Memorial Caffè

Stefano Di Michele

Scese giù dal sesto piano – Federico Caffè, professore illustre di Politica economica, quel pomeriggio di trent’anni fa. Lentamente, scese. Pallido, dissero. Vestito di scuro, come sempre. Stringeva mani, riceveva sorrisi.  

“Poi c’è la notte da superare, almeno sino a quando non viene il sonno…” (Federico Caffè, lettera a Bruno Amoroso, 15 settembre 1982)

“Federico Caffè non poteva chiudere la propria carriera universitaria in un momento peggiore, sotto una pioggia di foglie morte” (Ermanno Rea, “L’ultima lezione”, Einaudi)

Scese giù dal sesto piano – Federico Caffè, professore illustre di Politica economica, quel pomeriggio di trent’anni fa. Lentamente, scese. Pallido, dissero. Vestito di scuro, come sempre. Stringeva mani, riceveva sorrisi. Faticosamente sorrideva. Scendeva, il professore. Come da quarant’anni, ogni mattina, con lo stesso autobus (numero 47) scendeva dalla collina di Monte Mario dove abitava (via Cadlolo, 42) fino alla stazione Termini. Da lì, un altro autobus fino a via del Castro Laurenziano, facoltà di Economia. Poi su al sesto piano – dipartimento di Politica economica. Da sempre, così. Una vita, un mondo intero – la vita stessa. Che quel giorno di giugno, lo sapeva (lo sentiva) il professore, cominciava a finire – quel mondo, quella vita. La vita stessa, chissà. Verso una discesa che non avrà risalite. Anni dopo, racconterà la bibliotecaria: “Tutto comincia da lì, dal giorno dell’ultima lezione”. Giugno 1984.

Hanno raccontato con stupore che a volte il professore fischiettava. “Il flauto magico” di Mozart. Anche “Nashville”. Persino “Jesus Christ Superstar”. Diceva: “Il mondo è pieno di cose belle e il fascino spesso si annida negli angoli nascosti, minimi, della realtà. Basta cercarlo”. (Quel giorno, però, nessuno lo udì fischiettare, ché forse neppure negli angoli nascosti riusciva adesso a scovare qualcosa di bello). Lassù al sesto piano, nell’ufficio del professor Federico Caffè, la luce tracima: tre finestre su una parete, tre grandi finestroni sull’altra. In certe giornate limpide di sole si vede sullo sfondo il monte Velino – l’Abruzzo, dove il professore è nato settant’anni prima. La stazione Tiburtina, quasi a portata di mano. Il quartiere Nomentano. Il cimitero del Verano. Un paesaggio immobile e indispensabile. Sa che l’ora si sta avvicinando – il professore. Un’ora diversa, poi non troppo dissimile dalle molte già passate – che lo avevano portato a trascrivere un verso amaro dell’amato Montale: “La sera si fa lunga…”, per poi aggiungere quattro parole: “… Senza coloro che amiamo”. L’identico che rassicura e spaventa. Hanno tutti un sorriso forzato, quelli che gli tendono la mano, mica così lontano dal suo affaticato sorriso – i colleghi, gli studenti, gli impiegati: mentre passa nei corridoi, entra nell’ascensore, attraversa l’atrio. Tra la folla sparisce – così piccolo, appena un metro e mezzo di altezza. Dalla folla vorrebbe fuggire. Soprattutto oggi. Sa cosa ci sarà – dopo: il vermut e il prosecco (non per lui, astemio), le paste, la torta, il brindisi. La festa (di cosa?). “Ma bravi, mi avete fatto la festa…”, dirà con un sorriso tirato. E’ stata finora una giornata come mille e mille e mille altre, giornate simili sparpagliate nei decenni – questa, che l’ultima ancora non è, ma è come se fosse l’annuncio dell’ultima che verrà. E’ arrivato con la sua solita borsa nera, il professore. Ha fatto le solite cose. All’una e mezzo, dalla borsa ha tirato fuori il solito pranzo che si porta sempre dietro da casa – a volte un panino con la frittata, oggi “una scodellina ben sigillata che conteneva alcune cucchiaiate di riso, un frutto, un involucro con del pane” (Ermanno Rea, “L’ultima lezione”). Poi ha dormito un po’, sulla poltrona vicino alla scrivania. Adesso è ora di andare. Con addosso la maschera più faticosa e dolorosa: quella del sorriso.

