
La casamatta aspetta il Cav.
Potrebbe leggervi dei libri. “Libri? Qui seduti ci leggiamo i volti. Le storie vere. Un romanzo che non finisce mai”, e il sorriso di ottantenne s’allarga incerto su due file di denti anneriti dal fumo di troppe sigarette. Che lavoro faceva lei? “Ero ferroviere. Comunista”. Gli ospiti di questo gran ricovero sudmilanese s’incontrano al bar, siedono fuori, al sole. E’ come la piazza d’un piccolo paese, il centro della vita sociale. Il barista, che è un meridionale suadente e garbato, serve acqua gassata alla spina e Ginger, anzi “gingerino”, bevanda analcolica che ricorda il brivido inebriante dell’Aperol o del Campari, “a ciascuno il suo vizio”, dice sorridendo, mentre riempie ancora un bicchiere con questo liquido rosso, zuccheroso e innocuo. Qualcuno gioca a briscola.
Potrebbe leggervi dei libri. “Libri? Qui seduti ci leggiamo i volti. Le storie vere. Un romanzo che non finisce mai”, e il sorriso di ottantenne s’allarga incerto su due file di denti anneriti dal fumo di troppe sigarette. Che lavoro faceva lei? “Ero ferroviere. Comunista”. Gli ospiti di questo gran ricovero sudmilanese s’incontrano al bar, siedono fuori, al sole. E’ come la piazza d’un piccolo paese, il centro della vita sociale. Il barista, che è un meridionale suadente e garbato, serve acqua gassata alla spina e Ginger, anzi “gingerino”, bevanda analcolica che ricorda il brivido inebriante dell’Aperol o del Campari, “a ciascuno il suo vizio”, dice sorridendo, mentre riempie ancora un bicchiere con questo liquido rosso, zuccheroso e innocuo. Qualcuno gioca a briscola. E qui, al contrario degli altri ospedali, dove il personale ha sempre quella maschera di stoico tedio e di scontento appiccicata al viso, sembra di riconoscere una strana allegria, uno spirito da oratorio, con i tanti degenti, giovani e anziani, più uomini che donne, malati mentali dallo sguardo dolce, nel ruolo dei ragazzini che tirano calci al pallone. Non si mastica né la desolazione né l’angoscia della malattia, che pure c’è, si respira, si vede, ed è straziante. In un vialetto alberato, tra le alte mura che circondano questo smisurato istituto di cura, incontro Gerri, mi dicono che è un decano tra i pazienti, è un ometto dai capelli corti e ormai quasi tutti bianchi, la barba trascurata, pencola un po’ da una parte e mentre parla emette fischiolini o forti schiocchi labiali ogni tanto. “Quando arriverà Berlusconi capirà cos’è la sofferenza”, dice con aria profetica. E le sue parole sono scatti disordinati, quasi involontari. I miei accompagnatori, che lavorano qui, guardano Gerri come volessero cercargli in faccia la spiegazione delle sue parole.
Poi raccontano: “Devi sapere che Gerri interpreta Gesù Cristo, ogni anno, a Natale e a Pasqua, nella nostra recita. E’ ancora immedesimato nella parte”. Il matto si ripete, dolcemente, perché vuole ripetersi, perché la sua mente non vuole incamerare cose nuove, occupata com’è a fare l’inventario, a valutare le giacenze. La Sacra Famiglia ha un grande teatro all’interno, è stato ristrutturato da poco. Allora dico al direttore generale, Paolo Pigni, il grande capo, che anche Berlusconi potrebbe esibirsi, come Gerri. Ma quando suggerisco che Berlusconi è simpatico, che può intrattenere i pazienti, che lo sa fare, allora il direttore generale della Sacra Famiglia assume uno sguardo brumoso. E’ un uomo alto, d’aspetto ordinario, ma con qualcosa di concentrato, teso, di volitivo che stupisce chi lo guarda – lei è cattolico? “Certo”. L’idea del Cavaliere intrattenitore deve averlo condotto all’immagine di Berlusconi che girava sulle navi da crociera con una compagnia d’animazione turistica, deve averlo portato a quell’atmosfera familiare e spudorata insieme, a quell’ambiente di guitti che era “Drive in”, un mondo che deriva dal circo equestre. E infatti dice: “Le barzellette scollacciate no”. E il direttore generale sembra avere davanti agli occhi una qualche visione spaventosa, come se vedesse sorgere forme mostruose, deformazioni del futuro.
