Moneta buona e tanta

Redazione

Secondo gli economisti di Scuola austriaca, l’eccessiva espansione monetaria è la causa principale sia dell’inflazione dei prezzi sia delle pronunciate e debilitanti fluttuazioni cicliche che caratterizzano l’attività economica. Per questo legare l’offerta di moneta a un determinato quantitativo d’oro diventa il sogno fondamentale. Ciò – sostengono – garantirebbe la stabilità dei prezzi e un progresso economico meno turbolento. Per quanto riguarda il primo effetto connesso al fatto di aver slegato la moneta dall’oro c’è poco da discutere.

di Peter Smith

     Le ricorrenti crisi economiche non sono null’altro che la conseguenza di tentativi (…) di stimolare l’attività economica attraverso del credito aggiuntivo
    Ludwig von Mises,
    “Teoria della Moneta e del Credito” (1934)

    Secondo gli economisti di Scuola austriaca, l’eccessiva espansione monetaria è la causa principale sia dell’inflazione dei prezzi sia delle pronunciate e debilitanti fluttuazioni cicliche che caratterizzano l’attività economica. Per questo legare l’offerta di moneta a un determinato quantitativo d’oro diventa il sogno fondamentale. Ciò – sostengono – garantirebbe la stabilità dei prezzi e un progresso economico meno turbolento. Per quanto riguarda il primo effetto connesso al fatto di aver slegato la moneta dall’oro c’è poco da discutere. Aver rimpiazzato nel Ventesimo secolo la “moneta merce” con la “moneta fiat” (cioè quella, sia fatta di carta o metallo, senza valore e il cui valore è solo legale) ha portato a un forte declino nel valore di “un dollaro”. Un dollaro, oggi, vale meno dell’uno per cento rispetto a quanto valesse nel 1914. Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, nel loro saggio “Questa volta è diverso”, hanno stimato che l’inflazione media globale sia stata del 5 per cento annuo tra il 1914 e il 2006, rispetto allo 0,5-0,7 per cento del periodo tra 1500 e 1913. Non è una sorpresa che i governi, una volta ottenuto il potere di creare moneta partendo dal nulla, abbiano speso in maniera sistematica più di quanto potessero. E il fatto che la moneta sia cresciuta più rapidamente della produzione reale inevitabilmente ha causato un declino relativo del valore della moneta, in altre parole ha causato “inflazione”.

    Il secondo effetto connesso al fatto di aver svincolato la moneta dall’oro, invece, non è così lineare o indiscusso. Le crisi economiche e finanziarie, infatti, non sono un fenomeno recente. Non a caso Reinhart e Rogoff descrivono “otto secoli di follia finanziaria”. (…) Io non credo che esista chissà quale differenza tra economisti di Scuola austriaca ed economisti conservatori sull’idea per cui un’espansione monetaria eccessiva abbia giocato un ruolo strumentale in ogni seria crisi finanziaria, in ogni epoca. La differenza di vedute piuttosto inizia a emergere – soprattutto nel contesto di un sistema monetario in evoluzione negli ultimi 100 anni – su fino a che punto un’eccessiva espansione monetaria sia in parte endogena al capitalismo piuttosto che totalmente esogena. Non smettete di leggere, adesso mi spiegherò.

     

