It's an opinion, stupid

Perché in economia i numeri ballano se ci fai politica o ci leggi il futuro

Marco Valerio Lo Prete

“Marx? Non sono mai riuscito a leggerlo davvero. La grande differenza è che il mio è un libro sulla storia del capitale. Nei libri di Marx invece non ci sono dati”. Così a inizio maggio Thomas Piketty, in un’intervista sul suo libro-tormentone “Il Capitale nel XXI Secolo” tradotto in inglese a marzo

    “Marx? Non sono mai riuscito a leggerlo davvero. La grande differenza è che il mio è un libro sulla storia del capitale. Nei libri di Marx invece non ci sono dati”. Così a inizio maggio Thomas Piketty, in un’intervista sul suo libro-tormentone “Il Capitale nel XXI Secolo” tradotto in inglese a marzo, aveva liquidato il filosofo di Treviri. Dunque l’economista più cool del momento, il cui lavoro è stato lodato dal premio Nobel Paul Krugman che ha parlato di un “libro superbo che cambierà il modo in cui riflettiamo sulla società e in cui studiamo l’economia”, non sembrava disposto a fare sconti: anche per Karl Marx doveva valere il detto “In God we trust, all others must bring data”, ovvero “noi confidiamo in Dio, tutti gli altri invece devono portarci i dati”. Adesso che qualcuno però mette in discussione i suoi dati, quelli finora celebrati in maniera quasi unanime per la loro mole e per il fatto che confermerebbero l’accumularsi inesorabile delle rendite e l’ampliarsi della diseguaglianza in occidente, allora ecco che Piketty se la prende: il Financial Times che lo contesta è “ridicolo”, ha detto nel fine settimana all’agenzia francese Afp. Così ieri il quotidiano di Londra è tornato alla carica, e in un editoriale non firmato ha scritto che “sul lavoro di Piketty incombono quesiti fondamentali”. Chris Giles, con la collaborazione di Ferdinando Giugliano, ha trovato non poche incongruenze nei numeri alla base del lavoro dell’economista francese: sarebbero presenti errori di battitura, aggiustamenti statistici non opportunamente motivati, medie poco ponderate e infine dati “costruiti” con una certa approssimatezza per ovviare alle carenze dei registri fiscali degli scorsi secoli. Risultato: i dati sull’accumulazione di ricchezza negli Stati Uniti nei decenni più lontani non sono completi, e addirittura quelli più recenti sull’Europa e sul Regno Unito non confermano un aumento continuo dei patrimoni e della loro concentrazione, sostiene ora il Ft. Trema dunque “la contraddizione centrale del capitalismo” scovata dall’economista francese, quella per cui il ritorno sul capitale è in media sempre maggiore del tasso di crescita dell’economia, con tutti i suoi corollari interventisti e welfaristi? Si attende risposta dettagliata di Piketty che per ora ha preferito soprattutto rivendicare di aver messo a disposizione online tutti i dati proprio perché fossero spulciati anche da altri. Nel frattempo a difenderlo ci pensa Krugman, sul suo blog, che accusa mezzo mondo (quello conservatore) di voler minare il messaggio egualitario contenuto nel libro.

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    E’ lo stesso Krugman che lo scorso anno aveva invece guidato l’assalto ad altri due economisti a lui sgraditi, Kenneth Rogoff e Carmen Reinhart. “Ridicoli”, li aveva bollati con aggettivo pikettiano e non proprio accademico. Colpevoli anche R&R, come aveva scoperto un giovanissimo ricercatore, di aver compilato scorrettamente un file Excel. Errore veniale che non inficiava la lettura di otto secoli di crisi finanziarie, giurarono i due economisti. Colpevoli però, agli occhi di Krugman e dei pensatori più di sinistra, di aver scritto il libro preferito da Olli Rehn, commissario Ue e alfiere dell’austerity. (Così come Piketty, agli occhi dei conservatori, ha scritto oggi il saggio preferito da due segretari al Tesoro liberal Larry Summers (Clinton) e Jacob Lew (Obama)). Colpevoli inoltre, R&R, di aver sostenuto l’esistenza di un preciso livello di debito pubblico, il 90 per cento del pil, oltre il quale non c’è più crescita dell’economia o quasi. Una simil-legge di natura, come la “contraddizione centrale del capitalismo” trovata da Piketty, anche se i due hanno sempre smentito di aver fissato tale “soglia magica”, elaborata piuttosto da politici in cerca di pezze d’appoggio per i tagli alla spesa pubblica. Polemiche alate, quelle anglosassoni sulle statistiche economiche, che sono planate anche in Europa in questi giorni, assumendo toni più concreti. In Italia, per esempio, dove il centro studi Nomisma, dopo i dati sorprendentemente negativi sul pil del primo trimestre, ha messo in dubbio l’attualità dell’indice di produzione industriale calcolato dall’Istat. Beccandosi in cambio un insolito comunicato ad personam indirizzato contro il capo economista Sergio De Nardis. O come in Olanda, dove Coen Teulings, ex capo dello storico e venerato Ufficio governativo Centraal Planbureau (Cpb) sul bilancio pubblico – quello cui si doveva ispirare il nostro Ufficio parlamentare di bilancio appena nato – ha ammesso in un’intervista che i calcoli sui benefici dell’ingresso nell’euro presentati qualche anno fa erano soltanto indicativi. Apriti cielo in Olanda, dove oltre ai numeri cade anche la pretesa di poterli verificare una volta per tutte.