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Burocrazia da esportazione
Era prevedibile: adesso che la spesa pubblica in eccesso è stata censita ufficialmente – con il lavoro del commissario Carlo Cottarelli presentato in Parlamento e sostenuto dal presidente del Consiglio Matteo Renzi – ogni zero-virgola da tosare farà discutere. Per molti era meno prevedibile che a insorgere sarebbe stata anche la rappresentanza ufficiale del ceto produttivo del paese, quello che più avrebbe da guadagnare da uno scambio tra stato più leggero e fisco meno oppressivo. Infatti il presidente della Confindustria, Giorgio Squinzi, non ha usato eufemismi: “Ho captato con terrore le voci su un possibile taglio dell’Ice”, acronimo dell’Istituto per il commercio estero.
Era prevedibile: adesso che la spesa pubblica in eccesso è stata censita ufficialmente – con il lavoro del commissario Carlo Cottarelli presentato in Parlamento e sostenuto dal presidente del Consiglio Matteo Renzi – ogni zero-virgola da tosare farà discutere. Per molti era meno prevedibile che a insorgere sarebbe stata anche la rappresentanza ufficiale del ceto produttivo del paese, quello che più avrebbe da guadagnare da uno scambio tra stato più leggero e fisco meno oppressivo. Infatti il presidente della Confindustria, Giorgio Squinzi, non ha usato eufemismi: “Ho captato con terrore le voci su un possibile taglio dell’Ice”, acronimo dell’Istituto per il commercio estero. “Terrore” generato da uno specifico zero-virgola di uscite statali che Cottarelli suggerisce di ridurre: su tagli stimati per il 2014 in 7 miliardi di euro, infatti, figura una limatura da 0,1 miliardi (100 milioni) alla voce “enti pubblici” (limatura che poi dovrebbe diventare di 0,2 miliardi nel 2015 e 0,3 miliardi nel 2016). Tra questi enti pubblici ci sono appunto il Cnel (dove Confindustria, come tutte le parti sociali, è rappresentata) e l’Ice, cioè l’istituto la cui missione principale è promuovere l’internazionalizzazione delle imprese italiane. Ieri anche il Sole 24 Ore, giornale della Confindustria, oltre a dedicare ampio spazio all’“altolà” di Squinzi, ha pubblicato un corsivo in prima pagina intitolato “Un autogol da evitare”. Nel corsivo si osservava che il governo Letta ha rimpinguato il budget dell’Ice, quindi meglio non compiere il “clamoroso errore” di tornare indietro. Cioè di tagliare la spesa.
Ma l’Ice è davvero intoccabile? In realtà già nel luglio 2011, quando lo spread iniziava a salire in maniera paurosa, il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, pensò che si potesse sopprimere l’Istituto nato sotto il fascismo per fornire copertura ai servizi segreti militari dell’epoca (il Sim). Tremonti non pensò soltanto a sopprimere l’Ice, lo fece pure. I 631 dipendenti (500 tra dirigenti e quadri) non sarebbero stati licenziati dall’oggi al domani, ma una razionalizzazione delle strutture all’estero sarebbe stata obbligata. Confindustria ovviamente andò all’attacco. Poi il governo Monti riportò in vita l’Ice, cambiandogli nome (Agenzia Ice) e imponendogli una cura dimagrante sui costi. Nel 2013, infine, il governo Letta decise di raddoppiare, da 28 a 50 milioni di euro, i fondi a disposizione per le attività all’estero. Ora con Renzi si ricomincia daccapo. Confindustria permettendo.
“Nessuno tocchi l’Ice”, però, è un appello fondato su numeri ed evidenze tutt’altro che incontrovertibili. La Banca d’Italia, il mese scorso, ha presentato in un seminario ristretto un suo studio secondo cui il “Sistema paese”, cioè l’insieme di enti pubblici che sostengono l’export e l’internazionalizzazione delle imprese, risulta fin troppo pletorico, costoso e inefficiente. L’Ice fa la sua parte, affiancato dai ministeri degli Affari esteri e dello Sviluppo, dalla V commissione permanente del Cipe, dalla “Cabina di regia” creata nel 2011 (con ministeri, privati, regioni, enti locali) e da “enti operativi” come Sace (Servizi assicurativi del commercio estero), Simest (Società italiana per le imprese all’estero), Camere di commercio in Italia e all’estero, e altre sigle ancora. Nel complesso, sono oltre 2.000 i dipendenti pubblici che lavorano a tempo pieno per l’internazionalizzazione delle imprese private, molti più che in Germania (350 circa) e Regno Unito (650-1.900). Ogni anno l’Italia spende tra i 250 e i 450 milioni di euro per sostenere le imprese private che intendono muoversi oltre confine, più di Parigi (200-300 milioni) e Berlino (220). Banca d’Italia punta il dito su “difficoltà di assicurare una strategia integrata a supporto delle imprese”, “perimetri di competenza non nettamente divisi” e sovrapposizioni di ruoli. Perciò suggerisce un taglio del 60 per cento di queste spese: a risultati invariati, anzi migliori. “Uno dei problemi principali delle piccole e medie aziende che vogliono investire all’estero – dice al Foglio Enzo Raisi, export manager per 20 anni e già parlamentare di Pdl e Fli – è proprio il ‘giro delle sette chiese’ che viene loro imposto fra tutti gli uffici burocratici italiani nei paesi di destinazione”. Perciò Raisi, nel 2005, riuscì da relatore a far approvare la Legge sullo sportello unico per le imprese all’estero: “Avrebbe comportato risparmi di spesa, imponendo che tutti gli enti fossero ospitati nelle sedi diplomatiche, e soprattutto avrebbe facilitato la vita di noi imprenditori. Invece di difendere a tutti i costi lo status quo, si potrebbe riesumare una legge finora disapplicata”. Confindustria permettendo.


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