
10 miliardi, a chi li do?
I 10 miliardi di euro di sgravi fiscali annunciati dal governo per il 2014 vanno utilizzati a favore di chi ne ricaverà il “valore marginale” maggiore: cioè le famiglie, specialmente quelle disagiate, che si potranno avvantaggiare dell’alleggerimento dell’Irpef (Imposta sul reddito delle persone fisiche). Nel migliore dei casi, questa manovra potrà sollecitare un minimo rialzo dei consumi; nell’ipotesi peggiore, ridurrà la disuguaglianza che è crescente nel nostro paese. Sicuramente questa, però, non è ‘la’ soluzione per la crescita: parliamo pur sempre di risorse limitate, 450 euro all’anno in più in busta paga, cioè 35 euro al mese, per una quota non maggioritaria della popolazione italiana.
Meglio l’Irpef, ma non attendiamoci
miracoli. Va riformata la contrattazione
I 10 miliardi di euro di sgravi fiscali annunciati dal governo per il 2014 vanno utilizzati a favore di chi ne ricaverà il “valore marginale” maggiore: cioè le famiglie, specialmente quelle disagiate, che si potranno avvantaggiare dell’alleggerimento dell’Irpef (Imposta sul reddito delle persone fisiche). Nel migliore dei casi, questa manovra potrà sollecitare un minimo rialzo dei consumi; nell’ipotesi peggiore, ridurrà la disuguaglianza che è crescente nel nostro paese. Sicuramente questa, però, non è ‘la’ soluzione per la crescita: parliamo pur sempre di risorse limitate, 450 euro all’anno in più in busta paga, cioè 35 euro al mese, per una quota non maggioritaria della popolazione italiana. Proprio perché la manovra serve a tamponare oggi il disagio sociale più eclatante, ma non necessariamente a riattivare la crescita, questo implica che già nei prossimi mesi si debbano trovare le risorse per reimpostare il regime fiscale per le imprese: oneri sociali, Irap e premi di produttività. A questo proposito, il punto più importante consiste nel riallineare andamento salariale e dinamica della produttività in Italia. Negli scorsi anni abbiamo perso competitività rispetto ad altri paesi perché la produttività non è aumentata, i salari sì, e quindi è cresciuto il costo del lavoro per unità di prodotto. Va dunque superato il monoteismo del contratto nazionale di lavoro; quello aziendale dev’essere un’opzione alternativa davvero a disposizione e quanto più allettante possibile per imprenditori e lavoratori: in cambio di maggiore flessibilità nell’organizzare il lavoro in azienda e di salari che possano crescere quando i risultati migliorano, vanno concessi sgravi fiscali sulla parte variabile del salario. Difficile che Confindustria e sindacati rinuncino al loro potere di intermediazione sul contratto nazionale, ma questo non è un buon motivo per non provarci.
Carlo Altomonte
Università Bocconi
Meglio l’Irpef, ma senza impiccarsi
a cercare le coperture o l’effetto sarà neutro
La diminuzione dell’Irpef – generando un aumento dei consumi – avrebbe un immediato impatto positivo sulla domanda interna di entità quasi pari a quella della manovra, cioè 10 miliardi se gli annunci dell’esecutivo saranno confermati, quindi va preferita rispetto allo sgravio dell’Irap sulle imprese. Ai fautori di quest’ultima ipotesi faccio notare invece che non c’è nessuna certezza che l’alleggerimento dell’Irap si trasformi in una riduzione dei prezzi delle nostre esportazioni, oppure in un reinvestimento dei maggiori profitti ottenuti. Meglio quindi concentrare le risorse sulla riduzione dell’Irpef, non abbassando le aliquote perché questo riguarderebbe tutti, anche i redditi maggiori, e a parità di risorse avrebbe perciò un impatto minimo: i 10 miliardi vanno usati per aumentare le detrazioni sui redditi più bassi. Gli effetti positivi dell’alleggerimento fiscale, però, non sono assicurati. Dipenderanno da come verrà affrontato il problema delle coperture. Se a fronte dei 10 miliardi di sgravio fiscale si procederà con tagli della spesa pubblica di pari entità, l’effetto recessivo di questa seconda scelta potrebbe annullare del tutto quello propulsivo generato dalla riduzione delle tasse. Se pensiamo di finanziare riduzioni della pressione fiscale con tagli di spesa, dentro i vincoli europei sui conti pubblici, gli effetti possono essere trascurabili o addirittura recessivi. Insomma, non è possibile procedere con gli avanzi primari per rispettare il vincolo europeo sul deficit. Altrimenti si vanifica tutto.
