La sera restavamo in Banca d'Italia. Draghi e i Carli boys

Redazione

Governatore, qual è il suo ricordo dei rapporti tra Guido Carli e Federico Caffè?
Il primo ricordo che ho è legato alla mia tesi di laurea con Caffè. Mi laureai nel febbraio 1970 con una tesi sul Piano Werner. Il succo della tesi era questo: il Piano Werner è stato un fallimento perché le politiche economiche e le situazioni istituzionali dei vari paesi dell’Unione sono ancora troppo diverse per poter avere dei cambi fissi; in sostanza è troppo presto per pensare a una moneta unica. Anche Carli la pensava così.

di Federico Carli

    Governatore, qual è il suo ricordo dei rapporti tra Guido Carli e Federico Caffè?
    Il primo ricordo che ho è legato alla mia tesi di laurea con Caffè. Mi laureai nel febbraio 1970 con una tesi sul Piano Werner. Il succo della tesi era questo: il Piano Werner è stato un fallimento perché le politiche economiche e le situazioni istituzionali dei vari paesi dell’Unione sono ancora troppo diverse per poter avere dei cambi fissi; in sostanza è troppo presto per pensare a una moneta unica. Anche Carli la pensava così. Io lo seppi proprio da Caffè, il quale, durante la seduta di laurea, fece riferimento all’idea del governatore della Banca d’Italia che “guarda caso, coincide con la sua”: fu un semplice complimento alla fine della tesi, ma indicava molto chiaramente il rapporto che c’era fra i due. Sicuramente era quello che pensava Caffè dell’Unione monetaria europea.

    Più in generale, la mia impressione è che i rapporti fra i due fossero buoni. Erano innanzitutto due conoscitori della liquidità internazionale e delle istituzioni finanziarie internazionali. Tutti e due conoscevano molto bene il funzionamento del Fondo monetario internazionale e dell’Unione europea dei pagamenti, della quale Carli era stato presidente. Caffè nel 1945 fu capo di gabinetto del ministro per la Ricostruzione Ruini, nel governo Parri. L’Italia entrò nel Fmi dopo la sua costituzione, non immediatamente perché non era potenza vincitrice. Come capo di gabinetto di Ruini, Caffè aveva capito il ruolo strategico dell’istituzione, e a un certo punto (quando dirigeva l’ufficio Organismi internazionali del Servizio studi della Banca d’Italia) si adoperò perché l’Italia pagasse la sua quota per l’adesione al Fondo monetario e alla Banca mondiale.

    Caffè era molto informato sulle questioni internazionali. Prendiamo le Lezioni di politica economica del 1978: già lì c’è molto sul Fondo monetario. Io partecipavo come suo assistente alle sedute d’esame, e posso dire che la parte sulla liquidità internazionale e sulle istituzioni finanziarie internazionali era un’ampia sezione del corso di politica economica.

    Torniamo al rapporto con Carli.
    Caffè e Carli avevano in comune anche un’altra cosa. Carli, come Caffè, non era acriticamente liberista: nutrivano entrambi un sostanziale scetticismo a proposito del funzionamento di un mercato non sorvegliato, non accudito da norme adeguate. Lo scetticismo in Caffè diventò poi sempre più netto, fino alle invettive contro la Borsa. Però l’idea che la Borsa fosse un “mercatino per amici” l’aveva anche Carli; l’aveva chiunque conoscesse il funzionamento della Borsa del tempo; l’avevano gli stessi agenti di cambio. Carli, però, era molto più aperto sul fronte dei movimenti internazionali di capitali e sul libero commercio.

    Avevano quindi molte cose in comune; per il resto non entravano in collisione. Caffè dava quadri ampi dell’economia: volendo entrare in dettaglio si potevano trovare incongruenze, carenze di dati o di supporto empirico a certe tesi, però erano quadri avvincenti e avevano sempre un fondo di vero. La visione complessiva si poteva abbracciare o respingere. Carli era della stessa pasta; non era un pedante. Non era un economista analitico, non era un matematico, ma soprattutto non era pedante, e aveva lo stesso modo di descrivere la realtà: a grandi pennellate. Questi sono gli elementi di comunanza fra i due, che generavano anche una certa simpatia.

