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A Verona Benedetto XVI parlava da pastore ma con una possente forza dottrinale
Joseph Ratzinger era stato eletto Pontefice da poco più di un anno, quando a Verona tenne il lungo discorso rivolto ai vescovi italiani, ventuno anni dopo quello di Loreto con cui Giovanni Paolo II segnò la svolta, affidando alla chiesa un ruolo guida nel cammino dell’Italia verso il suo futuro. Un discorso “ben diverso” da quelli successivi pronunciati all’Università di Ratisbona, al Collége des Bernardins di Parigi e al Bundestag di Berlino, osserva il cardinale Camillo Ruini, che quel 19 ottobre del 2006 era seduto accanto al Papa in qualità di presidente della Cei.
Leggi anche il discorso di Benedetto XVI al IV convegno nazionale della chiesa in Italia
Joseph Ratzinger era stato eletto Pontefice da poco più di un anno, quando a Verona tenne il lungo discorso rivolto ai vescovi italiani, ventuno anni dopo quello di Loreto con cui Giovanni Paolo II segnò la svolta, affidando alla chiesa un ruolo guida nel cammino dell’Italia verso il suo futuro. Un discorso “ben diverso” da quelli successivi pronunciati all’Università di Ratisbona, al Collége des Bernardins di Parigi e al Bundestag di Berlino, osserva il cardinale Camillo Ruini, che quel 19 ottobre del 2006 era seduto accanto al Papa in qualità di presidente della Cei.
Benedetto XVI dice che la chiesa “non è e non intende essere un agente politico”, ma che nello stesso tempo offre “il suo contributo specifico” per il bene della comunità. Eppure, in molti settori laici, questa distinzione non è stata recepita. Si è guardato più alla chiesa come a un vero agente politico, a un attore in campo. Il suo giudizio in proposito?
“Le affermazioni sui rapporti tra chiesa e politica si collocano alla fine del discorso di Verona e riprendono ciò che Benedetto XVI aveva esposto più ampiamente nell’enciclica Deus Caritas est (28-29). Il punto di partenza è la novità sostanziale portata da Gesù Cristo, ‘che ha aperto il cammino verso un mondo più umano e più libero’, attraverso la distinzione e l’autonomia reciproca tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio. Per questo la chiesa non è e non intende essere un agente politico. La giustizia è però la vera anima della comunità politica, e da qui nascono l’interesse profondo e il contributo specifico della chiesa alla politica. In concreto, questo contributo ha due dimensioni fondamentali. La prima è purificare la ragione mediante la fede e aiutarla così a ‘essere meglio se stessa’; perciò la dottrina sociale della chiesa argomenta a partire da quel che è conforme alla natura di ogni essere umano. La seconda dimensione è far crescere nelle coscienze le energie morali e spirituali che consentano di anteporre le esigenze della giustizia ai tanti interessi personali e collettivi. E’ senza dubbio vero che molti settori laici considerano la chiesa semplicemente come un agente politico. Ma qui, a mio parere, bisogna distinguere. Coloro che ragionano così – e nel dibattito pubblico sono certamente la maggioranza – sono fermi, come già dicevo parlando del discorso di Papa Benedetto al Bundestag, a un concetto di laicità che non tiene conto dell’emergere delle grandi questioni antropologiche. Altri laici, invece, prendono sul serio quelle questioni. A volte più di tanti credenti. E perciò non vedono affatto negli interventi della chiesa un’invasione di campo. A Verona, e in varie altre occasioni, Ratzinger ha incoraggiato esplicitamente la chiesa a non essere ripiegata su se stessa e ad aprirsi con fiducia a laici di questo genere per lavorare insieme alla crescita culturale e morale dell’Italia”.
