La “Dichiarazione di indipendenza” americana (in realtà la presentazione della bozza al Congresso), dipinta da John Trumbull tra il 1817 e il ’19

Addio alle nazioni

Non è chiaro per quale motivo il titolo del nuovo romanzo di Tom Rachman differisca soltanto di un “the” rispetto al classico di Paul Kennedy, “The Rise and Fall of the Great Powers”, in cui lo storico di Yale rintraccia il complicato legame fra l’allocazione delle risorse militari di una potenza e la sua capacità di affermarsi relativamente alle altre potenze.

Non è chiaro, sulle prime, per quale motivo il titolo del nuovo romanzo di Tom Rachman differisca soltanto di un “the” rispetto al classico di Paul Kennedy, “The Rise and Fall of the Great Powers”, in cui lo storico di Yale rintraccia il complicato legame fra l’allocazione delle risorse militari di una potenza e la sua capacità di affermarsi, nel lungo periodo, relativamente alle altre potenze. Tutto dipende dalla gestione dell’economia in tempo di pace, sostiene Kennedy, dunque le guerre, che apparentemente stabiliscono vincitori e vinti, non sono che epifenomeni, manifestazioni improvvise di processi storici che si sviluppano sotterraneamente, quasi in silenzio. Una specie di tettonica a placche geopolitica di cui nessuno si cura troppo finché non arriva un terremoto.

[**Video_box_2**]Per la verità nemmeno alla fine del romanzo è dato di sapere perché in “The Rise and Fall of Great Powers”, in uscita la prossima settimana negli Stati Uniti, quel “the” sia scomparso – forse soltanto questione di copyright, forse solo coincidenza – ma di certo ai personaggi di Rachman non manca il senso della storia, l’idea che esista una radice misteriosa, insondabile aggrappata sotto le vicende volatili della superficie. La geopolitica non c’entra, almeno non esplicitamente, anche se fa capolino il tramonto dell’occidente preconizzato da Oswald Spengler e il ciclico dibattito fra declinisti e ottimisti riguardo al destino degli Stati Uniti; Kennedy, del resto, teorizzava negli anni Ottanta il declino americano, che si esprime eminentemente nell’incapacità di investire risorse per promuovere la crescita economica e contemporaneamente aumentare le spese per la difesa; l’ascesa e il declino hanno a che fare piuttosto con il destino dei singoli e con il desiderio, disperatamente utopico e inebriante, di eludere le tendenze ineludibili che muovono la storia. “Ciascuno è la sua nazione, con il suo blog. Perché tutti hanno qualcosa di importante da dire; tutti mandano in giro comunicati stampa per raccontare cos’hanno mangiato a colazione. E’ l’èra della presunzione. Ognuno è il suo mondo”, dice Venn, personaggio ammaliante, a tratti luciferino e a tratti salvifico, che dirige l’orchestra degli eventi da un punto invisibile del golfo mistico. “Tutti quelli che si agitano per il declino degli imperi non capiscono il punto. Non ci sono oriente e occidente oggi. Come dice il poeta: ‘Non ci sono più le società, soltanto gli individui’”.

Il giovane scrittore nato a Londra, cresciuto a Vancouver, laureato a Toronto, specializzato a New York, giornalista a Roma, caporedattore a Parigi, infine scrittore nuovamente a Londra racconta di una ragazza americana, Matilda Zylberberg detta Tooly, che si trasferisce dall’Australia alla Thailandia, si stabilisce a Brooklyn, frequenta un appartamento di studenti a Manhattan sulla 115esima strada in cui dice di aver vissuto da bambina – ma è quello che dice a tutti gli sconosciuti che accosta sfrontatamente sulla porta, solo per il gusto di dare un’occhiata alle vite altrui – e finisce per comprare un’improbabile libreria nella provincia gallese con i soldi di un conto che si riempie da sé. Lei la chiama la Banca Magica. Non c’è una situazione iniziale che poi s’ingarbuglia: si parte già ingarbugliati e si procede a ritroso per riannodare i fili spezzati e ricomporre i cocci sparsi per le strade di mezzo mondo. Ad essere spezzata è la vita di Tooly, giovane che il lettore immagina infusa di una bellezza fragile, ma la cifra della scrittura di Rachman non è descrittiva, si procede per immagini e puntini sparsi nei dialoghi da unire, come nella Settimana enigmistica. Tooly ama i libri e ha una speciale ossessione per le parole. Di quelle più difficili non è certa di conoscere la pronuncia corretta: il continuo vagabondare l’ha costretta ad abbandonare la scuola a dieci anni, le parole più elaborate le ha lette sui libri, senza averle mai sentite pronunciare a voce alta.

