Settembre 2011, il Papa tedesco nel Vaterland spiega che la religione non è una sottocultura

Matteo Matzuzzi

Alla vigilia della storica visita del Papa tedesco al Bundestag di Berlino, nel settembre del 2011, era alto il timore che  a far notizia sarebbero state le assenze tra le fila dei deputati socialdemocratici e della sinistra post comunista, pronti a disertare per protesta l’Aula del Bundestag. Alla fine, a parte qualche decina di banchi vuoti, l’intervento del Pontefice sui fondamenti dello stato liberale di diritto si sarebbe concluso con un lungo applauso. Un discorso che, sottolinea al Foglio il cardinale Camillo Ruini, riprende e completa quanto già detto l’anno prima nella Westminster Hall di Londra.

    Alla vigilia della storica visita del Papa tedesco al Bundestag di Berlino, nel settembre del 2011, era alto il timore che  a far notizia sarebbero state le assenze tra le fila dei deputati socialdemocratici e della sinistra post comunista, pronti a disertare per protesta l’Aula del Bundestag. Alla fine, a parte qualche decina di banchi vuoti, l’intervento del Pontefice sui fondamenti dello stato liberale di diritto si sarebbe concluso con un lungo applauso. Un discorso che, sottolinea al Foglio il cardinale Camillo Ruini, riprende e completa quanto già detto l’anno prima nella Westminster Hall di Londra.

    Il discorso si apre con la richiesta salomonica a Dio di avere un “cuore docile” per “rendere giustizia al popolo”. E’ questa, come dice Benedetto XVI, la questione decisiva davanti alla quale si trovano ancora oggi la politica e l’uomo politico?

    “Il discorso al Bundestag ha un tema preciso, indicato dallo stesso Benedetto XVI: i fondamenti dello stato liberale di diritto. Il cuore docile è richiesto per saper distinguere il bene dal male. Tradotto in parole di oggi, è la coscienza stessa, come dice Ratzinger in un’altra parte del discorso. O anche, è la ragione aperta al linguaggio dell’essere. Un simile cuore è necessario per stabilire un vero diritto: costruire la giustizia e la pace. Già nella sua prima enciclica, la Deus Caritas est (28-29), Papa Benedetto aveva scritto che la giustizia è ‘lo scopo e la misura intrinseca di ogni politica’. Non in un senso moralistico, come se perseguire il successo, l’efficacia, non fosse indispensabile per fare realmente politica. Ma il successo da solo non si autogiustifica. Nella sua giovinezza, negli anni del nazismo, Ratzinger ha sperimentato di persona cosa voglia dire separare il potere dal diritto. Questa minaccia, in forme diverse e magari più sottili, si rinnova sempre anche nelle nostre attuali società democratiche, e Ratzinger dimostra come ciò avviene. Certo, in gran parte delle questioni il criterio democratico della decisione a maggioranza può essere sufficiente. Quando però è in gioco la dignità dell’uomo e dell’umanità, il principio maggioritario non basta, e nessuno può prescindere dalla propria coscienza. In concreto, questo si verifica oggi con forza più grande che mai, perché l’uomo è in grado di ‘distruggere il mondo e manipolare se stesso’. Siamo di fronte, cioè, a fondamentali questioni antropologiche, riguardo alle quali non è facile discernere ciò che sia giusto, quali possano essere le decisioni e le leggi giuste”.

    Ratzinger ammonisce circa il rischio di dare per assodato il dominio esclusivo della ragione positivista. Parla di “situazione drammatica su cui è necessaria una discussione pubblica”. A cosa porta, in concreto, questo dramma? Quali sono le conseguenze sulla società?

    “Secondo il suo stile, Ratzinger riconosce il valore della ragione positivista.  Dice che è ‘una parte grandiosa della coscienza umana e della capacità umana alla quale non dobbiamo assolutamente rinunciare’. E tuttavia, la ragione positivista non costituisce e non può costituire una cultura sufficiente perché, come era già stato sottolineato nel discorso di Ratisbona, limita l’ambito del razionale al verificabile o falsificabile sperimentalmente. E così lascia fuori l’etica e la religione. Il punto è questo: la ragione positivista non può essere esclusiva, non può ridurre tutte le altre culture a sottoculture. Non può essere il fondamento del diritto. Se tenta di farlo, minaccia l’uomo e la sua umanità. Perciò l’attuale predominio in Europa della cultura positivista ha l’effetto paradossale di porre l’Europa stessa in una condizione di mancanza di cultura di fronte alle altre culture del mondo. Questo paradosso, direi, è forse la radice più profonda della nostra attuale debolezza. La ragione positivista è dunque simile, osserva Ratzinger con un’immagine efficace, ‘a un edificio di cemento armato senza finestre’, con la luce e il clima prodotti artificialmente. Bisogna tornare a spalancare le finestre, vedere di nuovo la vastità del mondo. E per spalancare le finestre, è necessario che tutti prendano coscienza di questo ed è necessaria una discussione pubblica, che del resto in vari modi è in atto già da tempo, anche se da molte parti si cerca di imporre il pensiero unico del positivismo”.

