Polvere di narcos

Redazione

In Messico ogni “sexenio”, ogni periodo di sei anni in cui dura un presidente, ha il suo “capo” di riferimento – così dice la leggenda, ché quando si parla di Messico e di narcotraffico spesso i confini della cronaca sono labili, e i primi complottisti sono i media più accreditati. Capo è un termine quasi tecnico, indica un leader del narcotraffico, uno di quelli potenti, che parlano con i politici. Ogni presidenza è legata in qualche modo – che è connivenza per l’opposizione, scontro per il potere per gli altri osservatori – a un capo, dunque a un cartello, dunque a un sistema di potere parastatale che si annida dentro lo stato. Queste relazioni sono scivolose, nascoste, sempre negate.

di Eugenio Cau

    In Messico ogni “sexenio”, ogni periodo di sei anni in cui dura un presidente, ha il suo “capo” di riferimento – così dice la leggenda, ché quando si parla di Messico e di narcotraffico spesso i confini della cronaca sono labili, e i primi complottisti sono i media più accreditati. Capo è un termine quasi tecnico, indica un leader del narcotraffico, uno di quelli potenti, che parlano con i politici. Ogni presidenza è legata in qualche modo – che è connivenza per l’opposizione, scontro per il potere per gli altri osservatori – a un capo, dunque a un cartello, dunque a un sistema di potere parastatale che si annida dentro lo stato. Queste relazioni sono scivolose, nascoste, sempre negate. Non riguardano il presidente o il suo staff ma il sistema di potere che si ramifica intorno a lui e arriva fino alle estremità remote del paese. Sindaci, poliziotti, funzionari, a volte ministri. Il potere del narcotraffico in Messico è così grande che lo stato ha imparato a conviverci, parlarci, a volte farci affari – e, quando è possibile, a scegliersi i propri interlocutori. Ma visto che in Messico lo stato cambia ogni sei anni (il presidente è un monarca repubblicano più di quello americano, ma la sua carica non è rinnovabile, ha troppo potere e troppo poco tempo per spenderlo) questi legami si spezzano periodicamente, e devono essere ricostituiti. Sono le transizioni i momenti più pericolosi per i narcotrafficanti, è durante le transizioni che il loro potere vacilla. E’ una costante della storia epica e terribile del narcotraffico: quando cade un grande capo, uno di quelli che segnano un’epoca, è quasi sempre una questione di spoil system.
    Nessuno si immaginava che la storia di Joaquín Guzmán Loera detto “El Chapo”, il piccoletto, capo di quella grandiosa federazione di poteri criminali conosciuta come cartello di Sinaloa, sarebbe finita così. Guzmán è il più grande di tutti, e non soltanto in Messico. Le classifiche di Forbes e la nomina a nemico pubblico numero uno della città di Chicago (Guzmán è stato il primo dopo Al Capone), sono tanto citate da diventare quasi un cliché. Di Guzmán si citano la leadership carismatica, il culto della personalità di cui è oggetto da anni (e che lui ha alimentato con cura), il suo piglio aziendalista: se non fosse stato il capo del più potente cartello della droga del mondo, sarebbe stato il ceo di una multinazionale. Guzmán era in fuga dal 2001, da quando era fuggito dal carcere di massima sicurezza di Puente Grande (da allora ribattezzato Puerta Grande) pagando 2,5 milioni di dollari (così si dice) per un viaggio di sola uscita dentro a un carrello della biancheria sporca, e da allora aveva scalato la gerarchia della criminalità messicana. Era braccato dalle forze speciali messicane e dall’antidroga americana, ma poteva contare su un esercito personale, sulle migliori tecnologie anti intercettazione (Alicia Caldwell di Associated Press racconta che anche gli investigatori americani sono rimasti a bocca aperta davanti all’armamentario tecnologico a sua disposizione) e sulla sterminata desolazione della Sierra Madre, dove tutti pensavano fosse nascosto, e dove sarebbe stato virtualmente impossibile scovarlo. Guzmán, in realtà, dalla Sierra Madre usciva spesso, andava a fare shopping a San Diego, California, trattava affari a Città del Messico, passava le vacanze sulle spiagge della costa del Pacifico. A garantirgli la sicurezza di potersi muovere liberamente non erano i suoi gadget tecnologici o la squadra dei suoi sicari, ma l’estensione della sua rete di corruzione, i legami che il parastato del narcotraffico aveva allacciato con le istituzioni dello stato. Guzmán passeggiava per il Sinaloa grazie agli stipendi (spesso più consistenti di quelli ufficiali, e per i quali il cartello spende quasi un miliardo e mezzo di dollari all’anno) che distribuiva alla polizia e all’esercito, atterrava a Città del Messico negli hangar che il cartello aveva affittato grazie a dei prestanome. Nel 2008 assoldò tutti i poliziotti della cittadina di Angostura, nel cuore del suo impero, per fare da servizio di sicurezza al suo matrimonio, il terzo, faraonico, con la reginetta di bellezza diciottenne Emma Coronel. Era con lei lo scorso sabato mattina a Mazatlán, quando la marina messicana si è presentata davanti alla sua porta.