    La moneta – cioè quella cosa che le persone accettano in maniera universale come corrispettivo di beni e servizi – una volta era fatta di piccoli dischi d’oro e d’argento, poi successivamente di banconote e dischi metallici senza valore intrinseco. Oggi la moneta consiste perlopiù di depositi bancari. Banconote e spiccioli costituiscono soltanto una piccola parte dell’offerta di moneta. In Australia, per esempio, la moneta fisica oggi è soltanto il 20 per cento della moneta strettamente intesa (l’aggregato che in gergo è detto M1 e che comprende circolante e depositi bancari), addirittura meno del 4 per cento dell’aggregato M3 (quello più ampio, che comprende M2, M1 e alcuni strumenti emessi da varie istituzioni finanziarie monetarie con un alto grado di liquidità e di certezza del prezzo). Dunque la maggiore parte del denaro viene generato dai prestiti bancari. Quando una banca raccoglie un deposito, ne accantona una piccola parte a titolo di riserva presso una Banca centrale e poi può prestare il resto. Questo prestito confluisce dentro una banca o un’altra sotto forma di deposito; una buona porzione di questo potrà essere prestato di nuovo, e così via. Questo meccanismo è chiamato “sistema della riserva frazionaria”. Se un consistente numero di correntisti volesse ritirare contemporaneamente i propri soldi depositati, le banche sarebbero in guai seri. Busserebbero alla porta della loro Banca centrale per chiedere aiuto. Per gli economisti di Scuola austriaca le Banche centrali – come scrive l’economista Tom Woods in “Meltdown” – sono necessarie per “tenere fuori i governi dal business monetario”. Le Banche centrali assicurano e alimentano il “sistema della riserva frazionaria” che permette alle banche di creare denaro. Lo fanno in tre modi. Primo, forniscono una garanzia per le banche che fronteggiassero una fuga dei depositi. Secondo, forniscono il denaro necessario alle banche per aumentare i prestiti e la creazione di depositi attraverso l’acquisto di titoli emessi da governi spendaccioni. Terzo, manovrano i tassi di interesse al ribasso per incoraggiare i prestiti quando le economie sono in recessione. Woods e gli economisti di Scuola austriaca non dicono nulla di sbagliato circa il ruolo delle Banche centrali e il sistema della riserva frazionaria. Ma il loro discorso è completo?

    Gli economisti austriaci affrontano la questione come se la creazione di credito mediante l’intermediazione finanziaria fosse una variabile esogena imposta al libero mercato che altrimenti opererebbe in maniera migliore. Woods nota che “il diritto romano, un pilastro della civiltà occidentale, distingueva tra depositi vincolati per un certo periodo di tempo (deposito a termine) e quelli che possono essere chiesti indietro in qualsiasi momento (deposito a vista), e proibiva assolutamente la possibilità di dare in prestito attingendo da questi ultimi”. Ciò è istruttivo. Perché vuol dire che i processi di mercato, anche ai tempi degli antichi romani, creavano credito in maniera endogena basandosi su fondamenta fragili. Altrimenti perché regolamentare il tutto per legge? Non c’è dubbio che la rampante creazione di credito contribuisca molto alle crisi. Ma la questione riguarda in quale proporzione tale creazione di credito sia innata per il funzionamento del mercato libero e se dunque sia un prezzo da pagare per la prosperità del mercato stesso.

    La prova del budino è nel mangiarlo. Le economie capitaliste di libero mercato sono state colpite spesso da picchi debilitanti di volatilità, e come risultato hanno sofferto una crescente regolamentazione da parte di politici opportunisti e poco istruiti. Tuttavia non hanno smesso di fare più ricco il mondo, ben al di là di quanto potessero sognare i nostri antenati. Il capitalismo ha bisogno del credito per funzionare. Immaginate un mondo dove i depositi in oro siano conservati nelle cassette di sicurezza per essere prestati soltanto a condizione che chi prende in prestito s’accordi per restituirli secondo il volere dei depositanti. E’ una caricatura della posizione austriaca? Sì, lo è. Ma considerate cosa dovrebbe accadere per far funzionare il capitalismo.

    Il capitalismo ha una serie di elementi essenziali e complementari, pur dando per scontato stato di diritto e diritti di proprietà. Ha imprenditori con idee, immaginazione e il coraggio di avviare attività economiche. Ha una forza lavoro adeguatamente preparata per gestire queste attività. Ha il capitale finanziario a disposizione degli imprenditori, senza il quale nulla potrebbe succedere. Il capitale finanziario è fornito dai risparmiatori. I risparmi devono trovare la strada per affluire nelle mani degli imprenditori. Non è sufficiente avere noci di cocco in abbondanza che marciscono su un’isola deserta se poi per mancanza di noci di cocco un altro isolano non ha la possibilità di costuire un’imbarcazione più grande per pescare più pesce. La creazione di credito da parte delle banche indirizza i risparmi verso gli imprenditori. Questa è stata una componente indispensabile dell’affermazione del capitalismo moderno che altrimenti sarebbe rimasto relativamente rachitico. Certo, il credito viene fornito anche per chi ha intenzione di scialacquare e allo stesso tempo crea più di quanto sia desiderabile. La vita economica, insomma, è un affare imperfetto.

