza. Ma intanto nessuno prende i suoi denari e la memoria universale di questo poderoso anfiteatro si presenta circondata da arrugginiti tubi Innocenti, grottesco pendant dei legionari panciuti, dei paninari abusivi, delle bancarelle da suk arabo che lo recintano. Da quattro anni è pronto il progetto per la cancellata di ferro ma la Soprintendenza – eccola – non è d’accordo sul disegno, sulle proporzioni armoniche. Dunque non decide, legge e rilegge il messale dei codici, con il suo occhio lento e pesante, secondo un ciclo fissato chissà da chi e chissà da quando. Un sibilo pedante e regolare che risparmia però il potere impersonale di Palazzo Spada.

 


Tutto ciò che vale per il Colosseo e per l’Aquila non vale per il Consiglio di Stato. Ciò che vale per il Circolo del tennis delle Cascine, a Firenze, o per la Manifattura tabacchi di Lucca, non vale per le automobili della massima magistratura amministrativa, che saranno posteggiate nel centro di Roma, interrate all’ombra d’una piccola meraviglia che a marzo di quest’anno è stata demolita per la seconda volta in vent’anni, come mi racconta Mario Lolli Ghetti, ex soprintendente, direttore dei primi lavori (1994-2000). L’architetto Lolli Ghetti, stimato e molto conosciuto, si esprime con probità intellettuale, una lingua ricca e una vena di elegante narcisismo: “Negli anni Novanta ho trasformato un giardino che sembrava un orto di cavoli, un giardinetto da condominio anni Settanta, in un gioiello rinascimentale”. Poi aggiunge, con geometrica e involontaria ambiguità: “Mentre lavoravamo, al segretario generale del Consiglio di Stato venne anche voglia di fare un parcheggio interrato. E dunque, visto che c’eravamo, cominciammo a scavare”. Ed è stato infatti Lolli Ghetti a costruire le fontane, a piantare i limoni, e poi a dividere il giardino, per com’è stato conosciuto fino a pochi mesi fa, con il disegno armonioso delle sei aiuole sempre sbirciate dai turisti. “Recuperai un’incisione dell’Ottocento, dell’architetto francese Letarouilly, e feci costruire tutto da artisti moderni per com’era rappresentato nelle incisioni”. E così sono moderni anche i fregi delle fontane, “la cui descrizione ho recuperato da fonti d’archivio”: anche i gigli, il simbolo della famiglia Spada, che adornano le forme simil barocche non sono di marmo ma sono fatti di malta, cemento e polvere di mattoni.

 

“Un pasticcio”, dice Mirella Belvisi, vicepresidente, a Roma, dell’associazione ItaliaNostra: “E’ tutto fasullo. Mi chiedo quante volte hanno davvero messo le mani sul Palazzo e sul giardino, modificandoli a gusto del Consiglio di Stato”. E intorno a questa vicenda sono state presentate due interpellanze parlamentari, una da Ermete Realacci, alla Camera, e una da Luigi Manconi, in Senato. “Il ministro Dario Franceschini mi ha risposto, ma non ha chiarito nulla. Su questa storia ha pattinato”, dice Realacci, che pure è del Pd, come Franceschini. E Manconi, anche lui Pd: “A me invece non ha risposto per niente”. Poi, allusivo: “Non so se non rispondano per ragioni di interesse particolare”. E Franceschini, sovrano dei gruppi parlamentari del Pd, ex democristiano agilissimo nel saltare da una liana all’altra nell’intricato sistema di correnti che compone la misteriosa foresta del Partito democratico, non è precisamente un uomo da rivoluzioni e riforme antiburocratiche alla Renzi. “Al ministero è tutto fermo. Fermissimo”, dicono nei corridoi del MiBac, malgrado Renzi abbia dichiarato guerra alla burocrazia e alle soprintendenze. La compagna del ministro Franceschini, Michela Di Biase – aggiungono le stesse voci di corridoio ministeriale – è, fra le altre cose, presidente della commissione Cultura a Roma, “è inseritissima nel sistema dei beni culturali”, nonché uno dei nomi che vengono fatti per sostituire Flavia Barca, l’assessore dimissionario alla Cultura del comune di Roma nella giunta di Ignazio Marino.

