L'invidia maschia per Putin

Stefano Pistolini

Sarà perché alla fine hanno concesso il diritto di voto alle donne. Ma agli americani veri, quelli tutti d’un pezzo e della vecchia scuola, di eleggere un presidente dotato di un tasso di virilità degno dell’incarico non riesce quasi mai. Andatevi a rileggere l’elenco e provate a trovarne uno che possa essere seriamente classificato, oltre che come fine politico, diplomatico esemplare, innovatore e quant’altro, anche come un uomo dotato di attributi grandi come Mount Rushmore. Trovato qualcosa? Di chi vogliamo parlare? Lasciamo riposare George Washington e la sua dentiera di legno nella tomba. Sorvoliamo su Abramo Lincoln, un martire e santo, che spesso però somigliava più al signor Tentenna che al decisionista che adesso mostrano nei film.

    Sarà perché alla fine hanno concesso il diritto di voto alle donne. Ma agli americani veri, quelli tutti d’un pezzo e della vecchia scuola, di eleggere un presidente dotato di un tasso di virilità degno dell’incarico non riesce quasi mai. Andatevi a rileggere l’elenco e provate a trovarne uno che possa essere seriamente classificato, oltre che come fine politico, diplomatico esemplare, innovatore e quant’altro, anche come un uomo dotato di attributi grandi come Mount Rushmore. Trovato qualcosa? Di chi vogliamo parlare? Lasciamo riposare George Washington e la sua dentiera di legno nella tomba. Sorvoliamo su Abramo Lincoln, un martire e santo, che spesso però somigliava più al signor Tentenna che al decisionista che adesso mostrano nei film. Due parole su Woodrow Wilson vogliamo farle? O della vergogna di chiamarsi Jimmy Carter? Chi vogliamo citare? Stendiamo un velo su George W, magari il padre, ma anche lui più a suo agio a capo di un consiglio d’amministrazione che in un mezzogiorno di fuoco. Bill Clinton quando è fuori servizio sta bene soprattutto al bancone di un bar, Richard Nixon non aveva il physique du rôle, forse a essere magnanimi – prima d’arrivare alla questione Obama, che è la più scottante di tutte – un lasciapassare da uomo vero potremmo rilasciarlo a Dwight Eisenhower quando ragionava da generale e a Ronnie Reagan, che era un pistolero per finta, però con quel gusto “vecchia Hollywood” che faceva scena quando andava in tour per il mondo. Bei tempi, quando un po’ d’imperialismo americano era ancora credibile. La democratizzazione del nuovo millennio agli americani ha portato in dote un presidente clamoroso come Barack Obama, con annesso rinnovo del certificato di terra delle infinite opportunità. Tralasciamo. Neanche il saggio presidente nero dalla smagliante retorica ha cancellato, in una certa porzione dei suoi concittadini, la convinzione che l’America non dovrebbe avere una politica strutturata, ma semplificare al massimo, delegando ai localismi e concedendosi più che altro un grande capo, un leader da esporre al mondo e a cui affidare quelle decisioni di politica internazionale che tanto, prima o poi, si traducono in grane complicate che potranno essere risolte solo spendendo un sacco di dollari e mandando i marine, che Dio li protegga.

