Ultimo giorno

Annalena Benini

L’ultimo giorno di scuola è preceduto spesso da una settimana complessa, fatta di recite, pizze di classe, collette per il regalo alle maestre, scambi di sguardi atterriti per il tempo vuoto e caldo che si apre davanti a noi. E sentimenti di ostilità verso le madri che, nel cortile della scuola, trascinano un minuscolo trolley o hanno appena parcheggiato una gigantesca automobile carica di cani e bauli e salutano tutti con grandi sorrisi trafelati: “Ciao, ci vediamo a settembre!”. Ci vediamo a settembre? Perché, dove state andando? Niente, abbiamo fatto scambio casa con un gruppo di clown professionisti e andiamo due mesi in Patagonia, poi forse quindici giorni in Croazia, con la barca di amici: sai, per risparmiare.

    L’ultimo giorno di scuola è preceduto spesso da una settimana complessa, fatta di recite, pizze di classe, collette per il regalo alle maestre, scambi di sguardi atterriti per il tempo vuoto e caldo che si apre davanti a noi. E sentimenti di ostilità verso le madri che, nel cortile della scuola, trascinano un minuscolo trolley o hanno appena parcheggiato una gigantesca automobile carica di cani e bauli e salutano tutti con grandi sorrisi trafelati: “Ciao, ci vediamo a settembre!”. Ci vediamo a settembre? Perché, dove state andando? Niente, abbiamo fatto scambio casa con un gruppo di clown professionisti e andiamo due mesi in Patagonia, poi forse quindici giorni in Croazia, con la barca di amici: sai, per risparmiare. E’ questo il momento, terribile, carico di tensioni, in cui ci si accorge che le differenze esistono. Sociali, esistenziali, estive. La differenza fra quelli per cui l’estate è uguale al resto dell’anno, solo con maggiori complicazioni, e quelli che vivono ancora come i personaggi di Edith Wharton, con i bagagli che li precedono.  Ginia Bellafante ha espresso, sul New York Times, simpatia per le madri che lavorano e che probabilmente hanno cominciato in febbraio a telefonare ovunque per iscrivere i figli a campi estivi vagamente educativi, in cui sono garantiti non più di undici minuti al giorno all’aria aperta. Con l’idea di avere sbagliato tutto, di stare violando i diritti fondamentali dei propri bambini, che d’estate dovrebbero nuotare, dormire in tenda, imparare ad accendere fuochi con i legnetti e le pietre, scalare montagne, vedere il grand canyon, tuffarsi dagli scogli, respirare iodio fino a soffocare, pescare un polipo, passare da gracili a muscolosi in due mesi. In modo che, a settembre, al primo giorno di scuola, tutti possano vedere gli effetti delle magnifiche vacanze che abbiamo fatto, e quanto ci siamo lasciati ispirare dalla natura (di solito l’argomento preferito è: non sai che fatica ho fatto, una volta tornato in città, a riabituarmi a camminare con le scarpe). L’ultimo giorno di scuola, e soprattutto i giorni successivi, con i figli che, per noia, iniziano perfino a fare i compiti delle vacanze, è il momento dell’ambivalenza e del tormento. Anche le madri tigre, infatti, le donne in carriera, le teorizzatrici del fine lavoro mai, e le ferocissime che non vedono l’ora di fare gli straordinari e vanno in depressione dopo le prime trentasei ore di vacanza, sono portate, adesso, al disgusto di sé, e al risentimento verso l’insegnante di rilassamento olistico che porterà i suoi figli in Perù per l’intera estate, così faranno tutti insieme un corso di massaggio andino. Oppure verso il pittore del piano di sotto, che parte con i figli adolescenti e un pulmino Volkswagen (con aria condizionata) per Berlino, a cercare nuovi colori, una nuova luce. Si consuma, in questo momento di passaggio, in questa reale fine d’anno, il rimpianto per tutte le vite che non abbiamo vissuto. Si arriva a provare struggimento per la villeggiatura di nostra nonna in riviera, quando stava seduta sulla veranda della pensione e ci costringeva a giocare a carte. Come sarebbe se mi licenziassi? Come sarebbe stato se non avessi mai lavorato? E se avessi aperto quel bar sulla spiaggia, come dicevamo vent’anni fa, adesso non avrei problemi di baby sitter e di campi ricreativi urbani che chiudono alle quattro del pomeriggio. Allo stesso tempo, la parte peggiore di noi spera che al pulmino Volkswagen si rompa almeno l’aria condizionata, e che i bambini odino la Patagonia e rendano quel buen retiro un inferno, e che i clown professionisti distruggano la casa scambiata con le loro pallette da giocolieri. Soprattutto, le madri che lavorano aspettano settembre per scrutare le occhiaie e il grado di disperazione delle madri che hanno passato l’estate a fare sculture di sabbia e corsi di pesca del polipo per aprire la mente dei ragazzini. Si accorgeranno, trionfanti, che le occhiaie, sotto l’abbronzatura, spiccano ancora di più.

    • Annalena Benini
    • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.