 

E davvero non è facile sapere cosa sia accaduto a Palazzo Spada, dal 1994 a oggi, tra la Soprintendenza e il Consiglio di Stato. In casi del genere le amministrazioni dotate di regolamentare coda di paglia si comportano come quei famosi coniugi, i Bebawi, che accusati di omicidio presero ad accusarsi l’un l’altro puntando invero a una duplice assoluzione. Dalla Soprintendenza, interpellata, si riceve dunque questa risposta: “Il ministro ci ha vietato di parlare con i giornalisti”. E dal ministero arriva solo del generico materiale da ufficio stampa. Dunque mormora Vittorio Emiliani, ex giornalista, ex direttore del Messaggero, ex senatore progressista, presidente del Comitato per la Bellezza: “Questa storia è una perfetta rappresentazione dell’autosufficienza che a volte assume il potere burocratico, un potere antico, compatto, grigio e senza sesso”. E così, alla ricerca del giardino perduto di Palazzo Spada, abbattuto e ricostruito tra il 1994 e il 2000, e di nuovo raso al suolo pochi mesi fa dalla soprintendente Costanza Pierdominici, ci si ritrova in mezzo a questioni come il traffico, i parcheggi, l’inquinamento, lo stile, il privilegio e la funzionalità dei super organismi burocratici d’Italia, con tutti i sapori pesanti e sgradevoli del potere pubblico. “C’è un rapporto compiacente e corrivo tra il Consiglio di Stato e la Soprintendenza. E’ chiaro”, insiste Emiliani. “Una devianza intimamente corporativa tra grandi burocrazie. Ma perché il Consiglio di Stato deve vivere dentro un museo, dentro uno dei palazzi più belli e ricchi di storia d’Italia? Nella sala dove si riuniscono i magistrati, per dire, c’è la statua di Pompeo Magno. Si dice che ai piedi di quella statua sia stato ucciso Giulio Cesare. Capisco la Camera, capisco il Senato, capisco il Quirinale. Ma il Consiglio di Stato perché non si trasferisce in ambienti più adeguati a un ufficio pubblico, magari in un bel palazzo moderno. Con il parcheggio, visto che ne hanno bisogno?”.

 

Con la sua grandiosità e le sue miniature, Palazzo Spada pare fermare il tempo nell’eternità delle immagini, a beneficio del turismo con cellulari e fotocamere in tasca. E’ una mattina di lavoro come altre, i pochi consiglieri salgono solitari per la stradina che porta verso l’ingresso monumentale, scendono dalle loro grosse macchine quasi di fronte alla prospettiva del Borromini, si incrociano, si sorpassano, si sbirciano, si conoscono tra loro come adepti di qualche mistero. Un mondo nuovo è forse alle porte, fuori c’è Renzi, ma in queste stanze non se ne avverte il passo. Dentro il Palazzo domina un silenzio di roccaforte, disteso e uguale. Riservati, pieni di dignità e di dottrina, autorevoli, misurati, i magistrati vivono a Palazzo Spada come piselli in scatola. Ed è immediatamente comprensibile perché non vogliano trasferirsi altrove, in un quartiere da impiccati, livido come la carne morta, fatto di costruzioni tetre che guardano da finestre buie con lo sguardo sinistro delle cose necessarie, uno di quei luoghi che conserva l’odore di un’umanità da ufficio anagrafe, un’ufficialità da scartoffia, una burocrazia di gruppo C. E’ persino ovvio. Questa è un’istituzione più complessa e più straripante della Rai e dei ministeri, più dell’Anas e di quello che un tempo era l’Iri.

 

“Lei lo sa quanto conta il Consiglio di Stato?”. Per avere un’idea di quale concentrato di potere ci sia è sufficiente scorrere gli elenchi. Ne facevano parte gli ex ministri Antonio Maccanico e Gian Franco Ciaurro, poi Gabriele Pescatore, l’uomo che fondò la Cassa del Mezzogiorno, e ancora Corrado Calabrò e Antonio Catricalà, che in Italia è stato tutto, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con Mario Monti, ombra di Gianni Letta, viceministro dello Sviluppo con Letta nipote, segretario generale di Palazzo Chigi con Silvio Berlusconi, garante della concorrenza e del mercato con Prodi. E’ un consigliere di Stato anche Franco Frattini, ex ministro degli Esteri, ex commissario europeo alla Giustizia. E lo sono stati i due personaggi chiave del Quirinale negli ultimi vent’anni: Gaetano Gifuni e Salvatore Sechi. L’attuale presidente del Consiglio di Stato, Giorgio Giovannini, anche lui è stato tutto nella sua lunga e prestigiosa carriera: segretario generale del Consiglio di Stato, poi capo di babinetto del presidente del Consiglio dei ministri con tutti i partiti e tutti i presidenti: Fanfani, Spadolini, Forlani, Cossiga e Craxi. Poi Giovannini è stato ancora capo di gabinetto del ministero del Tesoro con Giuliano Amato e pure di quello delle Partecipazioni statali dal 1990 al 1993. Infine è andato all’Authority per la radiodiffusione e l’editoria.