    E’ un discorso in cui Benedetto XVI parla in maniera notevole dell’uomo, addirittura sostenendo che prima di tutto esiste una “ecologia dell’uomo”. Qualcuno scrisse, sorpreso, che il Papa non parlò di Dio. Che ne pensa?

    “In realtà, il suo parlare dell’uomo è, al tempo stesso e inseparabilmente, un parlare di Dio. Cercando di individuare nell’Europa di oggi qualche forza che possa aiutare a spalancare quelle finestre di cui si parlava prima, Papa Benedetto fa riferimento al movimento ecologista, robusto in Germania a partire dagli anni Settanta. Lo paragona a un grido che anela all’aria fresca. Aggiunge che l’importanza dell’ecologia è ormai indiscussa. Ma parte da qui per arrivare all’ecologia dell’uomo; ciò significa che l’uomo possiede una natura, natura che deve rispettare e non manipolare a piacere. Questo è il punto decisivo e oggi fortemente controverso. Si tende infatti a concepire l’uomo come pura libertà che in ogni ambito può disporre di sé, sebbene, anche qui paradossalmente, la libertà reale, cioè la nostra interiore capacità di scegliere, sia messa radicalmente in questione nella cultura oggi prevalente. Per Ratzinger, invece, l’uomo è spirito, certo, è volontà. Ma è anche natura. Nella stessa linea, Tommaso d’Aquino non esita a scrivere che la volontà stessa è una natura. Ha cioè un orientamento intrinseco, non è qualcosa di totalmente indifferenziato e indifferente a tutto. Perciò, sia a livello personale sia a livello pubblico, il genere umano è sulla strada giusta solo quando tiene conto della propria realtà. Accetta se stesso per quello che è e non pretende di inventarsi di nuovo quasi dal nulla. E così, implicitamente, è già presente il discorso di Dio che poi, anche al Bundestag, Ratzinger farà in maniera esplicita”.

    Un aspetto rilevante è la risposta all’interrogativo che gli suscita il pensiero di Kelsen sul fatto che sia privo di senso riflettere se la ragione oggettiva che si manifesta nella natura non presupponga uno Spirito Creatore. Benedetto XVI chiama in aiuto il patrimonio culturale dell’Europa, ricorda che è sulla base della convinzione circa l’esistenza di Dio che si sono sviluppate l’idea dei diritti umani, di uguaglianza. Quanto bene farebbe questo richiamo all’Europa di oggi, così disorientata?

    “Il richiamo al grande filosofo del diritto Hans Kelsen serve a Ratzinger anzitutto per risalire alle origine storiche e speculative del positivismo sia etico sia giuridico. E cioè risalire alla separazione tra l’essere e il dover essere, con la conseguenza che dalla natura, dalla realtà, non si potrebbe ricavare alcuna norma etica o giuridica. Prima che di Kelsen, questa è stata – come è noto – la tesi di David Hume. Benedetto XVI riconosce senz’altro che se concepiamo la natura soltanto alla maniera delle scienze empiriche, e cioè in modo puramente funzionale o – per dirla con Kelsen – come un aggregato di dati oggettivi congiunti gli uni agli altri quali cause ed effetti, la tesi della separazione è irrefutabile. Ma le cose cambiano se abbiamo un’idea diversa e più ampia della natura, da un lato, e della nostra ragione dall’altro. A questo punto Ratzinger torna a citare Kelsen, e precisamente l’interrogativo che Kelsen si pose quando era ormai molto anziano, a ottantaquattro anni, dato che – a suo parere – le norme possono derivare solo dalla volontà. Dato questo, la natura potrebbe contenere delle norme solo se avesse origine dalla volontà di un Dio Creatore. Ipotesi sulla quale, secondo Kelsen, non siamo in grado di decidere razionalmente. Qui Papa Benedetto, che a Ratisbona e in altre occasioni aveva argomentato razionalmente riguardo all’intelligenza creatrice, preferisce richiamare il patrimonio culturale dell’Europa, ricordando che le idee fondamentali dei diritti umani, dell’uguaglianza di tutti davanti alla legge, della dignità umana inviolabile e della nostra responsabilità per il nostro agire si sono sviluppate sulla base della convinzione dell’esistenza di un Dio Creatore. Così, in concreto, la cultura e l’identità dell’Europa sono nate dall’incontro tra la fede in Dio del popolo di Israele, la ragione filosofica dei greci e il pensiero giuridico di Roma. Questo incontro ha fissato i criteri del diritto. Alla luce delle nuove, fondamentali questioni antropologiche che stanno davanti a noi, si può senz’altro concordare con Papa Benedetto che difendere questi criteri è nostro compito nell’attuale momento storico.

    • Matteo Matzuzzi
    • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.