Non nella sua solita aula, al piano terra della facoltà, dove duecento, duecentocinquanta studenti assistevano ogni volta alle sue lezioni. “Lo sospingono in una sala diversa da quella nella quale pensava di dover tenere la lezione: un ambiente molto più grande. Caffè si lascia docilmente guidare. Appena dentro, scattano tutti in piedi: è un’aula gremitissima nella quale gli applausi scroscianti sembrano quasi volerlo sollevare da terra, farlo levitare verso l’alto dove più intenso è l’effetto acustico. La folla è composita: ci sono i giovanissimi, i giovani, quelli di mezzo, gli anziani. Ci sono il rettore, il preside della facoltà, colleghi di ogni età e ogni scuola di pensiero. Non mancano naturalmente i benpensanti. Soprattutto però ci sono i suoi allievi: quelli che aspettano ancora di laurearsi e quelli che si sono laureati da un pezzo, quelli che lavorano come lui nell’ambito universitario e quelli che invece sono stati assorbiti dalle grandi istituzioni economiche…” (Rea). Nella folla, appare e scompare il minuscolo professore dalla grossa testa. Adesso è dietro la cattedra, sul proscenio che ha tenuto per così tanti anni: “Ogni restaurazione reca in sé i germi dell’oltranzismo intollerante…”. Cerca forse i visi amati – il professore che sente la notte allungarsi: s’intravede, dentro l’ovazione dovuta e la silenziosa attenzione, la definitiva linea di approdo. I suoi allievi – “i libri che non ho scritto”, li aveva definiti, quasi tutto ciò che ha. E tutto ciò che sta per perdere. Pare allungarsi su molte cose, adesso, la sera – non solo sulla vita stessa del professore, ma sulle sue battaglie, sulla sua visione del mondo. Divorano, gli anni che sono, ciò che lui pensava dovessero essere. E’ un keynesiano convinto, Caffè. E’ un riformista affaticato. E’ dentro la bufera di un mondo che va da tutt’altra parte – bisogna ricordare è la metà di quegli anni Ottanta, adesso. E’ Reagan che trionfa. E’ la signora Thatcher che stravince. Quello che lui chiama il “retoricume liberista” ha preso vento nelle vele, vola alto, “chiari e insinuanti inviti ad arricchirsi”, dice. Non c’è mai violenza, nella parole di Federico Caffè, né eccessiva enfasi. Sa che le sue idee hanno ora le spalle al muro – minoritarie, coperte di polvere, inservibili. Come una lingua muta, la lingua che ha usato per tutta la sua vita. Sul Manifesto aveva scritto che “il riformista è ben consapevole di essere costantemente deriso”, alla solitudine condannato (“La solitudine del riformista” fu il titolo che il giornale del suo amico Valentino Parlato scelse per l’articolo). Ha contro gli estremisti, che quasi un servo del regime lo considerano. Ha contro il fronte opposto, quelli che incensano “l’operare spontaneo del mercato, posto che lo si lasci agire senza inutili intralci” – Gordon Gekko, o giù di lì. Ha attorno, per questa sua ultima lezione, una folla che lo ama e lo stima, il professore. Però sa pure di essere solo, che solo resterà – subito dopo queste ore che testimoniano la sublimazione della cattedra e scandiscono l’attimo del suo abbandono.