 

Sacerdoti della forma e custodi della sostanza, pieni dell’unzione che un giorno ricevettero con la toga, e che perdono, da veri sacerdoti, solo con la morte, quando solo dal feretro, sormontato dal tocco coi filetti d’oro, emanano il loro ultimo splendore. Come stupirsi, dunque, se questi magistrati tenaci e fieri cercano di salvare la loro memoria, di rimanere gli stessi in mezzo al mutamento? Mi suggerisce Paolo Fallai, firma storica del Corriere della Sera a Roma: “Temo che i consiglieri siano infastiditi dai turisti che, per entrare nella galleria Spada, sostano di fronte all’ingresso del loro Palazzo. Il parcheggio e la nuova rampa forse servono anche a questo. La Soprintendenza potrà mettere a pagamento la prospettiva del Borromini, che adesso tutti sbirciano dal grande portone. E il Consiglio di Stato non avrà l’ingorgo plebeo del turismo di massa di fronte casa. E’ evidente che questi lavori difficilmente sarebbero stati autorizzati ad altri soggetti, vista la delicatezza dell’area, anche dal punto di vista archeologico”. E una conoscenza profonda delle stanze, dei corridoi e dei meccanismi del ministero della Cultura e delle soprintendenze ce l’ha Oberdan Forlenza, l’attuale segretario generale del Consiglio di Stato, già magistrato ordinario, l’uomo che ha riaperto i lavori a Palazzo Spada, l’alto magistrato amministrativo che ha convinto la Soprintendenza a completare la costruzione, con una rampa d’accesso, del garage interrato di cui sarà, berlusconianamente parlando, l’utilizzatore finale. Forlenza, anche lui, a soli cinquantacinque anni, è ovviamente già stato tutto, e la sua carriera non è che a metà strada. Nel suo ufficio di Palazzo Spada domina una volta affrescata, come nella Cappella Sistina, è un’allegoria: il carro del Sole preceduto dall’Aurora che mette in fuga la notte. E in questa magnifica stanza damascata, dove dominano l’oro e l’azzurro sul cotto antico, tra gli arredi di stagionata opulenza, lui è come un Dio, un piccolo Minosse, un nume inesorabile: consigliere giuridico del vicepresidente del Consiglio Walter Veltroni con Romano Prodi presidente, assessore regionale ai Beni culturali in Campania con Antonio Bassolino, capo di gabinetto al ministero della Cultura con Giovanna Melandri e poi capo di gabinetto al ministero dell’Università con Fabio Mussi fino al 2006.

 

E insomma per il Consiglio di Stato, riaprire i lavori a Palazzo Spada, è stata una rapida pratica amministrativa, uno scambio freddo e complice, un passo incrociato con la Soprintendenza. Al ristorante Camponeschi, su piazza Farnese, incontro un consigliere di Stato, parliamo d’altro, poi gli chiedo del parcheggio. Ed ecco che il consigliere mi fa il gesto storico dell’ecumenismo morale italiano: le dita della mano leggermente divaricate a formare una raggiera avvolgente in un movimento circolare appena accennato, come a rimestare, ad amalgamare, a plasmare, rappresentando così la natura magmatica di un mondo dove tutto è possibile, tutto lo può diventare, su tutto si può trovare un’intesa, a tutto una soluzione. E’ imbarazzato. E’ una brava persona e non vuole comparire in un articolo di giornale, mi spiega che “i soldi sono già stati spesi, il garage è già pronto. Bisogna fare solo la rampa d’accesso per le macchine. Non si possono buttare i denari. Sono soldi pubblici. L’opera è ormai fatta, è finita. Visto che ormai c’è il garage, tanto vale usarlo. In Italia non spendiamo i fondi europei, poi buttiamo i soldi pubblici per opere incomplete. Sarebbe sbagliato. Persino immorale”. Ma più che con l’Europa, i consiglieri di Stato devono fare i conti con la Roma antica. Non è il futuro che aggredisce i Nostri ma il passato che sta sopra e sotto la terra capitolina. Non è il progresso che non riescono a gestire, ma il pregresso. E non sono persone cattive, tutt’altro, ci mancherebbe. Come tutti i grandi burocrati, come i politici, semplicemente adorano il comando e i suoi simboli, le sue comodità, i suoi piaceri. Dunque la dimora barocca, con parcheggio interrato, è per loro un riflesso luccicante del Potere. E c’è in tutto questo qualcosa di così antico da rasentare l’inesorabilità, il passato che non passa, l’eternità persino. “Sono stati dati tutti i permessi”, ha spiegato Forlenza. Che ha poi aggiunto, in un soffio: “… permessi in deroga”. Strano ossimoro. E’ possibile immaginare una prosa più chiara e insieme più oscura, vale a dire più “romana” di questa? Il permesso “in deroga” è un “quasi” permesso, insomma un paradosso, è come pranzare digiunando o dialogare in silenzio. E con il permesso “in deroga” siamo evidentemente ben più avanti rispetto all’ossimoro perturbante descritto da Freud, e anche rispetto alle convergenze parallele morotee. Il “quasi” permesso, il permesso in deroga, è infatti il tic linguistico a cui si affida l’inconfessabile.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.