Ratzinger sottolineava come la chiesa italiana dovesse avere “un ruolo guida e un’efficacia trainante” nel cammino della nazione verso il suo futuro. Riprendeva quanto detto da Giovanni Paolo II a Loreto, nel 1985, inaugurando la cosiddetta “svolta”. Trent’anni dopo, ritiene che quella missione sia ancora valida o gli ostacoli sono sempre più alti?[**Video_box_2**]
“Effettivamente, tra ciò che ha detto Giovanni Paolo II a Loreto e ciò che ha detto Benedetto XVI a Verona c’è una continuità profonda. Come del resto c’è una grande continuità tra i due pontificati, pur nella diversità delle persone e dei temperamenti. Vorrei aggiungere che questa continuità risale più indietro, già al pontificato di Paolo VI. Ricordiamo, ad esempio, l’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (19-20), con l’invito a raggiungere e quasi sconvolgere, mediante la forza del Vangelo, ‘i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti d’interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità’. A mio parere, i papi hanno sviluppato così l’impulso che veniva dal Vaticano II, che ha aperto l’incontro, difficile ma ineludibile, con l’umanità del nostro tempo. Oggi, anche in Italia, questa missione è probabilmente più difficile di quello che già era trent’anni fa. Eviterei però le generalizzazioni. Ad esempio, ho vissuto gli anni dell’immediato dopo Concilio, e posso testimoniare che allora – anche dentro la chiesa – la situazione appariva peggiore di oggi. Eppure, si sono avuti poi quegli sviluppi per i quali Benedetto XVI a Verona ha potuto dire che l’Italia, sebbene partecipi della cultura secolarista che predomina in occidente, costituisce ‘un terreno assai favorevole per la testimonianza cristiana’. La frontiera più delicata, oltre che più importante, è quella dei giovani. Fisiologicamente, sono i più sensibili alle istanze della cultura in cui vivono e, purtroppo, oggi gran parte di loro non ha più un rapporto vissuto con la chiesa, dopo la fanciullezza. Sono però anche i più capaci di percepire, e direi di fiutare, i limiti e le carenze della nostra cultura e società. Perciò, come adulti, più ancora che preoccuparci di metterli in guardia dai rischi che questa società fa correre, dobbiamo aiutarli a trovare quelle strade nuove e positive di cui sono, consapevolmente o inconsapevolmente, alla ricerca”.
Benedetto XVI chiarisce che “occorre fronteggiare il rischio di scelte politiche e legislative che contraddicono i fondamentali valori e princìpi antropologici ed etici radicati nella natura dell’essere umano”. Quale importanza ha oggi questo richiamo, in un contesto in cui tutto pare essere messo in discussione, a cominciare dal concetto stesso di famiglia (basti considerare le attese circa i prossimi due sinodi)?
“Qui Ratzinger, concretizzando quello che ha detto sui rapporti tra fede e politica, prende posizione sui punti caldi e salienti della questione antropologica. Proprio perché tutto questo viene messo in discussione, a cominciare dal concetto di famiglia, come è avvenuto da ultimo con la sentenza della Corte costituzionale sulla fecondazione eterologa, diventa ancora più importante e necessario esprimersi con chiarezza su questi argomenti. Lei osserva che le attese relative ai due prossimi sinodi dei vescovi contribuirebbero a mettere in discussione il concetto di famiglia. Non voglio in alcun modo eludere questa domanda, che del resto molti si pongono e che tende a sfociare in una questione più vasta, quella della continuità o meno tra Papa Francesco e i pontefici che l’hanno preceduto. Per orientarsi, occorre innanzitutto un chiarimento: ciò di cui si discuterà nei prossimi sinodi, e di cui si è già discusso nel recente concistoro, non sono le radicali sfide antropologiche oggetto dell’attuale dibattito pubblico, ma interrogativi molto più circoscritti, come quello del comportamento della chiesa verso i divorziati risposati. E’ una preoccupazione comune, nel concistoro e nei sinodi, pur nella