Le parole non sono fossili

Giulio Meotti

Tutto ebbe inizio nel 1953, durante una burrasca in mezzo all’Atlantico, su una vecchia nave poi affondata dai tedeschi e recuperata dagli americani. In preda al mal di mare, un giovane studente di linguistica di nome Noam Chomsky viene folgorato da un’idea. Se l’uomo possedesse la capacità innata del linguaggio? Come può un bambino che sente un numero finito di frasi, smozzicate e sgrammaticate, imparare a formularne un numero infinito, alcune delle quali mai pronunciate da nessun altro?

    Tutto ebbe inizio nel 1953, durante una burrasca in mezzo all’Atlantico, su una vecchia nave poi affondata dai tedeschi e recuperata dagli americani. In preda al mal di mare, un giovane studente di linguistica di nome Noam Chomsky viene folgorato da un’idea. Se l’uomo possedesse la capacità innata del linguaggio? Come può un bambino che sente un numero finito di frasi, smozzicate e sgrammaticate, imparare a formularne un numero infinito, alcune delle quali mai pronunciate da nessun altro?

    Nacque così, su una nave in mezzo all’oceano, la scienza del linguaggio, che oggi vanta mille specialisti nelle università di tutto il mondo. Sessant’anni dopo, Chomsky, che sarebbe stato glorificato come uno dei padri della linguistica moderna, torna sul tema, con il saggio accademico “The mystery of language evolution”. Lo firma assieme a Richard Lewontin, genetista di fama internazionale, luminare di Harvard, agnostico non militante e uno dei più noti e agguerriti teorici dell’evoluzione. C’è anche la firma di Robert Berwick, docente al Massachusetts Institute of Technology, di un notissimo esperto di psicologia animale, Marc Hauser, e di un esperto di apprendimento del linguaggio come Charles Yang.
    Il saggio sta facendo molto rumore. Perché smonta mezzo secolo di teorie scientifiche sull’origine del linguaggio. E perché gli studiosi si definiscono “innatisti”: non credono nella teoria della derivazione esterna delle capacità linguistiche dell’essere umano, cardine di quel neodarwinismo per il quale il linguaggio va spiegato attraverso la selezione naturale, piccoli cambiamenti progressivi, dettati dalla sua utilità per comunicare e dal suo valore adattativo.

    Per Chomsky e Lewontin, il linguaggio è un organo unico e speciale della mente umana, le cui leggi di composizione simbolica e di funzionamento non possono essere ridotte a nessun altro sistema mentale o biologico. Tra le proprietà specifiche di questo sistema, la più fondamentale è l’“infinità discreta”, come la definiscono nel saggio. Questa capacità, solo umana, nessuno l’apprende: l’abbiamo e basta. E spiega l’assoluta infinità di concatenazioni linguistiche di cui siamo capaci e l’apprendimento di qualsiasi tipo di linguaggio. Questo ci distingue dagli animali e, forse, costituisce l’ostacolo più importante nella concezione neodarwiniana. “La distanza fra noi e i primati è troppo grande per provvedere a una compressione dei processi evolutivi”, si legge nel saggio di Chomsky e Lewontin.
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    Neppure la paleontologia aiuta, visto che il linguaggio è molto recente, ovvero distingue l’Homo Sapiens dall’Homo di Neanderthal. “L’Homo neanderthalensis non è riuscito a lasciare alcuna prova inequivocabile dei modelli di comportamento simbolico che caratterizzano gli esseri umani”. Fossili e studi genomici dimostrano che l’Homo di Neanderthal possedeva sì degli attributi anatomici e genetici necessari alla produzione linguistica. “Ma sfortunatamente, questi tratti non sono sufficienti”. Cadrebbero così tutte le teorie accademiche formulate negli ultimi decenni. “Negli ultimi quarant’anni c’è stata un’esplosione di ricerca su questo problema, così come la sensazione che siano stati fatti dei notevoli progressi. Noi sosteniamo invece che la ricchezza delle idee è accompagnata da una povertà delle prove”.

    Si legge ancora che “studi sugli animali non umani non forniscono paralleli relativi alla comunicazione linguistica umana; fossili e testimonianze archeologiche non arricchiscono la nostra comprensione delle rappresentazioni dei nostri antenati, lasciando l’origine irrisolta; la nostra comprensione della genetica del linguaggio è talmente povera che c’è poca speranza di collegamento fra geni e processi linguistici”.

    Una rivoluzione non di poco conto, che ha spinto i tanti detrattori di Chomsky e Lewontin, come Daniel Yergin, a paragonarli alla scuola di Port-Royal, che riteneva la grammatica non solo innata, ma perfino divina. Da qui, forse, l’omaggio al “mistero” nel titolo di questo saggio.

    • Giulio Meotti
    • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.