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    Il credito bancario e la creazione di moneta sono un singolare successo del capitalismo, non un suo difetto. La moneta è passata attraverso tre, non due trasformazioni. La moneta a corso forzoso (moneta fiat) è venuta dopo l’epoca in cui i beni venivano usati come valuta. Ora i soldi dei privati – i depositi bancari sono creati innanzitutto dal consenso e dalla fiducia tra individui che agiscono con libero arbitrio – sono la moneta predominante. Perché accettiamo un deposito bancario come se fosse l’adempimento di un obbligo, di un dovere? Un deposito bancario non è un “pagherò” di un governo. E’ semmai la credibilità di una società per azioni. Lo accettiamo perché l’esperienza ci dice che è valido tanto quanto vera e propria moneta. Allo stesso tempo sappiamo che le banche non possono riscattare tutti o la maggiore parte dei loro depositi in un breve lasso di tempo. La fiducia quindi è la chiave di tutto. Le Banche centrali giocano un ruolo vitale nell’infondere fiducia con il loro sostegno alle banche. Spesso queste Banche centrali perseguono politiche sbagliate – gli economisti di Scuola austriaca hanno ragione su questo punto. Ma rimangono una componente necessaria ad assicurare che il capitalismo sia adeguatamente foraggiato, perlomeno dal momento storico in cui i depositi – soldi essenzialmente privati – sono diventati la forma di moneta dominante.

    E’ abbastanza chiaro che la presidenza di Alan Greenspan alla Fed statunitense abbia sbagliato politiche negli anni precedenti la crisi finanziaria. Il tasso di sconto applicato dalla Banca centrale americana dal 2000 al 2003 è stato abbassato dal 6,5 per cento fino sotto l’1, e non è tornato a un tasso neutrale del 4,5-5 per cento fino al 2006. Altri importanti fattori hanno contribuito a creare la crisi ma è difficile pensare che sarebbe stata così profonda senza queste scelte di Greenspan. Per ritornare alla domanda iniziale: le attuali politiche espansive perseguite dalle Banche centrali contribuiranno a una nuova crisi? Hanno ragione gli economisti di Scuola austriaca? Oggi i tassi di interesse lungo la curva dei rendimenti – a corto e lungo termine – sono tenuti bassi dalle Banche centrali. Questo obiettivo viene raggiunto operando sul mercato per mantenere i tassi di prestito interbancari a livelli estremamente bassi e comprando titoli a lunga scadenza per tenere alti i loro prezzi e bassi i rendimenti. Quest’ultima attività, che cadeva sotto la vecchia definizione di “operazioni di mercato aperto”, viene ora chiamata “Quantitative easing”, Qe, o allentamento monetario, come se ci fosse un altro tipo di allentamento. Infatti le Banche centrali non possono fare altro che comprare titoli per abbassare i tassi. Determinano la domanda e l’offerta, com’è sempre stato. Tuttavia la grande quantità di operazioni di mercato aperto  delle Banche centrali è sì fuori dalla norma. Comprensibilmente questo suscita preoccupazione. Per avere un approccio equilibrato a quel che sta accadendo è utile distinguere tra la componente valutaria dell’economia e la componente reale.

    Sul côté della moneta, il Qe è spesso vagamente ed erroneamente etichettato come lo “stampare moneta”. Questo significato non va preso alla lettera, ovvio. Tuttavia dà l’impressione che un’inflazione dei prezzi di beni, servizi e asset materiali sia dietro l’angolo. Evoca l’immagine delle casalinghe che nella Germania degli anni Venti spingevano carrelli pieni di marchi per comprare una pagnotta o i contadini francesi del tardo Diciottesimo secolo che usavano gli assegnati (titoli di prestito del Tesoro durante la Rivoluzione francese, ndr) ormai senza valore per accendere le loro pipe. L’offerta di moneta non sta crescendo rapidamente. Non viviamo più nelle “economie dei contanti”. Usiamo, come visto prima, i depositi bancari. Quando, come parte del Qe, le Banche centrali comprano titoli da istituti non bancari, i depositi presso le banche private crescono e parimenti cresce l’offerta di moneta. Tuttavia questo incremento sarà limitato, a meno che non sia accompagnato da un aumento dei prestiti bancari alimentato da quegli stessi depositi. Quando le Banche centrali comprano titoli dalle stesse banche, non c’è un aumento automatico dell’offerta di moneta. Negli Stati Uniti, per esempio, le banche hanno aumentato i loro depositi presso la Fed e i loro depositi di titoli del Tesoro a breve scadenza. Hanno messo su una riserva di asset molto liquidi, non un insieme di prestiti illiquidi che avrebbero significativamente aumentato l’offerta di moneta. L’offerta di moneta, infatti, aumenta quando i prestiti bancari aumentano. Che ciò non sia ancora successo in maniera significativa negli Stati Uniti o in altre parti dell’occidente dipende dalla scarsità di progetti degni di ricevere prestiti in economie relativamente moribonde.