Ha settant’anni, deve lasciare l’incarico che a Roma ricopre ormai dal 1959. Via del Castro Laurenziano. Il bus 47. Le tesi degli studenti. La luce di quelle finestre al sesto piano. La cattedra – il senso di tutto. A un suo allievo, ora suo collega, ha detto: “Guarda che io non ce l’ho con nessuno. Anzi sono il primo ad ammettere che il limite dei settant’anni è sin troppo generoso e che fanno bene all’estero dove collocano a riposo i professsori molto prima”. Capisce però questo, il professore, che “uomini del mio genere o contano molto oppure non contano niente”. E spesso racconta la storia che gli ha raccontato un suo amico, di quella tribù africana dove le persone anziane vengono portate sulla riva di un fiume, “e spinte, dolcemente ma inflessibilmente, con lunghe pertiche verso il punto del non ritorno”. E’ questo che vede, il tendersi di quelle pertiche, dentro l’aula forzatamente festosa nel caldo pomeriggio di giugno? E’ una rivendicazione orgogliosa, quell’ultima lezione – di ciò che lui è stato, di ciò che uomini e terra non sono diventati. “Abbiamo fatto del nostro meglio per peggiorare il mondo”, aveva scritto a un suo allievo, Bruno Amoroso, adesso anch’esso professore universitario. Per la prima volta legge, invece di parlare a braccio. Difende ancora e con più forza il pensiero del suo Keynes, rievoca soprattutto (questo il cuore di quell’ultima lezione) l’economista e ministro del secondo Ottocento, Francesco Ferrara. Un liberista, uno spregiudicato intellettuale, un teorico del libero mercato. Ne loda l’intelligenza – lo aveva già fatto, “una conoscenza quasi medianica dell’intima fibra del paese” – e punta l’indice sulle conseguenze di quel pensiero. “Se non si è formata una coscienza dello stato, dice in sostanza Caffè, ciò avrà pure i suoi responsabili. Fra i quali, oltre a Francesco Ferrara, non si possono non elencare tutti i grandi liberisti che discendono dalla sua pianta: Pareto, Pantaleoni, Einaudi. Fino ad arrivare agli attuali ‘nipotini’ di Reagan. Senza rinunciare al tono misurato, ecco che adesso il professore si fa sferzante, mostrando involontariamente quanto profonde siano le sue ferite di riformista isolato, escluso, vittima di quel ‘preoccupante arretramento culturale’ in atto in Italia, e in genere nel mondo, dopo il decennio delle speranza” (così la cronaca di Ermanno Rea nel suo libro). “Si giunge – legge il professore – a negare anche le conseguenze sociali delle disparità dei punti di partenza individuali, attribuendole unicamente a fattori biologici, genetici, e di originaria dotazione intellettuale…”. L’ultima lezione è finita. Segue dibattito. Segue rinfresco. L’ultimo giorno, di una fila interminabile di giorni uguali e rassicuranti, si sta per concludere.