    Ecco: partiamo da questa premessa a base di banalità da pausa pranzo e sopravvissute al naufragio subitaneo del Tea Party, per provare a capire come mai un tipo pericoloso e un politico egotico e scopertamente maschilista come Vladimir Putin, con la sua ossessione d’incarnare l’approssimativa versione russa di 007, oggi raccolga simpatie inaspettate proprio nel cuore dell’America conservatrice più generica e televisiva – quella Limbaugh Nation orfana del movimento che doveva far ribaltare l’America, il Tea Party appunto, e che purtroppo non è mai riuscito a reclutare uno straccio di personalità presentabile cui affidare il suo messaggio. Eppure i presidenti americani che hanno governato durante la lunga permanenza di Putin al potere – Clinton, G. W. Bush, Obama – hanno presto o tardi sviluppato una netta avversione nei suoi confronti, provocata dalle sue periodiche sortite anti democratiche, dagli exploit neoimperialisti, ma soprattutto dall’epidermica, tangibile sensazione d’avere a che fare con una personalità ostile all’occidente. Un nemico in standby. Ovviamente le cose sono state percepite in modo almeno in parte diverso da chi a sua volta s’occupava di politica in America in opposizione agli inquilini della Casa Bianca. Qualche esempio? Il veterano del conservatorismo cattolico Pat Buchanan, che arringa il suo seguito di ultra cristiani sulla natura da “autentico conservatore” del signor Putin, “capace di leggere nel futuro con più chiarezza di quanto sappiano fare gli americani, impigliati in vecchi paradigmi da Guerra fredda”. O Ron Paul, l’eterno candidato ultraliberista alle presidenziali – a prima vista nemesi di un tipo come Putin. Non fosse che il fattore umano, per un individualista come lui, scavalca ogni etichetta: “Un governante di ottimo livello”, ha vaticinato Paul col solito ghigno da provocatore, spiegando come, a parer suo, gli americani dovrebbero disinteressarsi dei fatti di Crimea, almeno quanto non siano disposti a mobilitarsi in favore delle spinte autonomistiche di Scozia, Catalogna e di… Venezia (ipse dixit).

    Insomma: com’è possibile che una certa voglia di uomo forte – nella declinazione statunitense, non a base di limitazione delle libertà individuali, quanto di rappresentatività stilistica di una percezione “forte” e pionieristica dell’essere americani – abbia sempre ceduto il passo, nel momento delle scelte decisive come quella di un nuovo presidente, alla ragionevolezza e a una meditata medietà? Colpa delle donne, sicuramente, più dotate di pragmatismo e senso del ridicolo dell’altro sesso. Colpa delle minoranze, in cerca di garanti capaci di tener conto dei loro bisogni. Colpa del buon rapporto con la sua coscienza da parte della classe media. Eppure la voglia è restata in sospensione. E adesso che gli effetti della politica globalizzata e delle tv all news sono quelli di sapere cose di cui in passato non si sarebbe certo sentito il bisogno, ecco che un caso politico piuttosto allarmante come quello costituito da Putin, dalle sue politiche espansionistiche e dalle sue stravaganti iniziative populistiche, diventa una issue valutabile, nell’America del mugugno, dello scontento e delle illusioni perdute. Proprio quell’America che da sei anni sopporta Obama e ne ha sempre diffidato, ma che al tempo stesso intravede un’altra elezione perdente, se non ci si organizza per tenere a bada la macchina elettorale d’un altro presidente potenzialmente imbarazzante: la signora Clinton (che dice che Putin le ricorda Hitler, in privato ne imita la camminata a gambe larghe e per i suoi giudizi raccoglie le approvazioni di avversari come Marco Rubio e John McCain).

    Un effetto Putin in America serpeggia, ma non in risonanza con certe simpatie della vecchia Europa, quelle della cameraderie tra Silvio e Vlad per esempio, che avevano contorni da boccaccesca gita aziendale, o quelle alla Gérard Depardieu, che ha l’aridità del vecchio evasore fiscale in cerca di rifugio. No, qui la questione è più fisica e rappresentativa che teorica, s’annoda più con sindromi da invidia del pene grosso, da depressione post impero, da cancellazione del destino manifesto per l’avvento della Nuova Nazione. L’ipotesi di un grande padre per il paese, leader, faro e “immagine”. Ovvero: se fosse stato privo del suo senso dell’umorismo, John Wayne avrebbe vinto le presidenziali, se avesse corso negli anni Cinquanta, al culmine del suo successo? Certamente sarebbe stato un buon candidato, a giudicare da quanto fece, con più applicazione, un suo pistolero di fila con poche battute a disposizione come Reagan – non che le battute fossero il forte di Wayne, anzi, al contrario, proprio i suoi rocciosi silenzi e i suoi monosillabi sarebbero stati i suoi discorsi elettorali. Condannata a sopportare l’esotico e impegnativo passaggio della presidenza Obama e con prospettive cupe per il passaggio di consegne del 2016, c’è un’America pressapochista capace di dire: “La Russia sì che ha un vero capo, il nostro presidente è un incapace” (Ralph Peters, Fox News); o “Bene o male, va dato atto a Putin di saper agire” (Bill O’Reilly); fino al puro culto del decisionismo diretto incarnato da Rudy Giuliani: “Putin stabilisce cosa vuole fare e lo fa in mezza giornata. Decide ed esegue, rapidamente. Gli altri reagiscono dopo. Questo vuol dire essere un leader”.

