Capitale infelice

Chi comanda a Roma? Nomi e Tafazzi. Storia di Renzi contro Marino

Claudio Cerasa

Chi comanda a Roma? Nel magico mondo renziano dove improvvisamente i voti aumentano, gli avversari spariscono, gli alleati si dividono, le province si consegnano e i nemici si perdono inesorabilmente nelle trame del grano saraceno, l’unico fronte, o meglio, l’unico grande comune che non si è ancora adeguato al duro regime del governo Leopolda si trova a Roma, al terzo piano di Piazza del Campidoglio, e risponde al nome di Ignazio Marino.

    Chi comanda a Roma? Nel magico mondo renziano dove improvvisamente i voti aumentano, gli avversari spariscono, gli alleati si dividono, le province si consegnano e i nemici si perdono inesorabilmente nelle trame del grano saraceno, l’unico fronte, o meglio, l’unico grande comune che non si è ancora adeguato al duro regime del governo Leopolda si trova a Roma, al terzo piano di Piazza del Campidoglio, e risponde al nome di Ignazio Marino. Con il sindaco di Roma, i massimi vertici del Partito democratico, soprattutto quelli di fede renziana, hanno da tempo un rapporto che sarebbe un eufemismo definire “freddo” (“Marino ora non faccia come Berlusconi”, ha detto a Repubblica la scorsa settimana il renziano Angelo Rughetti, uno degli ambasciatori del renzismo in terra romana). E al chirurgo genovese, a Palazzo Chigi, contestano, nell’ordine, una sostanziale incapacità ad amministrare la città, una sostanziale incapacità a dialogare con il partito e una sostanziale incapacità a coniugare il verbo renziano nella Capitale. Nel Pd romano – che è una creatura mostruosa con una discreta propensione al tafazzismo formata da mille ingovernabili correnti fratricide – qualcuno sogna di fare con Marino un’operazione simile a quella realizzata a Palazzo Chigi da Renzi con Letta e di sfruttare il momento d’oro del Pd (che a Roma, alle Europee, ha preso il 43 per cento) per portare il comune a nuove elezioni, salutare con cordialità il sindaco e imporre un cambio di verso al Campidoglio. L’operazione è complicata e scivolosa. Cambiare un sindaco non è come cambiare un presidente del Consiglio. I renziani avrebbero già un candidato perfetto per il dopo Marino (Marianna Madia, ministro della Pubblica amministrazione, giovane, donna, romana). Ma la verità è che un cambio alla guida di Roma sarebbe possibile solo in caso di elezioni anticipate, a livello nazionale, e senza il traino di Renzi, dicono a Largo del Nazareno, ci sarebbe il rischio di regalare la città a Grillo. In questo quadro caotico e complicato va aggiunto un elemento importante: il voto delle europee è infatti servito per misurare il peso effettivo delle varie correnti del partito nella Capitale. Risultato? Eccolo.

    Il crollo dell’ex principe del modello Roma, Goffredo Bettini, arrivato quarto nel Lazio, staccato di 20 mila preferenze da Enrico Gasbarra, e arrivato addirittura quinto nella Capitale, ha fatto saltare oltre che i nervi dell’ex kingmaker laziale (dieci giorni fa Bettini è quasi arrivato alle mani con un dirigente del Pd romano) anche i vecchi equilibri della Capitale. Il voto del 25 maggio ha consegnato formalmente le chiavi del Pd a una strana maggioranza formata da renziani, dalemiani e franceschiniani, ha portato i nuovi capi della città a chiedere le dimissioni dell’attuale segretario del Pd romano (Lionello Cosentino, “che con quel 43 per cento del Pd non c’entra nulla”) e ha accelerato un processo che porterà verso quello che a Palazzo Chigi definiscono un possibile nuovo patto generazionale per governare la città: quello tra Matteo Renzi e Nicola Zingaretti, entrambi desiderosi di affidare le chiavi del Pd romano al capogruppo (zingarettiano) del partito in consiglio comunale Francesco D’Ausilio. Ieri, in realtà, nella partita del rinnovo dei vertici di Acea, la Mediobanca di Roma, Marino ha segnato un punto importante: ha imposto la riduzione del numero dei consiglieri d’amministrazione (da 9 a 7), ha ottenuto una donna alla presidenza della società (Catia Tomasetti) ed è riuscito a portare al vertice dell’azienda, con il ruolo di amministratore delegato, Alberto Irace, manager cresciuto in Acea, ex amministratore di Pubbliacqua a Firenze, in ottimi rapporti con il presidente del Consiglio (e anche con Marco Carrai), ben visto anche dagli altri azionisti di Acea (Caltagirone e Suez) che verrà nominato ufficialmente durante il primo cda dell’azienda, lunedì prossimo. Il caso Acea, però, è solo una parentesi felice all’interno dell’inferno romano. Nella capitale gli scacchisti sono in fermento. Le correnti si riposizionano. I renziani scalpitano. I poteri si riposizionano. Gli imprenditori e anche i costruttori, delusi da un anno di giunta, hanno quasi rottamato Marino (chiedere per credere all’Acer, l’associazione dei costruttori romani). E il sindaco governa ormai da mesi in un poco splendido isolazionismo. In questo scenario, poi, entro luglio Marino dovrà presentare al governo il piano di rientro per rispettare i vincoli previsti dal decreto Salva Roma. Il sindaco, dopo aver cacciato il suo assessore al Bilancio, ha in mano l’interim e proverà a evitare di essere bocciato dal governo. La partita si gioca sul filo. Le elezioni anticipate sono complicate. Ma un fatto è certo: se Renzi e Zingaretti si metteranno d’accordo tra qualche settimana a Roma potrà cominciare il percorso – non facile – verso il commissariamento politico del sindaco marziano.

    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.