Avevano cercato il regalo per il professore, i suoi allievi, laureandi e neo laureati. Difficile – non trovare il regalo, piuttosto convincere Caffè ad accettarlo. Ci avevano già provato con un orologio. Il professore aveva reagito male: “Dovreste conoscermi ormai. Lo sanno tutti in questa facoltà che io non accetto regali”. I ragazzi dissero che non c’era interesse dietro, che lui stava per andare via. Il professore disse che era il principio che contava. Lo accettò. Poi passò dall’orologiaio, chiese il prezzo. La mattina dopo, sulla sua scrivania, fece trovare cinquecentomila lire. Disse ai ragazzi di dividersi la cifra. Così fu per una borsa. “Fatene quel che volete, ma non sperate affatto che io ceda”. E adesso? Serve qualcosa che non possa ricomprare, qualcosa che fatichi a non accettare. Viene in mente di chiedere una vignetta a Emilio Giannelli. Che accetta – in cambio di una copia del manuale universitario di Caffè. Nella vignetta, il professore è seduto al tavolino, mentre evoca lo spirito di Keynes. Al professore porgono l’opera e insieme una surreale fattura col dettaglio delle spese. “Retribuzione a Emilio Giannelli: zero lire. Carburante 1° viaggio a Siena (Fiat Uno): 35.000. Carburante 2° viaggio a Siena (131 Diesel): 20.000. Carburante viaggiatori (“grazie” dei viaggiatori): 28.600. Autostrada 1° viaggio (abbiamo sbagliato uscita): 18.500. Autostrada 2° viaggio: 17.800. Cornice e buste: 14.000. Fotocopie disegno (1 a testa ai partecipanti più 1 per Giannelli): indagine di mercato: 1 x 5.000: 5.000. Indagine di mercato: 1 x 4.500: 4.500. Economie di scala 25 x 3.500: 87.500. Una torta (contributo a iniziativa assistenti post lezione: 21.000). Ringraziamento a Giannelli: 1 Caffè (“Lezioni di politica economica”): 29.000. 1 Keynes (“Esortazioni e profezie”): 20.000. Totale: 300.900. Diviso 25: 12.000 a testa”. Adesso finalmente il professore ride. Il giorno dell’ultima lezione finisce come gli altri: prima di uscire da via del Castro Laurenziano controlla che tutte le luci fossero spente, che tutti i rubinetti dei bagni fossero chiusi, che tutte le finestre fossero serrate. Poi, alla fermata dell’autobus: prima quello per arrivare a Termini, poi il solito 47 per salire fino a via Cadlolo, sulla collina di Monte Mario. C’è il fratello Alfonso, malato, ad aspettarlo. La loro vecchia tata, Giulia. Quasi non parlano, stasera.

Tutto comincia a correre, dopo. Più esattamente: a precipitare. Il professore subito chiede di poter lasciare il suo vecchio ufficio – quello con le grandi finestre, quello da cui si vede il profilo dell’Abruzzo – al suo successore, il suo ex allievo Nicola Acocella. “Il nuovo titolare di Politica economica sei tu: tocca a te quella stanza”. Acocella non vuole, tergiversa. “Professore, che dice mai… Una cosa del genere non sta né in cielo né in terra…”. Così il professore, una sera che tutti sono andati via – sempre l’ultimo ad uscire, da via del Castro Laurenziano – prende le sue cose e si trasferisce “in un piccolo ambiente attiguo, una sorta di locale-ripostiglio senza finestre (prende aria da tre aperture alte poste sotto il soffitto. Al mattino si fece trovare lì” – senza più alcun orizzonte intorno. Anche a casa, mesi dopo, abbandona la sua camera per un locale più piccolo. C’è un filo che si consuma, adesso, nella vita del professore keynesiano, una miccia che brucia in fretta – miccia breve che corre da quella sera di giugno alla notte sospesa tra il 14 e il 15 aprile di tre anni dopo, a un’ora imprecisata – alle cinque e mezzo, dirà un vicino, si è sentita aprire la porta di casa del professore… Prima, però, prima. Una sera. Il professore è a cena con alcuni dei suoi allievi. Una studentessa giura di saper leggere la mano. Il professore le porge la sua (piccola, lieve, leggera). “Quante cose vedo…”. “Me ne dica almeno una”. Indica la linea della vita: “Professore, è lunghissima”. “Non è una buona notizia”.