Riccardo Realfonzo
Università del Sannio
Ridurre le imposte personali sul reddito, ma in misura choc e per tutti (ricchi inclusi)
Avendo in passato compiuto alcune simulazioni in materia, seppure basate su tagli delle tasse di entità maggiore (20-30 miliardi di euro), ritengo che l’effetto più positivo sulla crescita oggi lo avrebbe una riduzione delle imposte personali sul reddito, cioè dell’Irpef. Una limatura dell’Irap, certo, consentirebbe di ridurre i costi generali di produzione ma non inciderebbe direttamente sul costo unitario del lavoro, cioè la componente più significativa nel determinare la competitività delle imprese. Tenendo in ogni caso presente che i costi unitari del lavoro non sono fatti solo della loro parte nominale: una riduzione dell’Irap non inciderebbe per esempio sulla produttività, che invece deve crescere in maniera sostanziale. Ci sono comunque due importanti caveat di cui tenere conto. Primo, per imprimere uno choc all’economia e incidere anche sulle aspettative future dei cittadini, l’intervento di alleggerimento della tassazione sul reddito dev’essere quanto più significativo possibile, oltre che concentrato nel tempo. 10 miliardi di euro, e qualche impegno vago per il futuro, potrebbero non bastare. In secondo luogo, andrebbe scartata l’idea di riservare lo sgravio dell’Irpef ai soli redditi bassi, operando attraverso le detrazioni fiscali. Meglio meno Irpef abbassando tutte le aliquote, seppure – a parità di risorse – con guadagni pro capite più contenuti. Riservare lo sgravio ad alcune fasce di reddito intende rilanciare la domanda interna; così però si ostruirebbe il canale di trasmissione della politica fiscale sull’offerta, visto che gli effetti sul lato dell’offerta generati da una riduzione dell’Irpef – cioè l’incentivo a lavorare e produrre di più – valgono per tutti i cittadini, quale che sia il loro reddito.
Ernesto Felli
Università Roma Tre
Meno Irpef ha senso, ma il fatto di arrivare ultimi in Europa ci può penalizzare
Accontentare i sindacati o la Confindustria? In un’ottica europea il derby Irpef-Irap sul cuneo potrebbe rivelarsi alla fine un falso problema. In Europa infatti è cominciata una corsa a tagliare tasse e contributi che gravano sul lavoro per guadagnare competitività a scapito dei vicini; una corsa “folle” secondo Le Monde e che in ultima analisi potrebbe rivelarsi un gioco a somma zero. In gennaio il presidente francese François Hollande ha lanciato il Pacte de Responsabilité che prevede una riduzione pari a 30 miliardi di euro delle charges sociales. Si tratta di un “patto” perché il presidente, a fronte della concessione degli sgravi, esige da imprese e sindacati impegni precisi e concordati in termini di nuove assunzioni. Madrid ha seguito Parigi un mese dopo. Il primo ministro iberico Mariano Rajoy ha introdotto una nuova flat tax di 100 euro mensili sui contributi a carico delle aziende che consentirà a quelle che assumono di realizzare significativi risparmi. Si calcola che su una retribuzione di 20 mila euro il carico per le imprese possa scendere da 5.700 a 1.200 euro. Hollande e Rajoy cercano in questo modo di pompare la crescita economica puntando sulle esportazioni.