    In più Carli decise di rafforzare il Servizio studi della Banca d’Italia e cercava persone intelligenti, informate, al centro dell’accademia, ma di una certa accademia. Non coltivava tanto i Di Nardi o i Papi, ma piuttosto i Caffè, i Napoleoni, i keynesiani come Di Fenizio; aveva bisogno di economisti che sapessero anche come funzionano le istituzioni. Quindi è naturale che il Servizio studi della Banca d’Italia per un lungo periodo abbia fatto riferimento a Caffè, che aveva questa combinazione di qualità.
    Ora il mio rapporto con Carli. Mio padre cominciò la sua carriera con Donato Menichella negli anni Venti, negli uffici di liquidazione della Banca italiana di Sconto. Poi entrò in Banca d’Italia, dove fu ispettore di Vigilanza per una decina d’anni; lasciò la Banca per l’Iri, dove ritrovò Menichella come direttore generale, e con lui lavorò negli anni Trenta, fino alla guerra. In seguito gli offrirono un posto alla Banca Nazionale del Lavoro con Imbriani Longo, dove rimase fino alla morte. E’ chiaro che, in famiglia, dei governatori della Banca d’Italia si parlava. Ricordo che quando avevo solo cinque anni feci un viaggio in treno fino a Padova con Menichella; insomma, credo di essere l’unico in questo palazzo [Palazzo Koch] che ha conosciuto Menichella, perché se ne sono andati tutti. Anche di Carli – a un certo punto venne fuori questo nome – si parlava molto; per una persona come mio padre, che aveva l’età circa di Menichella – era nato nel 1895, Menichella nel 1896 –, Carli era un po’ troppo giovane, questa era l’idea che circolava. Poi, alla morte di mio padre, mia madre curò una raccolta di suoi scritti di tecnica bancaria, io avevo quindici o sedici anni; ci fu una bella prefazione di De Stefani, il vecchio ministro del fascismo, che mio padre, che era di Padova, conosceva perché De Stefani aveva studiato e insegnato a Padova, avevano fatto tutti e due la Prima guerra mondiale, erano stati tutti e due decorati. Portai a casa di Carli una copia di questo libro: ci fu una stretta di mano e poco più, arrivederci e grazie.

    Ci si rivide nel 1990 quando io tornai alla Banca mondiale. Avevo fatto già quattro anni (più uno) a Washington. Uno dei governors della Banca mondiale per l’Italia è, de iure, il governatore della Banca d’Italia. Quindi all’inizio del 1989 chiamai il governatore Ciampi e gli dissi che avevo intenzione di andare via. Lui mi chiese: “Dove va?”. Risposi: “Probabilmente vado a lavorare in una banca a Los Angeles, quindi, tempo cinque-sei mesi, vorrei chiudere qui alla Banca mondiale, sono rimasto anche troppo”. Ciampi mi rispose: “Aspetti un momento”. Mi richiamò dopo tre o quattro giorni e mi fece un’offerta per venire a lavorare come consulente in Banca d’Italia. Ne parlai con mia moglie, alla fine si decise e si venne qui. Potei così continuare per uno o due anni l’insegnamento all’università, che altrimenti avrei lasciato.

