La guerra è femmina

Diana Zuncheddu

Quando ha diffuso su Twitter la foto delle quattro ministre europee della Difesa, Carl Bildt, capo degli Esteri per la Svezia, ha aggiunto un titolo: “True power girls”. Gli sono cadute addosso diverse contestazioni: tono troppo condiscendente, era l’accusa. In altre parole: sfotteva? Celava, ma nemmeno troppo, una maschilissima ironia?

    Quando ha diffuso su Twitter la foto delle quattro ministre europee della Difesa, Carl Bildt, capo degli Esteri per la Svezia, ha aggiunto un titolo: “True power girls”. Gli sono cadute addosso diverse contestazioni: tono troppo condiscendente, era l’accusa. In altre parole: sfotteva? Celava, ma nemmeno troppo, una maschilissima ironia?

    Non si sa e non importa, il gratta gratta sul soffitto del potere sta portando risultati, le ministre della Difesa in Europa sono diventate cinque – ora ne abbiamo una anche noi – e siamo contenti così. 

    A leggere la post femminista Camille Paglia in un’intervista al Wall Street Journal di qualche tempo fa si deduce che gli uomini non abbiano più alcun interesse nell’arte della guerra. Sarà per questo che ora se ne occupano sempre di più le donne? “Oggi, nell’intera classe dirigente, in finanza, politica, eccetera, non c’è nessuno che abbia mai fatto il servizio militare – raramente qualcuno, ma ce ne sono pochi. Non c’è più alcun prestigio legato a questo. E’ la ricetta per un disastro. Sono persone che non pensano in modo militare, e si diffonde l’illusione che la gente sia fondamentalmente carina, gentile, e se saremo gentili e benevolenti con tutti, saranno altrettanto gentili e benevolenti con noi”. Camille Paglia dice che è un disastro. E sarebbe lo stesso se ciò che gli uomini snobbano passasse ora in mani femminili?

    Come sia sia, è vero che il ministero della Difesa non è più quello della Guerra, quello che abbiamo avuto dal Regno di Sardegna al 1947. Gli eserciti sono volontari, i numeri più esigui e sempre più sforbiciati, di finanziaria in finanziaria. Altro che guerre: si fanno missioni di peacekeeping, o come le chiamano oggi, interventi di ricostruzione post bellica, aiuti alla popolazione civile, formazione di nuovi eserciti in nuovi paesi, o vecchi paesi con nuovi equilibri. Da quando l’America non è più quella di Bush, anche i microinterventi in appoggio a operazioni più ampie sono meno frequenti. Però il ministero della Difesa è pur sempre quello che stabilisce quali e quanti investimenti andranno in tecnologia militare, in programmi internazionali (Eurofighter europei? F-35 americani?), con quanti soldi e su quali mezzi (aerei? Navi? Nucleare?). Non buttiamoci giù, dunque, la Difesa è ancora un mondo dove girano interessi, soldi, potere. E’ un bene che le donne possano essere considerate degne di premere un grilletto, se mai servirà (cosa che qualcuno aveva messo in discussione, all’epoca in cui si parlava di Sarah Palin candidabile alla presidenza degli Stati Uniti). Può una donna avere la parola ultima sulla bomba atomica? Su Hillary Clinton di questi rilievi non si fanno, e ci sarà un perché. E poi noi l’atomica non l’abbiamo, il problema si liquida in fretta. La vedreste poi Roberta Pinotti che decide se sia l’ora di sganciare una Bomba?

    La “più twittara” del governo Renzi, come l’ha incoronata il Sole 24 Ore, anno di nascita 1961, ha già dovuto fare i conti con il mal di pancia da crisi di coscienza quando ha iniziato a sedersi in commissione Difesa, prima alla Camera, poi in Senato (e comunque twitta molto meno di quando non era ministro. Allora è vera l’equazione più twitti = meno lavori?). Era una militante di sinistra, ex scout, cattolica, due figlie cercate per tanto tempo – Elena e Marta –, attivista convinta da Genoa social forum: spingere per investimenti in armamenti le provocava il rigurgito del “meglio investire in asili nido”. Aveva raccontato all’Ansa che la svolta arrivò dopo l’incontro con l’allora ministro della Difesa cileno, Michelle Bachelet. “Le chiesi se non si sentisse in difficoltà a svolgere quel ruolo da donna di sinistra e lei mi disse che la Difesa è un cardine dello stato e dunque non c’è alcuna contraddizione. Ciò mi fece riflettere: ci sono tante aree di crisi nel mondo, è necessario che le armi e i militari esistano, non si può mettere la testa sotto la sabbia”.