Intanto una paziente ci fa notare la presenza d’un fotoreporter, e di una telecamera. E sul volto di questa donna, simile a una piccola mela bruciata dal gelo, scivola come l’ombra di un sorriso malizioso. “La televisione”, dice. “Per Berlusconi”, aggiunge. E la signora ne gioisce, con quel morbido e infantile cinismo degli anziani. E insomma Silvio Berlusconi a Cesano Boscone è come una di quelle grandi navi, uno di quegli immensi e ingombranti transatlantici che attraversano la placida e stretta laguna di Venezia. Così Pigni alla fine chiude gli occhi, come per meglio rappresentarsi quella scena che immagina con una limpidezza e una vivacità quasi stordenti: “Per me può venire con l’elicottero, anche con il razzo. Poi lo parcheggia fuori e ci si mette a lavoro”.
Cinquecentoquarantamila pasti all’anno, settecentottantamila chili di biancheria mandata a lavare, dodicimila chili di spaghetti acquistati, cinquemilacinquecento pazienti curati, millenovecentocinquanta dipendenti, millecinquecento posti letto. Una facciata dall’aspetto imponente e severo, la grande croce di metallo che svetta più alta degli alberi e dei palazzi intorno. La porta delle corsie comincia ad aprirsi alle otto e si schiude e si chiude un migliaio di volte al giorno, kscc-sccc. Ogni mattina ci si siede allineati a ciascun lato della sala comune, mescolando pezzi di giochi di pazienza dopo colazione, tendendo l’orecchio per udire i cardini della porta e aspettando di vedere che cosa entrerà. Poi le passeggiate all’aperto, le cure, una puntata al bar, chi può. A volte, sulla porta, c’è qualche interno che gironzola. A volte è una moglie, o una madre, venuta in visita con la borsetta premuta con forza sul ventre.
La Sacra Famiglia è una città incarnata nella città, non è un ospizio per gli anziani ed è più d’un ospedale cattolico in cui si respira, si celebra e si custodisce, la santità di don Domenico Pogliani, il fondatore, il parroco di paese morto cento anni fa, l’uomo alla cui beatificazione manca soltanto la prova del miracolo. Andava in giro per le campagne, nelle cascine, nei fienili, raccoglieva i malati mentali, che alla metà dell’Ottocento venivano abbandonati, esiliati: la definizione clinica per loro era “scemo”, “demente”, mi raccontano. “E il miracolo di don Pogliani c’è già stato. E’ qui, intorno a noi, è questo luogo”, mi dicono i frati cappuccini, e le suore e le anziane ancelle che vivono all’interno dell’istituto. Si esprimono con una specie di volontà rassegnata, ma non priva della gioia che deriva dalla possessione di una fede. Adesso qui arriva Berlusconi, dico loro. “E pregheremo anche per lui”, mi risponde un frate barbuto e simpatico, appena sceso dalla piccola e sportiva bicicletta con la quale attraversa gli spiazzi, le stradine, i prati che disegnano l’architettura interna di questo grande istituto di cura. Berlusconi è un peccatore, suggerisco. “Lo siamo tutti”. Tutt’intorno alla Sacra Famiglia, svariate file di case moderne e anonime ma ingentilite da spalliere di gelsomini, roselline, bougainvillée, con molti villini monofamigliari.