Nella sua libreria, la “Fine del mondo” entrano pochissimi visitatori, l’unico avventore abituale non compra mai nulla ma annota diligentemente i codici ISBN dei libri che gli interessano, consulta i prezzi online sullo smartphone e “con la mano sulla maniglia della porta si lamenta di quante poche buone librerie siano rimaste in circolazione”. Fuori dalla porta c’è il “barile dell’onestà”, contenitore di vecchi libri che i passanti possono prendere lasciando la somma dovuta nell’apposita cassetta. Idea di marketing rudimentale ma felice, resa giusto complicata nella pratica dal clima del Galles: quando piove il barile va portato all’interno, e da quelle parti piove almeno una volta al giorno.

Tooly non ha una famiglia. Anzi una famiglia ce l’avrebbe anche, ma è quanto di più scombiccherato si possa immaginare, un gruppo di personaggi che non c’entrano nulla con lei e cozzano anche fra loro, si procede per capitoli interi chiedendosi chi sia esattamente Humphrey, il vecchio farmacista-intellettuale “marxista non praticante” messo “all’angolo dalla storia” che parla un inglese sghembo macchiato di russo e scombina le frasi fatte: “Non ci credo neanche se lo vedo con le mie orecchie”. La sua natura obbedisce a una legge fisica detta della “Gravità del disordine”, nel senso che quelli disordinati come lui “sono soggetti a una forza di gravità maggiore rispetto agli altri”. Il ruolo di Humphrey consiste, apparentemente, nel battere Tooly a scacchi, esporre teorie su qualunque argomento, divorare libri del suo pensatore di riferimento, John Stuart Mill, e incalzare la ragazza in dialoghi surreali:
- “Come puoi camminare fino a Manhattan?”.
- “Smettila di tenermi qui!”, disse lei ridendo.
- “Passo una legge che non ti permette di camminare oggi”.
- “Metto il veto alla tua legge”.
- “Chi ti ha dato potere di veto?”.
- “Tu”.
- “Te lo tolgo”.
- “Faccio un colpo di stato e scrivo nella nuova costituzione che posso camminare”. Il vecchio ha una fascinazione molto russa, benché non proprio kirilloviana, per il suicidio, “l’ultima espressione della volontà”, ma è incagliato da decenni sul “Problema dell’Imbecille”, importante motivo di suicidio per molti sofisticati uomini di lettere: “I babbei danneggiano gli intellettuali, le idee stupide diventano la moda, le ciance sono scambiate per genialità”: questo mette a Humphrey voglia di togliersi la vita, ma sarebbe una vittoria per gli imbecilli. C’è più di una consonanza con Gary Stheyngart e Jonathan Safran Foer, scrittori della stessa generazione di Rachman, nonché maestri del pasticcio anglo-slavo, del dialogo arguto e tendente all’assurdo, delle teorie popolari strampalate e perfettamente coerenti.

Poi c’è Paul, tutore serafico di Tooly e contractor del dipartimento di stato che si occupa dei sistemi informatici delle piccole ambasciate americane e ogni anno viene spostato in una sede diversa. E’ lui che si prende cura della bambina costretta a un’eterna condizione di isolamento, ma più che un girovagare quello di Paul sembra un’eterna fuga. Da cosa si scoprirà. Di tanto in tanto si precipita sulla scena Sarah, figlia di un italiano e una inglese cresciuta in Kenya e poi fuggita per altre strade (ci si trova anche ad Anzio, tributo di Rachman ai suoi trascorsi italiani). Sarah vive in una dimensione parallela rispetto a qualunque altro essere ma ha la stupefacente capacità di materializzarsi ovunque sia Tooly, da Bangkok a Brooklyn. Fuma sigarette sottili al mentolo e cambia umore con disarmante rapidità. Ora è la migliore amica di Tooly, ora una presenza irritante con una spiccata tendenza a scocciarsi di qualunque situazione. Sparisce di frequente. Venn, si diceva, è l’ambigua incarnazione di un ideale che pretende di essere la risposta alla controversia fra “rise” and “fall”: è l’uomo che s’avventura sulla strada della liberazione dalle passioni, lo smantellamento delle regole e delle convenzioni, ma non già seguendo la via rivoluzionaria. Venn è più sofisticato di così. Quando parla a Tooly del suo rapporto con il denaro – un rapporto ben consolidato, a giudicare dallo stile di vita che conduce – sembra di sentire le argomentazioni del banchiere anarchico di Pessoa, che non potendo abolire con un’azione sovversiva la finzione del denaro decide di guadagnarne il più possibile per liberarsene: “Non troverai nessuno a cui interessano i soldi meno che a me. Di quanto ho bisogno per vivere bene? Quanto spendo? Niente. Il denaro non è per nulla interessante. Quello che io e te vogliamo è liberarci dagli stupidi. Meno soldi hai, più devi avere a che fare con degli stupidi. I soldi sono noiosi. Ma l’indipendenza? Quella è interessante”. La dipendenza è il male che Venn combatte coltivando l’ideale non già dell’asceta ma dell’outsider, l’antagonista estremo delle convenzioni dominanti. “La gente crede nel progresso – dice Venn – gli scienziati cureranno le loro malattie, internet sistemerà le loro vite sentimentali, la tecnologia risolverà le crisi petrolifere. Ma il progresso ha teso una trappola, presentandoci l’ultima ghiottoneria: questi doppi clic che hanno trasformato tutti in roditori che premono tasti. I film di fantascienza avevano sbagliato tutto: nessun robot ha schiavizzato l’umanità. Quel che è successo è molto più ingegnoso: i servi sono diventati padroni grazie alla loro affabilità. Nessun microchip è stato impiantato nella testa delle persone. La gente ha semplicemente consegnato il proprio cervello. Il vero scontro di civiltà non è fra l’islam e l’occidente, o fra la Cina e l’America. E’ fra ciò che le persone erano e ciò che sono diventate”.

