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La mezza svolta di Obama non passa l'ordalia degli analisti
La dottrina di politica estera esposta – o, più precisamente, specificata – mercoledì da Barack Obama a West Point esce piuttosto malconcia dall’ordalia presieduta dagli analisti, dai commentatori, dai politici e dagli editorialisti che da anni si esercitano nella ricomposizione della visione obamiana
La dottrina di politica estera esposta – o, più precisamente, specificata – mercoledì da Barack Obama a West Point esce piuttosto malconcia dall’ordalia presieduta dagli analisti, dai commentatori, dai politici e dagli editorialisti che da anni si esercitano nella ricomposizione della visione obamiana del mondo in uno schema organico, attività all’incrocio fra la psicanalisi e l’aruspicina. E non si tratta di una giuria monocolore. Obama rifiuta tanto l’interventismo quanto l’isolazionismo, dice che l’America è la “nazione indispensabile”, secondo la formulazione di Clinton, crede nell’“eccezionalismo con ogni fibra del suo essere”, ma questa leadership naturale non si materializza nel ricorso alla forza militare ogni volta che un dittatore massacra il suo popolo o un esercito viola un confine. Piuttosto si tratta di guidare costruendo una “rete di partnership”, secondo lo spirito del mondo multipolare, e affidando “alle altre nazioni il compito di mantenere l’ordine nelle rispettive aree”. Le condizioni da soddisfare nel caso di un disordine globale che non minaccia direttamente gli interessi degli Stati Uniti sono anche più severe di quelle articolate dal presidente in cinque anni di governo. Il vizio supremo dell’ordine mondiale guidato dall’America è il costante ricorso alla forza, invocato, a dire di Obama, da molti critici della sua politica, la virtù suprema è la moderazione: “Dalla Seconda guerra mondiale alcuni dei nostri errori più costosi non sono venuti dalla nostra moderazione, ma dalla voglia di buttarsi in avventure militari senza pensare alle conseguenze, senza cercare la legittimità e sostegno internazionale”. Su questo punto, scrive il Washington Post, Obama ha “condotto un battaglione di ‘straw man’”. Lo straw man è un classico argomento fallace che consiste nel distorcere, semplificare o rappresentare in modo caricaturale la posizione dell’avversario in modo da poterla confutare con più agio. Obama ne ha fatto ampio uso quando ha parlato di chi “pensa che l’intervento militare è l’unico modo per non apparire deboli” o di chi vuole mandare soldati in Siria e “invadere ogni paese che ospita network terroristici”. Sono, fra l’altro, gli stessi che vedono “il rispetto delle norme internazionali come un segno di debolezza”. Nel mondo rappresentato da Obama ci sono i ragionevoli sostenitori del diritto internazionale, della diplomazia e del soft power contro i fanatici interventisti che chiedono l’invasione unilaterale e simultanea di Siria, Iran, Russia, Pakistan, Corea del nord, Mali e di ogni nazione in cui qualcosa va storto. Nella realtà è molto difficile trovare, anche fra i repubblicani più rapaci, qualcuno che pensi che “ogni problema ha una soluzione militare”, come dice Obama, semplificando fino alla parodia i critici della sua cangiante dottrina sul rapporto fra l’America e il mondo.
[**Video_box_2**]Un altro aspetto finito nel tritacarne dei commentatori riguarda la presunta novità della dottrina delineata dal presidente. “Non c’è stato un cambio rispetto alle pratiche di politica estera della sua Amministrazione negli ultimi cinque anni. E’ stato invece uno scoraggiante promemoria su quanto sia ampio il divario fra ciò che l’Amministrazione rivendica come un successo e le scelte pavide che in realtà compie”, ha scritto Kori Schake sulla rivista Foreign Policy. Anche il New York Times, molto positivo sulle diagnosi formulate da Obama, ha forti dubbi sul modo in cui il discorso di West Point possa effettivamente cambiare le decisioni della Casa Bianca: “Ha offerto poche prospettive nuove su come immagina di guidare il mondo nei prossimi due anni, e molti dubitano che capisca davvero il potere negoziale che gli Stati Uniti hanno in un mondo che cambia”. Per il Times è stata “un’occasione mancata”, altro che svolta epocale. L’Obama di West Point non è stato particolarmente diverso rispetto all’Obama degli ultimi cinque anni. Ma nemmeno rispetto alle dottrine del passato.
Dottrina Nixon Un altro presidente americano aveva teorizzato, in un famoso discorso, l’idea che l’America dovesse addestrare e rifornire stati ed eserciti alleati per responsabilizzarli, invece di gettarsi direttamente nell’agone. L’America avrebbe favorito dalle retrovie la nascita di un nuovo equilibrio mondiale con diversi centri d’influenza. L’esercito del Vietnam del sud, ad esempio, con il sostegno degli americani si sarebbe occupato di combattere i nemici dell’America, questa era l’idea di Nixon, che poi ha tentato di replicare il concetto in altri scenari. Molti, specialmente fra quelli che poi sono diventati i sostenitori dell’Obama pensiero, hanno giudicato severamente questo approccio cinico e ritirista. Oggi “non è nemmeno chiaro chi siano le nazioni” in grado formare partnership affidabili, nota Elliot Abrams, ex funzionario del Consiglio di sicurezza di George W. Bush. C’è infine la questione del terrorismo, che rimane secondo Obama la prima minaccia per gli Stati Uniti. Il presidente ha promesso a West Point 5 miliardi di dollari per combattere il terrorismo in Libia, Yemen, Siria, Mali e altrove, ma al Congresso – che deve approvare lo stanziamento – tutti sono caduti dalle nuvole, come riporta Josh Rogin del Daily Beast. Nessuno sapeva del piano della Casa Bianca, e “la totale assenza di un coinvolgimento del Congresso non sembra un buon inizio”.


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