    Nella sua storia politica, prima locale, poi in Parlamento, si è conquistata fama di: una che corre un sacco, studia, è precisa, disponibile, “conosce i dossier” (ma quali esattamente nessuno lo specifica mai). Si ricordano suoi interventi per bandire le bombe a grappolo, per proporre un libro bianco della Difesa, sul modello di quello francese (“Occorre ridefinire il sistema di difesa e di sicurezza nazionale, evitando nel frattempo di continuare a utilizzare i militari in compiti impropri e avvilenti”); sulla necessità di non uscire dal programma degli aerei F-35, anche se razionalizzato; sulla situazione di Fincantieri e di Ansaldo, controllata di Finmeccanica, anche per le evidenti ricadute occupazionali in Liguria, sua regione di provenienza; per proporre l’istituzione della giornata nazionale dell’Inno d’Italia. Gelose, parlamentari di destra?

    La foto dell’allora ministro della Difesa spagnolo, Carme Chacón Piqueras, in visita alle sue truppe in Afghanistan al settimo mese di gravidanza, impressionò il mondo. Era la primavera del 2008, Zapatero aveva voluto il suo primo ministro donna della guerra. A tanti venne voglia di proteggere quel pancione, cioè quel bambino, dai possibili orrori di una missione militare, anche se di pace.

    Tina Managhan, una studiosa di Relazioni internazionali, nel suo libro “Gender, Agency and war. The maternalized body in Us foreign policy”, ha analizzato il ruolo del corpo femminile, e specificamente materno, nelle negoziazioni continue tra “la maternità americana e la ragion di stato”. Il discorso potrebbe valere per qualsiasi paese, ma in quello che per anni è (stato?) lo sceriffo del mondo, un po’ di più. Managhan studia tre momenti nella storia della politica estera americana: il movimento antinucleare, la Guerra del Golfo, l’invasione dell’Iraq. Le donne, le madri, hanno avuto in quelle occasioni ruoli diversi e molto pubblici. Nel primo caso di avversione, nel secondo di appoggio alla campagna militare, nel terzo di diffusa ostilità. Cindy Sheehan divenne un caso da studiare. Dopo la morte del figlio appena arrivato in Iraq, smise di pagare le tasse. “Ho dato mio figlio a questo paese in una guerra immorale e illegale. Non lo avrò mai indietro. Quindi, se possono restituirmi mio figlio, allora pagherò le tasse. Ma questo non succederà”. Non si sta insinuando che un padre perda un figlio in guerra più volentieri, ma la reazione di una madre, e di una madre ministro della Difesa, può scatenare simbologie inedite.

    Nonostante le sette gravidanze, o forse proprio grazie a quelle, il ministro della Difesa tedesco sembra sapere esattamente cosa vuole, e come realizzarlo. Primo, Ursula von der Leyen può contare su un sostantivo di genere femminile, Ministerin, che noi non abbiamo. Secondo, è la più vecchia delle cinque europee, anno di nascita 1958, e leggendo il suo curriculum politico sembrerebbe aver già avuto quasi tutto: è stata ministro del Lavoro e delle politiche sociali e anche ministro degli Affari familiari, dei cittadini anziani, delle donne e dei giovani (e sì, i tedeschi sanno essere anche molto precisi).

    Ha fama di donna volitiva, che passa dalla parole ai fatti in poco tempo, e infatti i tedeschi dopo tutte le missioni estere che ha già collezionato, soprattutto in Africa, si aspettano qualcosa. Cosa? La Ministerin guarda in alto, punta dritta, secondo dichiarazioni, agli Stati Uniti d’Europa, con la creazione di un unico esercito europeo. Parole, parole, parole? Diamole tempo. E’ stata lei a chiedere alla collega di partito Angela Merkel di potersi misurare con la responsabilità della Difesa, prima nella storia del suo paese. Se facesse bene, c’è chi la vedrebbe come possibile sfidante della cancelliera. Potrebbe magari cambiare la mise delle foto ufficiali, noiose camicie più o meno colorate con colletti anni Ottanta, giacca maschile sopra e discutibile messa in piega. Quel sorriso aperto ma fattivo, invece, è tutto quello che si può chiedere a un ministro della Difesa. Pazienza per il guardaroba, non è una priorità per i tedeschi: Merkel è al suo posto da quasi dieci anni.