    Le stime dell’Ocse mostrano che la massa monetaria in senso ampio (circolante più depositi in conto corrente e depositi a scadenza) è cresciuta a un tasso relativamente modesto del 6 per cento negli Stati Uniti tra 2012 e 2013, a meno del 4 per cento nel Regno Unito, al 3,5 per cento in Giappone e 3,5 per cento nei paesi europei dell’Ocse. Per le Banche centrali non è arrivato il momento di rilassarsi. Ci sono primi segnali di allarme di problemi che potrebbero esserci se al momento giusto non si agirà per stringere i cordoni della borsa. I soldi in senso stretto (valuta più depositi) sembrano avere recentemente fatto qualche progresso, così come i prestiti bancari. Negli Stati Uniti, per esempio, i prestiti bancari per l’immobiliare commerciale e per fini sia commerciali sia industriali hanno visto un rimbalzo abbastanza significativo nei tre mesi precedenti il febbraio 2014.

    Questo per quanto riguarda il côté della moneta. Sul fronte dell’economia reale, invece, la disoccupazione rimane alta e la crescita tra le economie occidentali – a anni di distanza dalla fine apparente della recessione – rimane asfittica. Per usare un gergo keynesiano: il rendimento (aggiustato per il rischio) dei nuovi investimenti atteso dagli imprenditori è inferiore al costo del credito necessario. Cosa dovrebbero fare dunque i governi, una volta che sarà passata la delusione per il fatto che ulteriori stimoli keynesiani sul lato della spesa non aiutano? La risposta: avere a disposizione Banche centrali che riducano gli interessi sul costo dell’indebitamento quanto più possibile e sperare, allo stesso tempo, che un taglio dei costi e un miglioramento nei processi aziendali aumentino la fiducia e i rendimenti attesi dai privati, incentivando infine un aumento degli investimenti.

    Ridurre il costo dell’indebitamento ha una contropartita iniziale diretta nell’incremento dei prezzi degli asset finanziari – obbligazioni e azioni. E se quella è l’intenzione, quello succederà: una bolla finanziaria, in altre parole. Ma è proprio a questo punto che la distinzione tra côté reale e côté strettamente monetario dell’economia diventa cruciale per capire la situazione. La bolla è appunto una bolla finanziaria che potrebbe esplodere come anche non esplodere mai oppure sgonfiarsi lentamente.

    Il punto importante è che non si tratta del tipo di bolla che preannuncia una recessione. Prima della crisi finanziaria globale c’è stata una bolla di una certa importanza. Era una di quelle bolle che si manifestano nella forma di prezzi gonfiati di asset fisici reali – in quel caso gli immobili residenziali negli Stati Uniti. Quando esplode una bolla di quel tipo, solitamente segue una recessione, perché ci troviamo davanti a una cattiva allocazione di risorse reali, non a meri pezzi di carta mal prezzati sul mercato. Le economie occidentali non sono di nuovo a quel livello, ma è bene non farle avvicinare troppo a quel punto. Il campanello d’allarme dovrebbe scattare quando il credito bancario e l’offerta di moneta cominceranno a crescere a ritmo sostenuto e i prezzi degli asset fisici duraturi, in particolare modo quelli immobiliari di un tipo o di un altro, cominceranno a salire vertiginosamente.