Tooly subisce il fascino di questa radicale ambizione verso la liberazione dai legami, della boriosa ironia di chi guarda il mondo da uno schermo, senza immischiarsi, ma allo stesso tempo tutta la sua vicenda consiste nella ricerca delle sue radici: chi è questa gente che mi ha cresciuto? Che lavoro fa Venn? Da dove vengo? Dov’è la mia casa? Chi sono i miei genitori? Dove ho davvero abitato quand’ero bambina? Perché quel russo invecchiando ha perso l’accento? Che fine hanno fatto quelli dell’appartamento della 115esima strada? Chi sono io? Ad accompagnarla c’è una consumata copia delle avventure di Nicholas Nickleby, un altro orfano, e un vecchio fidanzato, Duncan, un membro dell’appartamento di Manhattan, diventato nel tempo il cliché del ricco avvocato newyorchese eternamente stressato con doppio BlackBerry e famiglia altoborghese in Connecticut con cui, a dirla tutta, non ha troppa voglia di passare il poco tempo libero. La sera si concede la sua “ora della rabbia” imprecando contro tutti i canali all news e blaterando a pancia piena luoghi comuni sul declino dell’America mentre la moglie, Bridget, gli spiega che “Obama non è come gli altri”. Duncan è l’antiVenn, puro conformismo e prevedibilità, la sua vita procede su un binario, forse morto, eppure è soltanto grazie a un suo gesto gratuito che Tooly parte nel suo viaggio per scoprire la verità. La ricerca si estende per uno spazio di oltre vent’anni, dal 1988 al 2011, su livelli paralleli, così che più il lettore si addentra nel presente, più capisce il passato e meglio riesce a mettere insieme i tasselli del puzzle. Rachman aveva usato un espediente narrativo simile nel romanzo d’esordio, “The Imperfectionists” (pubblicato in Italia dal Saggiatore con il titolo “Gli imperfezionisti”), grande successo editoriale che aveva spinto Brad Pitt ad acquisire, attraverso la sua casa di produzione, i diritti per la riduzione cinematografica. Gli imperfezionisti erano i cronisti di un piccolo giornale in lingua inglese con sede a Roma semplicemente noto come “the paper”, immersi nelle loro piccolezze e nella mediocrità di un mestiere presentato con dosi eccessive di glamour, ma avvolti, in fondo, da un alone di intima malinconia. E’ una malinconia simile a quella della vagabonda Tooly, creatura persa nel mondo e in fondo estranea anche alle persone che l’hanno cresciuta. Dopo tanto girovagare e disperdersi, vorrebbe soltanto tornare a casa, se sapesse qual è l’indirizzo; ma almeno là, nella solitaria campagna del Galles, c’è Fogg, il suo unico impiegato che premette un “to be brutally honest” alle considerazioni meno sconvolgenti e si forma opinioni su qualunque argomento mentre ne parla, mai prima. Mentre il mondo di Tooly si agita e s’affanna, Fogg è fermo, saldo come la casa che lei non ha mai avuto e che va cercando.

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