    Dopo circa un anno di lavoro alla Banca, verso la fine del 1990, ci fu un dissidio fra Carli e il direttore generale del Tesoro Sarcinelli, alla fine del quale Sarcinelli diede le dimissioni. La questione era la Sace, della quale Sarcinelli era presidente in quanto direttore del Tesoro. C’erano forti pressioni di alcuni esponenti del governo (presidente era Andreotti) per far affluire dei finanziamenti a imprenditori per esportazioni. Questi finanziamenti potevano essere concessi dalle banche solo se assicurati dalla Sace. Questa, con Sarcinelli, continuava a opporsi. Allora fu proposta una legge che poneva la decisione direttamente in capo al governo, sempre però previa valutazione della Sace. Le difficoltà continuarono e ci fu un voto contro Sarcinelli nel consiglio della società. Sarcinelli, non sentendosi sostenuto da Carli, si dimise. Fu allora che Ciampi mi chiamò e mi chiese se fossi interessato al posto di direttore generale del Tesoro. La mia prima risposta fu che non avevo la più pallida idea di cosa fosse questo lavoro. Esitai parecchio, circa un mese e mezzo: in quel periodo rividi Carli. L’ultima volta che lo avevo incontrato avevo sedici anni. Parlammo molto a lungo: di lavoro, ma soprattutto di me. Mi voleva conoscere, si ricordava di mio padre, voleva capire che razza di “prodotto” si sarebbe portato a casa. Alla fine di queste conversazioni, che tenemmo nell’ufficio che aveva in via Due Macelli, sia Carli che Ciampi mi dissero: “Si decida, per cortesia”. Accettai l’offerta. Si dovette ancora interpellare il presidente del Consiglio, il quale disse sì. Così è cominciato questo mio rapporto professionale con Carli, che è stato breve, ma molto intenso. Per me erano i primi passi nell’amministrazione pubblica in una posizione di grande responsabilità, in un momento in cui il sistema si stava sgretolando rapidamente. E la prima questione fu proprio la Sace, di cui andavo ad assumere la presidenza.
    Io, abituato alla Banca mondiale dove i documenti per le decisioni arrivavano molto ben costruiti, precisi, almeno due settimane prima della riunione nella quale si doveva deliberare, arrivai lì e mi trovai sul tavolo alla prima riunione qualcosa come duecento schede in cui non si vedevano neanche bene i nomi e le cifre, perché erano tutte sbiadite. Io ero molto a disagio. Alla fine dico: “… ma scusate, questo è come se uno sta lì, apre la porta con la lingua di fuori e tu passi col francobollo e l’attacchi!”. Risata di tutti. E io: “Voi ridete, ma francamente non mi sento di approvare niente”. Diventai direttore generale del Tesoro, e quindi presidente della Sace, il 1° marzo 1991: la Sace non approvò niente fino al giugno-luglio di quell’anno.

    Peggio che con Sarcinelli?
    Molto peggio! Tanto che ci furono delle reazioni molto vocali, molto esplicite da parte di parecchia gente. Ebbi telefonate anche di notte. La situazione era difficile perché c’era una legge dello stato che prescriveva certi adempimenti. Io, venendo dalla Banca mondiale, avevo ben chiare certe cose, la situazione gravissima dell’Unione sovietica ad esempio, ed ero convinto che quelli fossero impieghi decisamente troppo rischiosi per un ente pubblico. Su questo punto tenni duro due anni.

    E Carli la sostenne?
    Certo, assolutamente sì. Carli mi sosteneva completamente su questo. Non mi fece alcuna obiezione. Un’altra cosa bloccai subito, sempre con il consenso di Carli. Il Tesoro aveva un piano di emissioni obbligazionarie in valuta estera abbastanza strutturato, un piano che risaliva al governo precedente; io prevedevo, dopo aver visto le vicende di tanti paesi in Banca mondiale, che qualcosa sarebbe successo al cambio della lira. Perciò l’altra cosa che bloccai fu il programma di emissioni di titoli pubblici in valuta estera. Lo bloccai completamente fino alla fine del 1992, fino a dopo la svalutazione. Questa fu una decisione che causò notevoli reazioni da parte della comunità finanziaria internazionale; al Tesoro c’era un via vai continuo di banche estere che volevano partecipare ai collocamenti.
    Una questione sulla quale Carli molto si impegnò in prima persona fu il Trattato di Maastricht. Come direttore generale del Tesoro ero a capo della delegazione presso quello che oggi si chiama Economic and Financial Committee e allora si chiamava Monetary Committee. Era quello il luogo in cui si negoziava, tecnicamente, il Trattato di Maastricht. Durante il mio primo anno al Tesoro, per lo meno due giorni a settimana ero a Bruxelles per discutere di questo. Devo dire che non trovai il terreno vergine, perché c’era stato il Rapporto Delors e c’era già un ampio coinvolgimento sia della Banca d’Italia sia del ministero degli Esteri. Si facevano riunioni periodiche al ministero del Tesoro. Gradualmente entrai nell’atmosfera; occorreva tempo perché uno come me, dopo quattro o cinque anni passati negli Stati Uniti, capisse il processo che si era messo in moto. Era abbastanza chiaro a Carli che noi ci stavamo muovendo in maniera schizofrenica, perché a Maastricht stavamo sottoscrivendo degli impegni che erano contraddetti dalla politica economica che veniva seguita in casa. Carli, e questo è stato dimostrato tante volte, sperava molto nell’azione del vincolo esterno. Lui riteneva che, una volta che ci fossimo legati, questo avrebbe portato anche un cambio di politica economica.

