Francesco il primo Papa globalizzato e la sua visione periferica

Matteo Matzuzzi

“Per capire Bergoglio dobbiamo discostarci dal nostro orizzonte europeo”. Il professor Andrea Riccardi, storico e fondatore della Comunità di Sant’Egidio, considera Francesco il primo Papa della globalizzazione: si deve allontanare lo sguardo dall’Europa “non perché si debba prendere in considerazione un orizzonte solo latinoamericano, bensì un orizzonte veramente mondiale”, dice in un colloquio con il Foglio, aggiungendo che “in un orizzonte globale il problema della secolarizzazione non è poi così centrale”. A giudizio di Riccardi, infatti, “il cristianesimo – e in parte il cattolicesimo – è oggi sfidato dalla globalizzazione, in un mondo che dopo il 2006 è diventato per più della metà degli abitanti caratterizzato da grandi megalopoli.

    “Per capire Bergoglio dobbiamo discostarci dal nostro orizzonte europeo”. Il professor Andrea Riccardi, storico e fondatore della Comunità di Sant’Egidio, considera Francesco il primo Papa della globalizzazione: si deve allontanare lo sguardo dall’Europa “non perché si debba prendere in considerazione un orizzonte solo latinoamericano, bensì un orizzonte veramente mondiale”, dice in un colloquio con il Foglio, aggiungendo che “in un orizzonte globale il problema della secolarizzazione non è poi così centrale”. A giudizio di Riccardi, infatti, “il cristianesimo – e in parte il cattolicesimo – è oggi sfidato dalla globalizzazione, in un mondo che dopo il 2006 è diventato per più della metà degli abitanti caratterizzato da grandi megalopoli. Ed è qui che si svolge la sfida di un mondo che fa diventare le città periferia”. Qui “il cristianesimo non viene sfidato dalla secolarizzazione laica, ma dall’anonimato, dalla polverizzazione delle esistenze, da altri mondi religiosi”.

    Per rendersene conto, basta guardare al Messico, dove “c’è un linguaggio religioso globale, che però si esprime attraverso il culto della Santa Muerte”. Questa, spiega l’ordinario di Storia contemporanea alla Terza Università di Roma, “non è secolarizzazione, ma globalizzazione; una globalizzazione che ha come sfondo un tessuto religioso”. Un processo che varca i confini dei continenti: a Kinshasa, Lagos e Kampala “vediamo fenomeni diversi ma in una certa misura analoghi”. E così a Mumbai o Shanghai, dove il cattolicesimo è una piccola minoranza. “Io penso che la sfida di Bergoglio si collochi in questa prospettiva, quella di un mondo globalizzato”. Una sfida che sembra superare la questione delle minoranze creative “che determinano il futuro”, così centrali in Benedetto XVI. A giudizio di Riccardi, “Bergoglio – e dicendo questo lo paradossalizzo – sostiene che questo popolo non è così miscredente come noi lo reputiamo. E’ un popolo che ha delle domande, che va al santuario, che è più cristiano di quanto noi pensiamo. E’ un popolo religioso, ed è a questo che noi dobbiamo parlare, dare il kerygma evangelico, cioè quelle parole che suscitano in esso la fede evangelica”. Ed è qui, in questa realtà “che si incarna la teologia del popolo”. Una prospettiva che al nostro interlocutore pare nuova: “Francesco non vede tanto i confini tra la chiesa e gli altri, ma coglie le connessioni e guarda a un grande popolo, credente, credente a suo modo, poco credente”. Questa è la dimensione del ministero del Papa, “un grande missionario” con il quale “si completa la ricezione del Concilio”, attraverso “la canonizzazione di Giovanni XXIII, il Papa che il Vaticano II l’ha convocato, e di Giovanni Paolo II, il Papa che l’ha recepito”. Senza dimenticare che Bergoglio “vuole la beatificazione di Paolo VI”.