E poi c’è il garbo dell’architettura povera ottocentesca, che ha creato un armonioso intrico di strade silenziose e linde piazzette. Tutto però circondato, offeso, dalle carreggiate a scorrimento veloce della Nuova Vigevanese, la grigia stradona “con la più alta concentrazione di centri commerciali d’Europa”, come mi spiegano: Metro, Emmelunga, Esselunga, Euronics, Maison du Monde, Auchan, Uni euro… Non finisce mai. E qui si ha più l’idea d’una periferia commerciale, dove il cemento è liberamente proliferato dagli anni Cinquanta in poi, malgrado i prati, il verde, il parco e la riserva naturalistica. Milano è a pochi chilometri, collegata senza soluzione di continuità a questa anti Brianza, terra ricca ma povera, ventimila abitanti, quasi tutti pugliesi immigrati ai tempi del boom, terra senza una propria economia, avvolta e conquistata dalla città che incombe, “qui tutti vanno a lavorare in centro. Sono per lo più impiegati”.
Quasi tutti. Perché non c’è famiglia che non abbia qualcuno che lavora o abbia lavorato in questo grande centro d’assistenza (sanitaria nazionale) e di carità curiale che si chiama Sacra Famiglia. Così, se lungo la strada che da Milano porta verso Abbiategrasso chiedi della Sacra Famiglia, allora chiunque ti risponde con spiritosa e dialettale familiarità: “Ah, Cesàn Buscùn! La casa dei matti”. Ed è qui, nella casa dei matti, che arriverà Berlusconi, matto supremo, con quella sua follia ammaliante e ribalda che fa sussurrare a Paolo Liguori, vecchio amico: “Ne vedremo delle belle”. Chissà.
“Berlusconi è il primo miliardario che varcherà quel cancello”, mi dice Stefania Colurgioni, la mia accompagnatrice, e addetta stampa del grande ospedale. Ma esiste un pudore che nemmeno la presenza del Cavaliere, dell’uomo della pubblicità e del marketing creativo potrà svelare. Gli ospiti della Sacra Famiglia non sono precisamente milanesi dal molto denaro e dalla pacata esistenza. E all’interno delle corsie non si può entrare, verboten, vietato. Non ci sono giornalisti, non sono ammessi fotografi. Qui tutto è concepito a protezione dell’intangibile, cioè della sofferenza. E così agli ospiti, ai malati, viene data l’aria, ma non l’intrusione dall’esterno. E la verità di questo luogo resta dunque chiusa, o comunque semi nascosta, agli occhi di chi indaga. Passeggiando tra i caseggiati, tra le palazzine che compongono i reparti di degenza, gli ampi prati e i boschetti, il campetto da calcio e la riproduzione in scala della grotta di Lourdes, s’incontrano uomini e donne di un’umanità straziata. Un tipo magro, brizzolato, dai gesti lenti, occhi espressivi, si avvicina alle fronde più basse degli alberi, strappa delle foglie da un ramo, le mangia, e appena ne inghiotte una esclama con voce uguale e soddisfatta: “Buona”. Un altro non fa che rigirare tra le dita una vecchia fotografia, tanto che gli è diventata grigia come gli occhi, a furia di essere maneggiata, e non si riesce più a capire che cosa rappresentasse un tempo. Ma questo è soltanto un esterno giorno, che addolcisce malinconicamente una dimensione che rimane chiusa al pubblico e alla cronaca. Quella dimensione che scoprirà Berlusconi quando verrà qui e non sarà il Cavaliere spettacolare e politico che tutti conoscono, ma uno strano Berlusconi, sconosciuto, che al chiuso delle corsie di degenza dovrà vestire anche lui il saio del silenzio.
