
Il nervo scoperto degli Stati Uniti
“Al fondo, a voler semplificare molto il dibattito economico e politico in corso a livello internazionale, il libro di Thomas Piketty sul capitale è un colpo grosso che la sinistra ha assestato alla destra”. Michele Salvati, docente emerito di Economia politica all’Università di Milano e direttore della rivista il Mulino, è stato tra i primi in Italia a parlare di “Le Capital au XXIe siècle” dell’economista Piketty. Del saggio sulla diseguaglianza crescente e sulla tendenza del capitalismo a favorire l’accumulazione di ricchezza ai danni del reddito, Salvati se ne è occupato tra i primi in Italia (sia sul Corriere della Sera sia sul Mulino), giusto alla vigilia della traduzione dal francese all’inglese che ha fatto esplodere il caso sulla stampa internazionale.
“Al fondo, a voler semplificare molto il dibattito economico e politico in corso a livello internazionale, il libro di Thomas Piketty sul capitale è un colpo grosso che la sinistra ha assestato alla destra”. Michele Salvati, docente emerito di Economia politica all’Università di Milano e direttore della rivista il Mulino, è stato tra i primi in Italia a parlare di “Le Capital au XXIe siècle” dell’economista Piketty. Del saggio sulla diseguaglianza crescente e sulla tendenza del capitalismo a favorire l’accumulazione di ricchezza ai danni del reddito, Salvati se ne è occupato tra i primi in Italia (sia sul Corriere della Sera sia sul Mulino), giusto alla vigilia della traduzione dal francese all’inglese che ha fatto esplodere il caso sulla stampa internazionale. In una conversazione con il Foglio, l’analista, da sempre attento ai rapporti tra mercato e democrazia, si sofferma sul “tempismo strepitoso” e sulle ragioni del successo mediatico del saggio francese, sulla sua potenza teorica e sul messaggio politico (di sinistra) che esso contiene, oltre che sul “perché in Italia questo libro rischia di rinfocolare i soliti vetero-marxismi a danno dei riformismi necessari”. Piketty è un Karl Marx 2.0 o la solita solfa in stile Occupy Wall Street? Salvati non intende minimizzare la portata del saggio e le sue conseguenze.
“Il polverone generato da Piketty non si è ancora depositato, ma intanto è importante che si sia alzato – dice Salvati – Sull’iniqua distribuzione del reddito, soprattutto negli Stati Uniti, la pubblicistica ha superato da qualche tempo gli slogan di Occupy Wall Street. Ci sono i libri di Robert Reich, già segretario al Lavoro dell’Amministrazione Clinton, di James Galbraith, né sottovaluterei – nonostante la loro predisposizione politica – gli interventi dei Nobel per l’Economia Krugman, Stiglitz e Solow che hanno lodato il lavoro di Piketty. Poi gli studi di colleghi di Piketty come Emmanuel Saez, sul solco tracciato da Anthony Atkinson di Oxford”. La diseguaglianza nel mondo occidentale c’è e cresce, lo dicono in molti, ma “la novità del volume di Piketty è innanzitutto la densità del suo apparato dimostrativo”. Da una parte “l’uso molto accurato delle statistiche fiscali per descrivere il tema della diseguaglianza, invece dei soliti indici di Gini o altre sintesi del genere”, con la maggiore chiarezza che ne consegue sulla distribuzione delle ricchezze reali e le sole che consentono di identificare i super ricchi. Dall’altra parte “l’approfondimento documentale è imparagonabile per il periodo preso in considerazione, due secoli circa”.
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Il saggio è esploso mediaticamente negli Stati Uniti, e non nell’Europa in cui pure era stato concepito, sostiene Salvati, “perché lì sulla distribuzione del reddito e sulle pari opportunità si gioca un problema cardine: nella land of opportunity, l’idea di fondo che si possa fare fortuna iniziando con pochi dollari in tasca non è un’idea di sinistra o di destra, è un’idea nazionale. E’ l’ethos della mobilità sociale”, messo in crisi da calcoli come quelli di Piketty che invece tratteggiano una società in cui l’accumulazione della rendita sarà sempre più rapida di quella dei redditi, con l’America di oggi che rischia di assomigliare in futuro alla Francia della Bella Epoque. “In alcuni paesi europei più cinici e smaliziati, ci si è abituati, penso a Francia e Regno Unito. Non esiste la passione per le parità di opportunità che invece c’è negli Stati Uniti”. “Un libro serio che tocca le corde più profonde della cultura americana”, e per questo – a detta dell’economista – sono finora “poche le tesi ponderate e critiche dal fronte conservatore o liberale”. L’economista libertario Tyler Cowen, su Foreign Affairs, sostiene che, con il termine “capitale”, Piketty accomuna asset troppo differenti (dagli immobili alle azioni di Borsa), con un tasso di rendimento non omogeneo, e che se il fattore rischio di alcuni asset fosse preso in considerazione, sarebbe scalfita l’immagine di una massa di ricchezza destinata inesorabilmente a crescere a un ritmo uniforme: ci sono i crolli in Borsa, i fallimenti, eccetera. “Vero, ma Piketty dimostra – facendo l’esempio dei trust dei grandi atenei statunitensi come Harvard – che chi ha a disposizione staff imponenti per gestire gli investimenti e inizia da un patrimonio maggiore, qualche volta può sbagliare, ma in media incassa rendimenti generosi e maggiori dei piccoli investitori”.
Per Salvati dunque rimane intatta una tesi fondamentale del libro: “Il grande ciclo di crescita del reddito da lavoro, tipico del Secondo dopoguerra, è finito per i grandi paesi progrediti. Il tasso di crescita è fortissimo nelle fasi di robusta industrializzazione. Dopodiché restano soltanto progresso tecnico e crescita demografica ad alimentare l’aumento del reddito. Oggi il nostro pil, se tutto va bene, tornerà a cresce al massimo al 2 per cento”. Salvati concede che “quando si fanno previsioni di lungo termine, si rischia di sottostimare eventuali rivoluzioni tecnologiche che potrebbero mutare i ritmi di crescita” ma, rebus sic stantibus, la tesi della “stagnazione secolare” lanciata da Lawrence Summers e di fatto puntellata da Piketty “è la più plausibile”. Anche per questo il libro dell’economista francese “è come uno scoop strepitoso caduto nel momento giusto, con un tempismo che ricorda quello di John Maynard Keynes a cavallo della Grande depressione”. Questo saggio, le cui proposte finali di introdurre “patrimoniali globali” per aggredire la ricchezza “assomigliano a una battuta per la loro impraticabilità”, rischia però di essere malinteso in Italia. “Noi abbiamo problemi enormi di capacità politica e di efficienza amministrativa da risolvere in via preliminare. Quando arriveremo a una crescita del 2 per cento annuo, allora sarà auspicabile un dibattito sulle tendenze di lungo termine identificate da Piketty. Prima – conclude Salvati – si rischia che le sue tesi siano solo strumentalizzate dai nostri paleo-marxisti o paleo-keynesiani per ostacolare i necessari riformismi”.


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