    La questione non è tanto politica, ma descrittiva: la religione dell’uomo forte declinata secondo vagheggiamenti americani (su cui ormai i media cominciano a spigolare), e che non assume tratti dittatoriali, bensì di garanzia. A livello di “ranch”, non di nazione. Il capo come risolutore, un decisionista, un soluzionista delle grane in circolo. Superate le quali, ciascuno tornerà a farsi i fatti propri, con appuntamento in chiesa domenica mattina. Questa, ancora nel 2014, è una fetta d’America. Che non sopporta Obama per ciò che dice (anzi, più per come lo dice che per ciò che dice, a meno che non si parli d’assistenza sanitaria, argomento diabolico per antonomasia), ma che un presidente afroamericano alla fine l’ha digerito, nel nome della magnanima alternanza delle opportunità (ma uno può bastare), che crede che il wrestling non sia uno spettacolo ridicolo oltre che un cattivo suggerimento ai figli, che si commuove ripensando all’infanzia passata leggendo fumetti dei supereroi, gli stessi su cui Hollywood adesso pareggia i bilanci, perché di fare incassi con qualche buona sceneggiatura non se ne parla più.

    Poi c’è un altro cavallo di battaglia della Putinologia, che ha un alto richiamo presso dubitabili aree d’opinione americane: la questione anti gay. “E’ ora di trasferirsi a Mosca”, scrivono su Facebook gli avversari dei movimenti di rivendicazione omosessuale, si tratti di matrimonio gay o di questione militare. In realtà le nuove leggi restrittive introdotte da Putin riguardano la propaganda gay, e non la comunità gay tout court. In Russia è diventato illegale fare pubblicità allo stile di vita omosessuale rivolgendosi ai minorenni. Ma di qua dell’Atlantico la questione è stata strumentalizzata, diventando un’altra occasione per tirare fuori il peggio.

    Discorso che può valere anche per un’altra questione sensibile dell’America contemporanea: la sicurezza. A margine del caso Snowden, allorché Washington poteva mostrarsi sanamente incavolata col presidente russo per aver concesso asilo all’uomo che con le sue rivelazioni smascherava una discreta porzione del sistema di controllo governativo sulla privacy dei cittadini, Putin se n’è uscito con una considerazione che ha mandato in brodo di giuggiole i commentatori ostili alla Casa Bianca: “Come mi sento io nei confronti di Obama, dopo quel che ha rivelato Snowden? Più che altro provo invidia per Snowden, perché ha potuto fare una cosa del genere senza incorrere in alcuna conseguenza”. Riaffiora la drammaturgia da duro del Kgb in cappotto di pelle, col fine che giustifica i mezzi e quel che ne consegue. Snowden lo sputtanatore diventa più antiamericano dello Snowden rivelatore di attività illegittime. Prima la bandiera o i diritti civili? Questione di punti di vista. Ma anche qui, qualche simpatia Putin senza dubbio la raccatta.