Eppure lo aspettano tutti, il Cavaliere. I degenti e gli impiegati, gli infermieri e i medici, i dirigenti e il personale amministrativo, l’intero e silenzioso paese. Con viva curiosità. E quando si parla di lui, “del Silvio”, allora riflessi d’ironia si alternano a repentini rabbuiamenti, sorrisi a sospiri, smorfie ad ammiccamenti, come l’ombra e la luce sul volto di una statua. “Non mi è mai accaduto di vedere la ridicolaggine confondersi a tal punto con la sincerità, la falsità con la verità. L’Italia è un paese assai strano”, mormora il sindaco Vincenzo D’Avanzo, che è del Partito democratico, mentre prova a immaginarsi l’arrivo del Cavaliere, tra macchinoni neri, sirene e uomini di scorta. Il suo sguardo si alza e vaga da un oggetto all’altro della stanza, come se lo stesse paragonando a qualche immagine interiore. “Io sogno che arrivi in metropolitana. Sarebbe un genio”, dice sorridendo. “Nel 2009 fu un cittadino di Cesano a lanciargli la statuetta addosso, a ferirlo a Milano. Quella sera scrissi una lettera a Berlusconi, scusandomi. Lo invitai anche a venire qui da noi. Berlusconi ferito divenne altamente patetico, arrivando per la prima volta a suscitare in molti quell’ondata di simpatia umana che mai li aveva travolti. E adesso arriva sul serio. E potrebbe anche tornare simpatico”. Poi il sindaco guarda davanti a sé con un’espressione saggia, ironica, attenta, ma nella quale sembra di cogliere una certa freddezza, seppur appena percepibile, una sorta di distacco. “Ma questa storia del capo dell’opposizione, dell’ex presidente del Consiglio condannato a lavorare qui da noi, tra gli ammalati, per quattro ore alla settimana, mi lascia una indefinibile sensazione d’incongruità”, dice. “Non so se è giusto o sbagliato. Ho semplicemente la sensazione che sia tutta una faccenda strana, anomala, in definitiva molto italiana. Un pasticcio. Ma che cosa mai potrà fare Berlusconi?”. E allora mi racconta d’essere stato intervistato da Rai3, e che mentre parlava, in diretta, un tizio gli passa alle spalle, e grida: “Berluscàz in galera”. Ma dopo cinque minuti ne passano altri due: “Viva il Milan, viva Silvio”. E dunque c’è un misto di speranza e scetticismo, gusto e fastidio, attesa televisiva e spettacolare per questa presenza che incombe, per l’evento, forse il primo dopo la visita, nel 1921, dell’arcivescovo Achille Ratti, il futuro Pio XI, che a Cesano Boscone pose la prima pietra per la costruzione di un edificio della Sacra Famiglia, quello accanto al teatro, affacciato sul primo dei tanti giardini interni.
E il sindaco è uomo spiritoso: “Un miracolo di San Silvio è già avvenuto”, ride. “Da quando si sa che viene Lui, il centrodestra in paese, che quasi non esisteva più, ha improvvisamente trovato un candidato sindaco”. E il paese è tutto uno strano brulicare. Da qualche giorno si vedono in giro le bandiere dell’Esercito di Silvio, la televisione araba Al Jazeera piantona con telecamera l’ingresso della Sacra Famiglia, e mentre passeggio all’interno dell’ospedale lo faccio in compagnia di Eric Sylvers, il corrispondente del Wall Street Journal (che a un certo punto mi guarda sornione, e in perfetto accento milanese mi dice che “è tutta un’italianata”). Così a Cesano Boscone scetticismo e piacere sono inseparabili, come un duplice pungolo che graffia, sperona, ferisce, ma pure lenisce, suggestiona, sorprende. Un’infermiera dall’età indefinibile, né giovane né vecchia, con una bonomia estatica negli occhi, mi dice che la presenza di Berlusconi farà venire a galla grumi di sofferenza che poi verranno di nuovo seppelliti nella distrazione di un mondo che di suo è indifferente, rimuove deformità e malattia. “Lei, per esempio”, mi chiede l’infermiera, “lei che è un giornalista. Oggi perché è venuto qui a interessarsi degli ammalati?”.