    Lo disse anche a lei questo? Glielo chiedo perché Guido Carli scrisse varie volte sul vincolo esterno, “post factum”. Sto cercando di capire se ci sono testimonianze dirette, coeve, o se ci dobbiamo accontentare delle interpretazioni.
    No, non è un’interpretazione. Io ora non ricordo che lui me l’abbia detto, però c’è qualcosa di più importante: quello che lui mi diceva di fare. Molto presto, dopo uno o due mesi di negoziato, mi disse: “Guardi, lei ogni volta che torna da Bruxelles vada a trovare il presidente del Consiglio e gli racconti il tipo di cose che si sono dette, che cosa si è negoziato, come ci si orienta rispetto ai limiti del debito, e così via”. Cosa che io feci puntualmente per un anno, dal marzo-aprile del 1991 fino a quando non cadde il governo Andreotti, con incontri spesso bisettimanali.

    Incontri che Andreotti le concedeva volentieri?
    Andreotti me li concedeva senza batter ciglio, perché c’era questa entente con Carli, il quale teneva molto che io ogni volta andassi, informassi il presidente del Consiglio, gli dicessi anche che occorreva muoversi su tanti fronti, soprattutto sul fronte previdenziale, pensionistico, della spesa corrente. La situazione di partenza era spaventosa. Noi stavamo viaggiando verso un rapporto deficit/pil dell’11 per cento. Tenete presente che il prestigio di Carli nell’Ecofin era molto alto. Carli era ricordato per il ruolo che aveva avuto negli anni Settanta, negli anni Sessanta, e prima ancora come presidente dell’Unione europea dei pagamenti. Ma aveva anche capacità particolari. Primo, parlava in inglese, tedesco e francese senza alcuna difficoltà. Secondo, i testi che io gli preparavo lui regolarmente li inglobava, li assimilava, e parlava senza un pezzo di carta davanti, ma come se leggesse un libro. Parlava con una sintassi perfettamente costruita, un bel periodare di impostazione classica, con una precisione di linguaggio assoluta, e questo in tre lingue. Il suo prestigio era tale che veniva considerato sempre più come l’ultima spiaggia per l’Italia, l’ultima speranza perché si potesse fare qualcosa. Sostanzialmente quel governo veniva visto dal resto d’Europa come animato da due figure centrali: Carli da un lato e Andreotti dall’altro, quale rappresentante massimo della Democrazia cristiana europea, al livello di Kohl. Questi erano i due punti di riferimento.

    Torno alla domanda sul vincolo: se lui teneva così tanto a che io parlassi con il presidente del Consiglio, vuol dire che veramente pensava che il vincolo esterno potesse essere efficace e aiutare il paese e lo stesso presidente del Consiglio, il quale era molto convinto dell’importanza del processo europeo.

    di Federico Carli
    * Pubblichiamo stralci dell’intervista a Mario Draghi realizzata da Federico Carli per il volume “La figura e l’opera di Guido Carli”, in uscita in questi giorni per Bollati Boringhieri