In Italia, se le attese della vigilia saranno confermate, il taglio del cuneo fiscale si dovrebbe concentrare invece sugli sgravi Irpef per i lavoratori a basso reddito; dunque con poche concessioni alle imprese e nessun vincolo a loro carico. La scelta, in un’economia che a differenza di Francia e Spagna stenta a uscire dalla recessione e dunque ha bisogno di una scossa dal lato della domanda, può avere un senso ma comporta il rischio che a beneficiare degli accresciuti consumi siano quelle stesse imprese dei cugini latini che nel frattempo hanno usufruito degli sgravi sul costo del lavoro. Se invece Matteo Renzi optasse per la riduzione dell’Irap, la mossa potrebbe avere comunque un effetto neutro perché i guadagni di competitività francese, spagnolo e italiano si eliderebbero a vicenda. Il centro studi Nomisma rileva come la partita della competitività di costo oggi in Europa non si giochi con i paesi terzi ma all’interno dell’Eurozona stessa. E il problema è sempre lo stesso: tenere il passo con la Germania. Una volta per questo esistevano le svalutazioni competitive del cambio. Quella della lira dei primi anni Novanta fece tremare francesi e tedeschi e non fu estranea alla decisione di lasciar entrare la lira nell’euro. Oggi, bloccata la leva del cambio, i paesi del sud Europa cercano di guadagnare competitività gli uni sugli altri per inseguire Berlino. Ma è una guerra che potrebbe diventare presto una contesa tra poveri.
Marco Cecchini
10 miliardi: per i nostri redditi sono acqua fresca, per le imprese fanno la differenza
Meno Irpef o meno Irap? Per valutare gli effetti delle due misure alternative, stimate in 10 miliardi annui, bisogna stabilire se la riduzione fiscale ha o no l’impatto di una massa critica, e se essa ha un effetto primario sulla domanda o sull’offerta e quale è l’effetto: a) sulla competitività; b) sulla produzione, cioè sul pil; c) sulla bilancia dei pagamenti e quindi sul debito estero netto. Uno sgravio Irpef sul reddito mensile di lavoro dipendente di 10 miliardi per 10 milioni di lavoratori, di cui una parte nel settore pubblico, pari a 800 euro annui suddiviso in 11 rate mensili di 71 euro e una a fine anno di 143 non mi sembra possa generare una massa critica sulla domanda globale di consumi. Ha un effetto limitato sul prodotto industriale domestico, ha una elevata componente di importazione per alimentari di massa e prodotti di basso costo, nessun beneficio per la produttività e per la competitività, un effetto nullo sulla domanda di esportazioni e di investimento, un effetto modestissimo sulla nuova occupazione e nullo sulla tendenza a spostare all’estero i servizi pregiati.
Uno sgravio di 8 miliardi nell’Irap sui costi del lavoro delle imprese – che sono di 16 miliardi – comporta una riduzione di 2 punti sul costo del lavoro e del 6 dei contributi pagati dalle imprese, con particolari effetti di massa critica per le imprese labor intensive, specie per le attività di servizi molto qualificate. Ne consegue un aumento di competitività con effetti positivi sulla produzione, sul saldo import-export, sugli investimenti e sull’occupazione “labor intensive”. Se si aggiungono 2 miliardi di sgravi in Irpef per salari di produttività, questi effetti si ampliano ulteriormente. La riduzione dell’Irap sul costo del lavoro si può attuare, senza ridurre il gettito per le regioni, dando ai contribuenti Irap un credito di imposta automatico per l’imposta sul reddito: principio diverso dalla deduzione dall’imponibile consentita in misura parziale dal decreto Salva Italia di Monti e che va – comunque – resa totale.