    Ovvio che non è lo stile di vita dei russi a essere oggetto di qualsiasi forma d’invidia da parte degli antichi rivali. Nessuno è così pazzo. Un popolo trattato come un bambino inerme, catechizzato, controllato, disciplinato e ammorbidito da un diluvio di vodka. Cosa c’entra con l’american lifestyle? E’ l’antitesi, inutile parlarne. Ma di Daddy Putin, sì. Un misantropo narcisista, con trascorsi da spia e una carriera politica piena di ombre e sangue, assurto a un potere mantenuto attraverso periodica brutalità, riduzione delle libertà, condizionamento delle idee e dell’informazione, brogli, creazione di un opaco sottopotere finanziario e ritorno alla centralità dello stato nello sfruttamento delle risorse naturali. Colui che sta riportando d’attualità la cortina di ferro e che strattona gli americani nella sua ossessiva ricerca di un nemico nazionale. Il potere, in un’incarnazione ambigua, turpe, enigmatica. Già, ma anche l’esposizione di una forza pura – quella forza che col potere può formare un meccanismo sincronico. Putin è la forza, netta, spietata, maschia, dominante. Rimuove problemi, in fretta e a modo suo. Senza democrazia, senza giustizia, ma permettendo a chi non vuole distogliere attenzione dalle proprie faccende di venire distratto pochissimo, il minimo indispensabile. C’è un pubblico, in America, oggi, per questa visione. Non per il modello russo. Per uno stile di comando. L’uomo con delega completa.

    E c’è anche un altro Putin, più pop, che solletica gli umori americani di chi non vuole riconoscersi nel nuovo corso. Per esempio l’America obesa che si sente in colpa della quantità di porcherie che ogni mezz’ora estrae dal frigorifero per saziare appetiti monumentali, ma che guarda con livore alla campagna di responsabilizzazione portata avanti (con risultati poco apprezzabili, se girate per una città del sud) da Michelle Obama, quando va a fare le flessioni in tv. Putin, invece? Lui non è così alla mano. Lui, più che responsabilizzare, si fa contemplare, per esempio quando monta a cavallo come un cowboy, a torso nudo (e anche con anfibi e pantaloni militari, in un parossismo sciovinista che rasenta la caricatura). Ha appena divorziato dalla moglie e corrono voci di una relazione con una ginnasta trentenne (non ha mai smentito la sua reputazione di formidabile scopatore). Lui è un patriota che crede nell’unione ma diffida del mescolio di etnie e che, se il momento è propizio, in una settimana si prende la Crimea dicendo, “faccio solo ciò che va fatto”. E poi, a modo suo anche lui sostiene l’attività fisica per i connazionali, ma mica proibendo le patatine, bensì organizzando Olimpiadi invernali cupe e trionfalistiche o riattivando la propaganda stalinista per il programma di sportivizzazione dei russi (gran nome: “Pronti al Lavoro e alla Difesa”), attraverso l’istituzione di improbabili campionati popolari di corsa, salto, nuoto e sci, che fanno tanto vecchia Unione sovietica. Beh? Lo sentite l’eco dell’America di “Rocky” e dell’“Are you talkin’ to me?”.

    Per stuzzicare gli americani, come si diverte a fare col suo spirito levantino, Putin s’è procurato perfino un action hero di seconda mano come il suo coetaneo (61) Steven Seagal, nei panni del promoter dell’iniziativa. Vlad e Steve si fanno fotografare insieme, parlano di football, danno due colpi di judo. Durante le riprese del suo nuovo film (malinconicamente girato in Romania), Seagal ha chiamato qualche giornalista e ha detto loro che Vlad è “il più grande leader del mondo” e che ha condotto la questione ucraina in modo mirabile. La cosa è piaciuta ai russi e anche a certi americani. Il Moscow Times l’ha intervistato e lui, gratificato dall’insperato ritorno di fama, ha definito la politica degli occidentali sull’Ucraina un’idiozia, lodando il desiderio di Vlad “di proteggere i russi di Crimea e la base di Sebastopoli”. Al Cremlino gongolano e fanno sapere che chi parla non è un americano qualsiasi, ma una superstar con ambizioni politiche alla Reagan e che per gli americani è un divo più importante di Schwarzenegger. Su questo magari esagerano, ma metti che Seagal diventi il soggetto giusto per lanciare un Putin americano. Sai lo spasso? Se solo fossero in piedi le vecchie sedi del Tea Party e non avessero disdetto l’affitto per fine attività!