    Oltre il mare, la Germania guarda le coste svedesi, dove siede l’altro ministro donna, un’amazzone dei ghiacci in carica dall’anno scorso. Karin Enström è stata nominata nel governo di centrodestra per il Partito moderato. Nemmeno cinquantenne, ha un fratello militare, ora ambasciatore in Lettonia; ha un marito militare; è lei stessa un militare. Le Forze armate svedesi sono state impegnate, in ambito Nato, prima in Kosovo e poi in Afghanistan. Nel 2011 durante l’intervento in Libia, a difesa della popolazione civile. Sono in corso incontri e riunioni bilaterali con i vertici del Patto atlantico per immaginare un coinvolgimento svedese futuro in Afghanistan, in vista del ritiro dei contingenti stranieri dal paese, dopo la fine di quest’anno. La signora Enström, di aspetto piacevole, fossetta nel sorriso, camminata più vicina a una cavalcata vichinga, è e resta un ministro nordeuropeo, che non può prescindere dai rapporti con i vicini affacciati sul Baltico e sul Mare del nord, e con uno sguardo a quanto accade nell’Europa orientale. Eppure non sottovaluta l’importanza di una politica europea comune. Un comune sentire con le più giovani della squadra, Jeanine Hennis-Plasschaert, ministro della Difesa olandese, nata nel 1973, e la sua omologa norvegese, quasi coetanea, Ine Eriksen Soreide.

    A discorsi, le cinque ministre sono discrete, all’altezza dei colleghi maschi. Nei fatti? Sapranno cambiare, anzi, inventare, una politica di difesa comune? Un esercito europeo? Una voce unica e autorevole a nome della stanca e litigiosa europa? Se sì, ne sarebbe valsa la pena e non avremmo avuto cinque ministre invano.

    “E’ ora di mettere in discussione il concetto di sovranità”, Jeanine Hennis-Plasschaert, ministro olandese, una bella fanciulla formosa dagli occhi chiari, sposata, un figliastro. “L’Europa deve dimostrare chiaramente che ha la volontà di investire nella sua stessa sicurezza. Questo richiederà capacità di leadership negli esponenti politici europei”, dice Ine Eriksen Soreide, ministro norvegese, 37 anni, una mora dal profondo nord, nel Partito conservatore fin dai tempi dell’università, facoltà di Legge. “L’Europa sta correndo il rischio di diventare irrilevante. Sta a noi girare l’angolo. Sta a noi, all’Europa, assumersi maggiori responsabilità per la sua stessa sicurezza”, Olanda. “Non è sostenibile che l’America sostenga il 70 per cento delle spese per la difesa nella Nato. Non possiamo aspettarci che gli Stati Uniti investano nella sicurezza europea se non abbiamo noi stessi la volontà di sostenere gli investimenti necessari”, Norvegia.

    Perché sono giovani, perché hanno una visione diluita della ragion di stato, perché la lezione di Altiero Spinelli la conoscono a memoria, perché provengono da paesi più piccoli, e quindi meno impaludati a guardarsi di continuo l’ombelico: i motivi saranno diversi, ma i propositi, finora quelli, non sono male. Ci si aspetta foto, twitt, qualche pettegolezzo, sennò perché donne?, ma anche un paio di marcette al passo verso qualche obiettivo comune. C’è un grasso grosso vaste programme da pensare, là fuori. Riusciranno a far cooperare industrie concorrenti della Difesa? A sviluppare i distretti aerospaziali, che oltre a litigarsi i finanziamenti di Horizon 2020 sboccino in uno spazio comune per la ricerca che conti nel mondo?

    Qualche premessa di metodo c’è. Jeanine Hennis-Plasschaert mette in discussione il concetto di sovranità, “il più grande ostacolo politico a una cooperazione militare più stretta”. Basta pensare la cooperazione come una limitazione alla sovranità. O perdiamo efficienza nelle politiche di Difesa. La domanda allora diventa: “La perdita di sovranità è da temere o il concetto va definito in un modo meno tradizionale?”. Ine Eriksen Soreide sembra aver studiato nella stessa università, aver frequentato gli stessi think tank della collega olandese. Continua, come tutti, a vedere negli Stati Uniti l’unico alleato da non perdere. “All’Europa spetta un investimento serio e forte nella sua stessa sicurezza, altrimenti non può aspettarsi che Washington continui a investire al posto suo”. Come fugare la paura condivisa che l’America abbandoni l’Europa per ribilanciarsi verso l’Asia e il Pacifico? In un solo modo: investendo in sicurezza, arrivando anche a promuovere esercitazioni militari Nato in nord America. Così, dice il ministro di Norvegia, si dimostra che l’Europa non è in grado soltanto di “importare sicurezza, ma anche di esportarne”. Nei giorni in cui la Crimea brucia, lo sguardo è rivolto all’unica vera forza militare rimasta, quella americana, se c’è ancora. Sembra che per l’Europa l’ultima chiamata sia arrivata. Sarebbe imperdonabile, tra qualche anno, se in cinque ministre, come in passato i ministri, non riuscissero poi a combinare un granché.