    Credo che gli economisti della Scuola austriaca sbaglino in un certo modo per il fatto di essere mentalmente ancorati a un’èra in cui esisteva una moneta fiat. Siamo però entrati da tempo nell’èra della moneta privata – dei depositi bancari. L’idea di stampare in maniera sconsiderata nuove banconote è il retaggio di un distante passato – se escludiamo lo Zimbabwe sotto Mugabe. Tuttavia gli economisti austriaci sbagliano perché sottostimano la misura in cui l’“eccessiva” creazione di moneta privata è una creatura del libero mercato anziché un artificio generato da attori esterni al mercato.

    Nonostante gli sforzi mastodontici delle Banche centrali per attuare una politica monetaria accomodante, infatti, l’offerta di moneta non cresce a tassi particolarmente elevati negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Europa o in Giappone. Certo, il Qe sta rimpinguando le riserve delle banche e sostenendo i mercati azionari con asset molto liquidi, il che dà [agli istituti di credito] un enorme spazio di manovra per aumentare l’offerta di moneta. Senza dubbio il Qe potrebbe provocare gravi danni; ma questo esito non è inevitabile. Rimane infatti da vedere se le Banche centrali avranno insieme la sensibilità e la volontà di agire preventivamente per smorzare l’espansione monetaria prima che vada troppo oltre e quindi convertire il Qe in Qt, Quantitative Tightening, cioè vendendo titoli anziché comprandoli.

    Condividendo l’idea che il capitalismo di libero mercato sia la chiave per la prosperità economica, gli economisti conservatori e di Scuola austriaca hanno più cose in comune che differenze. Allo stesso tempo hanno una visione materialmente diversa circa la moneta. Questa distanza non può essere più evidente che durante una recessione le cui origini possono essere fatte risalire, in una certa misura, all’eccessiva espansione monetaria consentita in precedenza dalle Banche centrali. A questo punto pensate che le Banche centrali dovrebbero allentare la politica monetaria o no?

    Il punto di vista “austriaco” è chiaro. Non esistono circostanze nelle quali le Banche centrali dovrebbero intervenire per spingere in basso i tassi. Il punto di vista dei conservatori è più sfumato e pragmaticamente motivato dalle circostanze. E’ riconosciuto che i tassi di interesse nominali scenderanno naturalmente durante una recessione, preparando così le basi per una eventuale ripresa. Il problema è che quando le recessioni sono profonde si può produrre facilmente uno scenario deflattivo. E ciò spinge all’insù i tassi d’interesse reali, quelli cioè depurati dall’inflazione. A sua volta questa tendenza deflattiva può rallentare, fermare o impedire la ripresa. Le recessioni portano difficoltà economiche e disagio sociale. La visione pragmatica pertanto vorrebbe che le Banche centrali accelerassero la crescita spingendo ulteriormente al ribasso i tassi d’interesse.

    Esercitare una pressione ribassista sui tassi è distante anni luce da uno stimolo fiscale che distrugge o distorce valore, che gonfia artificialmente particolari componenti della domanda. L’espansione monetaria invece opera in maniera neutrale, incoraggiando le imprese a indebitarsi per investire, per fare delle cose e impiegare persone. C’è una logica convincente per la sua applicazione finché l’economia non torna a un livello di normalità. In altre parole: la causa della malattia può diventare la cura della stessa malattia se la dose è propriamente calibrata e se la terapia viene interrotta nei tempi appropriati.

    Questo significa che non è detto che finiremo in una valle di lacrime, a condizione che le Banche centrali ritireranno gli stimoli monetari nel momento in cui vedranno una ripresa del credito e una ripresa dell’economia. Non bisogna permettere alle bolle finanziarie di trasformarsi in bolle di asset reali. La riduzione degli stimoli del Qe negli Stati Uniti, il cosiddetto tapering, è pertanto un buon segno, nonostante l’esagerata costernazione che ha generato – e che senza dubbio continuerà a generare – nei mercati finanziari, tra i governi europei e di altri paesi.

    di Peter Smith
    economista e manager australiano, autore del libro “Bad Economics” (edito da Connor Court). Quelli pubblicati sono stralci di un saggio uscito sull’ultimo numero del mensile australiano Quadrant