Francesco Forte
Professore emerito Università La Sapienza,
editorialista del Foglio
Meglio meno Irap: imprese più competitive
e una chance per gli ultimi (i disoccupati)
Tagliare l’Irap o l’Irpef? Per una volta dopo tanto tempo, il dibattito politico affronta un tema concreto. C’è da rallegrarsene, sperando che dalle parole si passi ai fatti (e non è mai scontato). Alcune considerazioni preliminari vanno fatte. La prima: l’Italia ha bisogno di una riduzione significativa della pressione fiscale, l’emergenza tasse non si esaurirà certo con un taglio di 10 miliardi. Seconda considerazione: quando si discute degli effetti di un intervento sull’Irpef o sull’Irap, si parla prevalentemente delle possibili conseguenze sul breve periodo, perché nel medio-lungo le differenze sono più sfumate. Infine, va sottolineato che non ci sono automatismi: né una riduzione sull’Irpef si trasforma tutta in un aumento dei consumi (la gente risparmia e ripaga debiti), né un taglio dell’Irap induce magicamente le imprese a maggiori investimenti o assunzioni, soprattutto quando gli sgravi sono limitati. Detto ciò, la scelta di intervenire sull’una o sull’altra imposta non è ininfluente. Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, pare orientarsi sulla riduzione dell’Irpef sui redditi medio-bassi: il premier è in campagna elettorale e sa che milioni di lavoratori si accorgerebbero subito del piccolo gruzzoletto in più nella busta-paga mensile, tanto più che difficilmente i sindacati potrebbero alzare il ditino contro i tagli di spesa pubblica necessari a coprire lo sgravio. Ma lo sguardo lungo di chi governa per cambiare davvero l’Italia dovrebbe suggerire altro: il sistema produttivo ha un problema profondo di competitività, la tassazione sulle imprese italiane è spaventosa rispetto ai concorrenti internazionali, l’Irap è un’imposta perversa e distorsiva che finisce addirittura per incentivare la delocalizzazione degli stabilimenti e penalizza chi ha più assunti. C’è poi una ragione “di sinistra”: il taglio dell’Irpef conviene ai “penultimi”, cioè a chi lavora e gode di redditi bassi, ma ridurre l’Irap è una scelta per gli “ultimi”, i disoccupati che potrebbero beneficiare della creazione di nuova occupazione.
Piercamillo Falasca
Direttore editoriale di Strade
Meno Irpef in principio è giusto, ma
come far quadrare con le politiche dell’euro?
L’esecutivo ha preannunciato di voler concentrare tutte le risorse oggi a disposizione su una sola delle due strade percorribili: meno Irpef o meno Irap. In questo modo, però, le due opzioni non sono soltanto differenti, piuttosto sono alternative negli obiettivi di politica economica che prefigurano. Se il governo punta tutto sulla riduzione dell’Irpef, stimolerà i consumi e quindi la domanda interna. Se invece opterà per l’Irap, riducendo gli oneri a carico delle imprese e lasciando invariate le retribuzioni dei lavoratori, i consumi interni rimarranno invariati: l’obiettivo, attraverso una maggiore competitività delle aziende, sarà quello di far crescere la domanda estera. Dai dati sul pil dell’ultimo trimestre del 2013, emerge che i consumi italiani sono ancora deboli, mentre la domanda estera netta è andata benino. Partendo da qui si potrebbe argomentare che sono i consumi delle famiglie a necessitare di un rilancio: meglio quindi ridurre l’Irpef sulle persone con reddito più basso, attraverso l’ampliamento delle detrazioni, perché sono queste le persone con maggiore propensione al consumo. Così, su una manovra di 10 miliardi, almeno 6 miliardi dovrebbero trasformarsi in maggiore spesa. L’impatto sul pil, secondo le mie stime, sarebbe di 0,4 punti percentuali in più sull’anno. La questione però è più complessa di quel che potrebbe sembrare: se aumentano i consumi, infatti, l’export netto – cioè la differenza tra esportazioni e importazioni – diminuisce. Così si rende dunque più difficile il processo di aggiustamento dell’Eurozona, ancora completamente squilibrato sulle spalle dei paesi periferici e che spinge tutti gli altri paesi mediterranei a migliorare invece la loro bilancia commerciale, perseguendo aumenti di competitività di costo. In questo contesto, le imprese, per rimanere competitive, potrebbero addirittura optare progressivamente per un atteggiamento “alla spagnola”: ricercherebbero aumenti di produttività facendo crescere l’occupazione meno di quanto cresca il loro prodotto, oppure licenziando. E quindi anche gli effetti di stimolo alla domanda interna originati dall’alleggerimento dell’Irpef potrebbero essere vanificati.