Convivere con l’oblio è un duro mestiere di vivere. E dunque a Cesano ci si perde anche nei miraggi della mente. Il Cavaliere, ricco, potente, famoso, controverso, ha già fatto ingresso in questo paese che non è un paese ma non è nemmeno semplicemente la periferia sud di Milano. E insomma Berlusconi è già qui, senza ancora esserci davvero, sotto forma di miraggi e di visionarietà, pensieri e umori, serietà e sberleffi. Qui tutti sono inevitabilmente figli di Berlusconi, come forse nel resto d’Italia, spettatori delle sue televisioni, oppositori e sostenitori, indifferenti e abulici. Sono tutti figli del Cavaliere persino i curiosi che cominciano a pellegrinare dai paesi vicini, da Trezzano sul Naviglio, da Abbiategrasso, persino da Vigevano. In cerca di chissà che cosa. Soltanto adesso sta aprendo, in questo paese, dove ha sempre vinto il centrosinistra, un club Forza Silvio.
E insomma il Cavaliere, a Cesano Boscone, è come un terremoto. E un terremoto non distrugge soltanto, crea anche opportunità materiali, e scombina il passato e l’etica che su quello sta ancorata. Al bar Magia, su piazza Monsignor Moneta, proprio di fronte alla Sacra Famiglia, la signora alla cassa mi dice che Berlusconi “è un mito arrugginito. Ma da quando deve venire, io vendo più panini di prima”. Qualsiasi città terremotata, inizialmente popolata di sciacalli becchini, diventa subito un cantiere, sveglia i talenti finanziari e imprenditoriali, crea i palazzinari. Don Luigi Caldera, il parroco, che siede nel consiglio d’amministrazione dell’Istituto, sorride con dolcezza: “Chissà che con Berlusconi qui da noi non cambino le cose. In meglio. Ora si accendono i riflettori sulla sofferenza, e questo è un bene. Ci facciamo pubblicità. Il nostro è un centro di assoluta eccellenza che soffre molto per i tagli alla spesa sanitaria”. Poi don Luigi fa una pausa, e un largo sorriso si stampa subito su quel volto rotondo, dall’occhio buono. “Anche ‘il Silvio’ troverà modo di accettare questa situazione”, dice. “E’ un peccatore? Saranno affari suoi. Il cuore degli uomini si difende e continua a stillare sogni inesauribilmente. Così anche ‘il Silvio’ saprà trovare qualcosa di buono, persino di utile, in questa sua nuova condizione”. E mentre lo dice, don Luigi scrolla il capo con un’espressione che è di ammirazione e allo stesso tempo di colpa, resa più viva da un accenno di desiderio. “Berlusconi con gli ammalati, Berlusconi che si prende cura dei meno fortunati”, spiega. “Per lui può essere una grande operazione simpatia. Qui, alla Sacra Famiglia, ogni singola anima, anche la più complessa e contraddittoria, viene avvolta da un’anima collettiva, semplice e vigorosa”. Poi il parroco solleva gli occhi marroni, mossi da una gioia luminosa: “Certo che questa storia è tutta pazzerella. Lo so. Il grande leader condannato per evasione fiscale ad accudire i malati. Vede, la nostra Italia è un paese abbastanza matto. Ma io penso sempre che sia la nostra stranezza in fondo a salvarci. Ci redime”. E forse don Luigi, che è lombardo come lo era Manzoni, ci vede anche la Provvidenza dietro, con una specie di pietà nello sguardo, “avevamo bisogno di essere illuminati, di essere visti…”. Intanto il sole tramonta su Cesano, alla Sacra Famiglia è ora di cena, s’ode il rumore del cancello che si chiude per la sera, clic. Domani alle otto si ricomincia. Il Cavaliere arriva dopo Pasqua. Manca poco.


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