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    Raccomanda attenzione, Riccardi, quando si parla del popolo che tante volte il Pontefice preso quasi alla fine del mondo cita nelle sue omelie all’alba di Santa Marta e nei discorsi ufficiali: “Il discorso del popolo è caro al cattolicesimo ottocentesco, ma mi sembra che il popolo di Bergoglio non sia il popolo delle campagne, quanto il popolo che – come diceva Todorov – è segnato dallo spaesamento. La chiesa di Bergoglio non deve tracciare confini, ma costruire ponti. Il popolo è un popolo periferico. Il primo a porre il problema fu l’arcivescovo di Parigi, Emmanuel Suhard, durante la Seconda guerra mondiale. Nel popolo delle periferie di quella Francia, i missionari trovavano come antagonista il Partito comunista, con il suo messianismo sociale. Nelle periferie di oggi la situazione è diversa. Ci sono le mafie, e non per nulla c’è un numero di suore, preti e laici che da queste vengono uccisi – uno, nelle maras di San Salvador, anche di Sant’Egidio. Questi missionari hanno l’obiettivo di costruire un centro in periferia, e quindi di aggregare il popolo. E’ per questo che Francesco punta prima di tutto sul kerygma”. Un concetto, quello di periferia, che rappresenta il perno del Documento finale della V Conferenza di Aparecida, nel 2007 – che ebbe nell’allora arcivescovo di Buenos Aires il principale estensore –, che tuttavia non è nuovo: “E’ vero, ma la globalizzazione lo pone in modo nuovo, direi mostruoso”, nota Riccardi. Il fatto è che ormai “il centro non esiste più. Prendiamo San Paolo. Dov’è il centro geografico? Non c’è. La chiesa deve comportarsi di conseguenza, trovando altre strade. Il problema di fondo per capire Bergoglio è comprendere la portata della sfida rappresentata dall’agonia del cristianesimo, per dirla à la De Unamuno. Bergoglio sa bene che il cristianesimo è sfidato a morte, ed è il primo Papa che affronta i rischi della globalizzazione. Parliamo tanto di secolarizzazione, ma la globalizzazione non è tanto secolarizzante quanto disumanizzante, decristianizzante e deeclesializzante, per usare due neologismi”. Spesso, come rimedio a questo processo si insiste sull’importanza del ricorrere alla pietà popolare, come più volte ha fatto il teologo Juan Carlos Scannone, molto vicino a Bergoglio. Riccardi invita però “a non andare alla ricerca dell’intellettuale del Papa, che ha un suo pensiero importante, robusto e originale. Io – aggiunge lo storico – parlerei piuttosto di una teologia della chiesa di Buenos Aires. E’ una sintesi di diverse espressioni teologiche. La pietà popolare è stata un po’ disprezzata nel post Concilio, perché si è introdotta nel cristianesimo una sorta di geometria pastorale fatta di passaggi, e di questo è espressione la visione della Cei degli anni Settanta. In uno studio che ho condotto, ad esempio, si vede come negli anni della crisi (Sessanta-Settanta), nei santuari si è registrata una crescita di persone, non una decrescita. Ecco, Bergoglio insiste molto sulla pietà popolare, ma non la considera una religione consolatoria, di serie B. E qui c’è Wojtyla, che amava allo stesso tempo i circoli intellettuali e i santuari. Il messaggio che passa, dunque, è quello di un cristianesimo che è un popolo, non una geometria”. A parere del fondatore di Sant’Egidio, “Bergoglio opera una deverticalizzazione della chiesa. Non ci sono categorie di cristiani di serie A e B, clero e vescovi. Tutte queste categorie si trovano nella realtà del popolo di Dio. Così, accanto a un teologo c’è un santuario, accanto a un vescovo c’è una mamma. Non laici sindacalizzati che poi, alla fine, diventano clericali. L’idea di Bergoglio è quella di un popolo in cui molte sono le dimore nella casa del Padre, tutte con grande dignità e grande storia. Non è un discorso che va trascurato, era già presente in Giovanni Paolo II”. E la parrocchia è la “casa comune di questo popolo”, benché Francesco “riconosca la capacità evangelizzante dei movimenti”. Nel Papa gesuita c’è, spiega Riccardi, “un’idea di parrocchia da ripensare, perché troppo spesso i cristiani hanno visto la parrocchia come una sorta di protezione. Invece in Bergoglio c’è il richiamo all’uscita. Una parrocchia – e questo è indicato chiaramente nella Evangelii Gaudium – che va vista dal di fuori, che diventa una sorta di santuario cui andare. C’è l’idea della santuarizzazione della parrocchia, molto diversa dall’idea che si ha di questa come un mero centro d’attività. Per Francesco la parrocchia è il luogo del silenzio, della confessione”. Quanto alle priorità inscritte nell’agenda del Pontefice, il nostro interlocutore non ha dubbi: “Bergoglio voleva essere missionario in Giappone, e l’Asia è in cima alla sua agenda. Però, già negli anni Trenta si diceva che l’Asia rappresentava la sfida – ho trovato dei documenti di Propaganda Fide in tal senso –, poi le cose non sono andate avanti per il meglio. Abbiamo tante belle chiese di minoranza: Pakistan e Indonesia, ad esempio. Abbiamo la crescita della Corea del sud. Per prima cosa, però, dobbiamo premettere che abbiamo due grandi ‘continenti’, la Cina e l’India. Con quest’ultima abbiamo il problema di avere a che fare con un mondo e una cultura inclusiva del tutto particolare. Ricordo – racconta Riccardi – una vetrina a Nuova Delhi in cui c’erano simboli cristiani in mezzo a statue indù. E’ una cultura che assorbe. In Cina c’è il problema diplomatico e politico, risolto invece in Vietnam. A mio avviso è fondamentale studiare cos’è la secolarizzazione cinese, più di quella francese o tedesca. E’ necessario indagare la combinazione tra comunismo e capitalismo. In Cina il cattolicesimo può avere grande spazio, ma perché ciò accada, è necessario che i problemi siano risolti. E se, come dice Bergoglio, il tempo è superiore allo spazio, anche con una soluzione mediocre con il governo si guadagnerebbero anni per la chiesa cattolica in Cina e per l’evangelizzazione”.

    • Matteo Matzuzzi
    • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.