Come si esce da questo paradosso? Farlo è possibile, ma le risorse a disposizioni per lo sgravio fiscale probabilmente dovrebbero aumentare. Con 30 miliardi di euro a disposizione già quest’anno, si potrebbe concentrare l’intervento sempre sull’Irpef dei redditi inferiori, e destinare poi una parte alle imprese, così da frenare la tentazione di guadagnare competitività all’estero nel modo più doloroso per i cittadini italiani.
Sergio De Nardis
Capoeconomista di Nomisma
Non conviene decidere oggi, prima testiamo gli effetti con un metodo sperimentale
Venerdì scorso, sulla Stampa, Luca Ricolfi ha spiegato in modo convincente perché una drastica riduzione del cuneo fiscale e contributivo sulle buste paga dei nuovi rapporti di lavoro che aumentino l’organico aziendale – sostanzialmente una riedizione rafforzata del nostro d.d.l. n. 555/2013 – avrebbe molto probabilmente effetti positivi per il bilancio pubblico: essa infatti genererebbe un aumento dell’occupazione, quindi della creazione di ricchezza e del gettito fiscale, tale da compensare largamente la riduzione delle aliquote. Se, tuttavia, oggi il governo non imbocca questa strada è perché la Ragioneria generale dello stato bolla il ragionamento di Ricolfi come “copertura finanziaria presuntiva” della riduzione delle aliquote: “Noi vogliamo coperture certe – dicono al ministero dell’Economia – non frutto di congetture degli studiosi”. E così ci riduciamo alle misure omeopatiche.
Vero è che alla domanda se e quanto una riduzione del cuneo sulle buste paga produca aumento dell’occupazione si può rispondere con certezza soltanto se si dispone di un dato: l’elasticità della domanda di lavoro, cioè il grado della sua sensibilità a una riduzione del costo del lavoro. Ora, questo dato potrebbe essere acquisito con un costo minimo mediante un esperimento su di un campione rappresentativo: si tratterebbe di applicare la misura drastica su di una zona limitata opportunamente scelta, utilizzando una zona statisticamente simile come “gruppo di controllo”, in modo da misurare con precisione come e quanto le imprese e i lavoratori reagiscono a una forte riduzione dell’imposizione sulle imprese stesse, e/o sui redditi da lavoro. Un po’ come si fa per testare gli effetti dei farmaci. Questo sarebbe anche un modo per superare dibattiti ideologici senza capo ne coda del tipo “si rilancia meglio l’economia detassando le imprese o i redditi di lavoro? Riducendo l’Irap o l’Irpef?”. E’ vero che sperimentare richiede tempo; ma perdiamo più tempo discutendo all’infinito. Così condannandoci alle misure omeopatiche, cioè a star fermi; mentre una sperimentazione seria potrebbe rendere finanziariamente sostenibili misure molto più incisive, come quella proposta da Ricolfi. Non è eccessivo affermare che l’Italia oggi è bloccata anche per la sua incapacità di applicare il metodo sperimentale.
Pietro Ichino
Senatore di Scelta civica
da www.pietroichino.it


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