Com'era studioso Putin prima di perdersi “nel suo mondo” ( © Merkel)

Anna Zafesova

Quando è morto Konstantin Chernenko, nel 1985, gli agenti del Kgb a Dresda rubarono al loro capo una cassa di spumante della Crimea per festeggiare l’imminente fine della vecchia Urss comunista. Vladimir Putin, poco più che trentenne, brindava con loro. Nell’ambiente chiuso di una delle “residenze” della rete di spionaggio all’estero, “il piccolo” come veniva chiamato per distinguerlo da un collega omonimo, era il più scettico sul regime. Ammirava l’accademico Sakharov ed era disgustato dall’antisemitismo del sistema, scandalizzando i colleghi con affermazioni del tipo “gli ebrei sono persone assolutamente normali”.

    Quando è morto Konstantin Chernenko, nel 1985, gli agenti del Kgb a Dresda rubarono al loro capo una cassa di spumante della Crimea per festeggiare l’imminente fine della vecchia Urss comunista. Vladimir Putin, poco più che trentenne, brindava con loro. Nell’ambiente chiuso di una delle “residenze” della rete di spionaggio all’estero, “il piccolo” come veniva chiamato per distinguerlo da un collega omonimo, era il più scettico sul regime. Ammirava l’accademico Sakharov ed era disgustato dall’antisemitismo del sistema, scandalizzando i colleghi con affermazioni del tipo “gli ebrei sono persone assolutamente normali”. Forte della sua formazione giuridica, teorizzava davanti ai colleghi attoniti che l’Urss faceva più paura degli Stati Uniti perché non aveva una procedura democratica. Per lanciare una guerra atomica il presidente americano doveva spiegarsi con il Congresso, e anche con l’opinione pubblica, mentre un leader del Pcus in preda all’Alzheimer poteva schiacciare il bottone rosso senza che nessuno osasse contraddirlo.

    Il “piccolo” non sapeva che dopo 15 anni avrebbe governato il Cremlino appena abbandonato da Chernenko, dopo 20 avrebbe incontrato un americano di nome Bush, teorico della stessa idea, che un paese libero è meno pericoloso per se stesso e per gli altri. E dopo 30 avrebbe messo in gioco il suo potere, il Nobel per la Pace e le copertine di Time per annettere la penisola famosa per lo spumante dolce che stava bevendo. Il suo collega dell’epoca Vladimir Ussolzev racconta in un libro del 2003 che Putin lo aveva colpito proprio per il disincanto, il pragmatismo, una mente precisa, anaffettiva, quasi matematica nel suo scetticismo gelido. Questa aveva spinto il neopresidente Putin a fissare gli appuntamenti per il quarto di ogni ora, un vezzo strano che presto aveva trovato una spiegazione: non si fidava delle rassegne stampa e voleva vedere con i suoi occhi i telegiornali.

    Oggi arriva agli appuntamenti con quattro ore di ritardo perché si sente padrone del tempo suo e altrui, e i tg non li guarda più perché se li fa da solo. I suoi dissidenti finiscono in galera appena scendono in piazza e il suo Senato vota la guerra contro l’Ucraina all’unanimità. Come ha fatto quest’uomo che non credeva in nulla e non si fidava di nessuno a finire nella trappola della propria propaganda e ad abitare, secondo Angela Merkel, “in un altro mondo”? Ossessionato dall’efficienza, ha però dimenticato di aver imparato – cosa tutt’altro che scontata per un sovietico – la regola fondamentale del feedback, senza il quale il funzionamento di ogni sistema (un governo, un’azienda, un servizio segreto) si inceppa perché non pensa più a essere operativo, ma solo a soddisfare i superiori.

    La forza di Putin, quando è arrivato al potere praticamente dal nulla, era proprio questa. Primo leader del Cremlino dopo Lenin a essere nato non in un villaggio contadino ma in una grande città, primo (insieme a Gorbaciov) ad aver fatto l’università, parlare le lingue ed essere vissuto all’estero, era anche il primo a non venire dall’alta nomenclatura che abitava in una propria bolla di comunismo. Era parte di quella borghesia sovietica di cui aveva appena cominciato a scalare le gerarchie, aveva messo da parte i soldi per la lavatrice, fatto le code, sognato l’automobile, subìto l’ottusità della propaganda. Secondo Ussolzev, non credeva in nulla, “un conformista fatto e finito” che in pubblico si mostrava fervente comunista e in privato consigliava all’amico di non essere troppo critico perché “tieni famiglia”. Tipico prodotto del cinismo dell’era Breznev, quando la fede nel comunismo si era ormai estinta e il “doppio pensiero” orwelliano era universalmente praticato in attesa della fine del regime, il Putin presidente aveva esordito con la guerra alla Cecenia e alle tv indipendenti, ma anche con atti pragmatici come liberalizzazioni economiche e fiscali (convocava economisti anche dell’opposizione e prendeva appunti, il suo personale corso accelerato di statista autodidatta) e la chiusura delle basi ex sovietiche a Cuba e nel Vietnam. I militari non lo sopportavano.

    Per il filosofo nazionalista Dmitri Olshansky il Putin di oggi è pragmatico quanto quello degli inizi, ha semplicemente capito che l’occidente “inganna e tradisce sempre” e che la massima di Alessandro III sulla flotta e la marina “unici alleati della Russia” è ancora valida. Per il politologo Stanislav Belkovsky, che indaga Putin più con i metodi della psicoanalisi che delle scienze sociali, è vittima dei suoi complessi di ragazzino delle periferie di Leningrado, dove tra gang di quartiere cedere era manifestare debolezza, e la paura veniva scambiata per rispetto. Il chip del compromesso in effetti non pare essere stato montato nella testa di Putin, come in quella di un altro figlio delle periferie sottoproletarie sovietiche, Viktor Yanukovich. Ogni volta che si tratta di scegliere tra il dialogo e la prevaricazione, il timido e controllato Putin opta per la seconda. Lo fece con la Cecenia. Lo fece al bivio cruciale del 2003 quando doveva accettare di co-gestire il potere con opposizioni e oligarchi, e scelse invece di incarcerare Khodorkovsky e bandire per la prima volta i liberali dalla Duma. Lo fece con i dissidenti nel 2012. Fino alle Olimpiadi, il suo trionfo supremo, consacrato non solo dalla propaganda addomesticata ma dai media internazionali. Colpire la sua autostima proprio quel giorno è stata forse la peggiore delle idee degli ucraini insorti.

    Oggi l’uomo che aveva brindato con lo spumante di Crimea alla morte del comunismo non batte ciglio quando nega di aver spedito le sue truppe laggiù. Ma l’unico momento in cui si infervora veramente è quando si scaglia contro i rischi del “caos” prodotto da un popolo che ha rovesciato il suo autocrate, nonostante per lui abbia solo disprezzo e per poco non gli dà del ladro. Non avendo mai creduto in nulla, non riesce a credere che qualcuno sia così stupido da credere in qualcosa, meno che mai nella libertà. L’unica cosa in cui crede, perché funziona e perché in qualcosa deve pur credere, è il potere.