diversità e anche nel contrasto delle soluzioni proposte, quella di salvaguardare l’indissolubilità del matrimonio. Più in generale, Papa Francesco mette con forza l’accento sul proporre a tutti il centro del Vangelo, cioè la salvezza di Dio che viene a noi in Gesù Cristo, rispettando la gerarchia delle verità affermata dal Concilio ed evitando quindi di insistere su una molteplicità di norme che finirebbero con il non risultare convincenti. Ciò non toglie che in determinate occasioni egli si pronunci molto nettamente su argomenti come l’inviolabilità della vita umana o il matrimonio tra uomo e donna. Proprio nel discorso di Verona, Benedetto XVI sostiene che occorre rendere visibile anzitutto ‘il grande sì che Dio in Gesù Cristo ha detto all’uomo e alla sua vita, all’amore umano, alla nostra libertà e alla nostra intelligenza’. Perciò – aggiunge – ‘la fede nel Dio dal volto umano porta la gioia nel mondo’. E ancora: ‘I nostri no a forme deboli e deviate di amore, alle contraffazioni della libertà e alla riduzione della ragione sono in realtà dei sì alla realtà dell’uomo come è stato creato da Dio’. Ciò non significa che tra Benedetto e Francesco non ci siano delle differenze. Se ci muoviamo però nella prospettiva cattolica della chiesa come comunione che tiene insieme nell’unico corpo di Cristo i diversi luoghi, le diverse culture, i diversi tempi, anche differenze ben più profonde delle diversità di accenti tra gli ultimi papi non implicano alcuna rottura e non conducono nemmeno a irrigidimenti nel proprio punto di vista”.
Un capitolo rilevante del discorso è dedicato all’educazione e alla formazione. E’ anche in virtù del lavoro capillare fatto in questo campo dalla chiesa italiana che essa è lontana dall’avanzare richieste di adeguamento dell’insegnamento cattolico in fatto di morale sessuale? E’ merito anche del ruolo della catechesi?
“Il lavoro che si è fatto è senz’altro grande, in quell’ottica non rassegnata e non rinunciataria di fronte all’ondata della secolarizzazione che ci ha insegnato specialmente Giovanni Paolo II. Ma molto ha contribuito anche quel radicamento antico e profondo della fede in Italia che oggi continua a portare i suoi frutti. Non è il caso però di nasconderci che, nella morale sessuale e in vari altri campi, anche in Italia le richieste di ‘modernizzazione’ sono forti e coinvolgono parecchi cattolici. Anche da noi, dunque, c’è molto bisogno di testimonianze che diano fiducia e di creatività culturale non subalterna al secolarismo. E soprattutto chi è credente deve chiedere, con umiltà, la luce e la forza che possono venire solo da Dio”.
Rispetto ai discorsi di Ratisbona, Parigi e Berlino, Verona ha un obiettivo diverso. Eppure, anche in quest’ultimo si affrontano i punti salienti sul piano culturale e teologico. E’ così?
“E’ evidente la diversa finalità del discorso di Verona rispetto a quelli che Papa Benedetto ha tenuto all’Università di Ratisbona, al Collège des Bernardins e al Bundestag. A Verona, Ratzinger si rivolge alla chiesa italiana, non ai rappresentanti della cultura o della politica di una nazione, a prescindere dalle loro convinzioni o appartenenze religiose. Perciò il suo discorso ha una forte attenzione pastorale e si occupa di una serie di aspetti e problemi che non trovano posto negli altri tre discorsi. E’ quindi tanto più significativo che anche Verona affronti i temi nodali sul piano culturale e teologico. Ad esempio, parla anzitutto della Resurrezione di Cristo come inaugurazione di una nuova dimensione della vita e della realtà. Sviluppa inoltre, più organicamente che a Ratisbona, quella apertura verso l’Intelligenza creatrice che è implicita nella conoscibilità della natura attraverso gli strumenti della matematica. In questa congiunzione della spiritualità e della pastorale con la cultura e la teologia sta forse la cifra sintetica della testimonianza e del pontificato di Joseph Ratzinger”.
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