Arde in fretta, quella miccia, perché alimentata da depressione, da sconforto, dall’orizzonte perduto. Dal dolore, dalla fragilità degli esseri amati. Dalla morte ingiusta. E dal delitto. Alcuni tra i suoi allievi più amati finiscono tragicamente. Franco Franciosi, ucciso da un cancro. Fausto Vicarelli, morto in un incidente stradale. E poi, Ezio Tarantelli, ammazzato dalle Br: lì, nel parcheggio dell’università, proprio sotto le finestre del suo vecchio ufficio. Gli assassini minacciano anche lui – lui fa spallucce, “io mi muovo in autobus, e non intendo assolutamente rinunciare ai mezzi pubblici. Grazie no, niente scorta”, gli occhi fissi su quelle morti precoci e ingiuste. “Ma perché la sorte si è accanita su di loro, così giovani, e non contro di me, così vecchio e malandato?”. A gennaio, tre mesi prima della notte di aprile del 1987, smise di leggere le tesi degli studenti – che aveva letto per tutta la vita. (Gli studenti erano l’elemento centrale nella vita di Caffè. Moltissimi dei suoi sono diventati celebri – diversa visione, diverse scuole di pensiero: fermo, non dogmatico, il professor Caffè. Su Repubblica, eccone alcuni rievocati da uno di loro, Daniele Archibugi, insieme a Marco Ruffolo: “Tra i suoi numerosissimi allievi troviamo di tutto: i paladini dell’antagonismo sociale, come Bruno Amoroso, i difensori intransigenti dell’intervento pubblico come Nicola Acocella, gli esploratori di nuove forme di protezione sociale, come Enrico Giovannini, i fautori di una attiva politica economica capace di controllare l’azione dei mercati, come Marcello de Cecco. Che tra i suoi allievi vi siano anche il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, e il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, indica quanto la sua scuola sia stata tutt’altro che monocorde”, e tanti, tantissimi altri). E tra i libri più belli e intensi, per provare a capire pensieri e forse paure e certo passioni del professore, insieme all’indispensabile “L’ultima lezione” di Ermanno Rea, proprio quello del suo allievo Bruno Amoroso, “Federico Caffè. Le riflessioni della stanza rossa” (Castelvecchi).

C’è una disperazione finale, “un vuoto sotto di me”, negli occhi del professore, dicono quelli che tra gli ultimi lo hanno incontrato – magari ricevendo in dono un libro di Stendhal o di Eliot, “è il poeta della solitudine”. Tacciono però, adesso, gli amati Mahler e Brahms. Tutto corre – in quell’aprile così perfettamente identificato nei versi che stringe tra le mani, “il più crudele dei mesi”. Precipita dalle scale Primo Levi, appena tre giorni prima del dissolvimento del professore. “Che spettacolo straziante farsi trovare così…”. O forse, la miccia che ora brucia rapida era stata accesa tanti e tanti anni prima. Aveva scritto a Bruno Amoroso, 2/XI/1973: “Ad un certo punto, la vita diventa monotonamente ripetitiva ed è questo senso del tutto già visto, tutto già sperimentato, tutto privo di significative variazioni che costituisce (mi sto rendendo conto) il ‘taedium vitae’…”. Lascia tutto in ordine sul comodino – occhiali, chiavi, portafoglio, documenti. Esce piano, nella notte di primavera. Chissà chi lo aspetta. Chissà dove si fa condurre. Dove si nascose. Dove divenne polvere. Lo cercarono i suoi allievi. I cani poliziotto. I poliziotti a cavallo. I giornalisti. Chi vide un barbone. Chi immaginò un uomo nell’ombra di un convento. Chi scomodò i veggenti – un lago d’acqua, su, verso Viterbo… Solo ombre. “Le mie idee restano le mie idee” – testardo Caffè. E infine, chi rievocò Ettore Majorana, anch’esso scomparso. E il libro di Leonardo Sciascia sul fisico sparito, “La scomparsa di Majorana”, non fu più trovato nella biblioteca del professore. Chissà: se un’illusione, se una traccia anch’essa ormai svanita. C’è però quel ritratto che Sciascia fa di Majorana, e che perfettamente sembra adattarsi a Caffè, “il dover rispondere alle premure e sollecitazioni degli amici, il dover fare quel che gli altri facevano o quel che gli altri da lui si aspettavano, e insomma il dover adattarsi di un uomo inadatto”. Forse il professore ha battuto tutti, riuscendo nell’intelligente miracolo di una perfetta scomparsa. Forse fu solo umanamente travolto da un insieme di circostanze feroci. Forse fu solo un caso. Forse fu un’equazione sbagliata. Forse (chissà) non lo sapremo mai. Se non che tutto cominciò quel giorno di giugno di trent’anni fa – il giorno della sua ultima lezione. Forse.

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