    Non c’erano sicari armati, congegni da spia, sistemi di sicurezza militari o cecchini appostati sui tetti nell’appartamento 401 del residence Miramar a Mazatlán, cittadina sull’oceano Pacifico dove turisti americani di mezza età affollano i giganteschi resort costruiti sulla costa. Solo una guardia, Carlos Manuel Hoo Ramírez, a vegliare sul capo e su sua moglie. La marina messicana (è sempre la marina a fare le grandi operazioni contro il narcotraffico, anche quando queste avvengono a centinaia di chilometri dalla costa e sarebbero pertinenza dell’esercito: gli americani, che forniscono infrastrutture e intelligence, si fidano solo dei “marinos”) ha fatto irruzione nell’appartamento 401 alle 6 e 40 del mattino, sorprendendo Guzmán a letto con la moglie e i due figli, gemelli, nati due anni fa a Los Angeles. Guzmán si è consegnato ai marine messicani senza fare resistenza, “non è stato sparato nemmeno un colpo”, avrebbe detto poche ore dopo il procuratore generale della Repubblica Jesús Murillo Karam, durante la “presentazione” del ricercato ai giornalisti. Guzmán sapeva di essere inseguito dai marine, cinque giorni prima a Culiacán era sfuggito alla cattura attraverso un tunnel sotterraneo, poi la casa della sua seconda moglie era stata perquisita, poco tempo prima era stato arrestato uno dei suoi uomini di fiducia, uno di quelli che sapeva dove si trovavano tutte le sue case sicure. Forse Guzmán sapeva anche che le sue comunicazioni, nonostante le precauzioni, erano intercettate dalla Dea (l’antidroga americana, è a lei che va quasi tutto il merito dell’operazione, e che oltre all’intelligence forse ci ha messo anche degli uomini), ma nonostante questo non ha preso la via della Sierra, non si è rifugiato nelle terre che conosceva, dove sapeva di essere imprendibile – è stato calcolato che sarebbero servite alcune decine di migliaia di uomini per trovarlo nella Sierra Madre, e ancora sarebbe stato difficile. Ha preferito un appartamento vacanze a Mazatlán, in compagnia della moglie e dei figli – in camera sua è stato trovato solo un fucile, nella cucina c’era una scatoletta di fagioli sul fornello spento. Come se si fosse arreso all’idea dell’arresto, dicono alcuni. Come se fosse stato tutto concordato, dicono altri.

    “No mames, guëy!”. E’ il commento volgare che si sente in giro per il Sinaloa quando in questi giorni si parla di Guzmán. Amico, non dire stupidaggini. Il “Chapo” non si sarebbe mai lasciato prendere così, lui che aveva detto “meglio morto che di nuovo a Puente Grande”. Non è lui, è un sosia, il vero “Chapo” ora è nella Sierra che ride del governo, o se è lui ci dev’essere qualcosa sotto. L’ultima volta che la marina aveva tentato di andare a prendere un capo del narcotraffico in casa sua era stata la guerra. Era il 2009, e Arturo Beltrán Leyva si asserragliò nel suo appartamento con decine di sicari per un giorno intero, la marina lo crivellò di proiettili (e oltraggiò il suo cadavere) dopo una battaglia a colpi di granata, ci furono molte vittime. E Arturo Beltrán era un pesce piccolo in confronto al “Chapo”. Ci dev’essere una verità dietro a quella ufficiale, un patto segreto, un ricatto, uno scambio di prigionieri. Il complottismo è una malattia comune tra l’opinione pubblica e tra i media messicani – dove la più importante rivista di opposizione del paese, Proceso, ancora parla della “cattura” di Guzmán mettendo la parola tra virgolette. Tanto più quando al potere, dopo dodici anni di governo del Partito di azione nazionale (Pan), spazzato via dalla guerra voluta dal presidente Calderón, è tornato il Pri, il Partito delle rivoluzione istituzionale che fino al 2001 e per settant’anni aveva tenuto in Messico un potere semidittatoriale e i cui buoni rapporti con il narcotraffico erano quasi leggendari. Gli americani sono stati i primi a stupirsi. “Non pensavo che con il Pri al potere sarebbero riusciti ad arrestarlo”, ha detto il 24 febbraio Phil Jordan, ex direttore della Dea a El Paso, in un’intervista alla televisione Univisión. “Perché il ‘Chapo’ Guzmán ha donato molti soldi alla campagna elettorale di Peña Nieto… Deve essere successo qualcosa di brutto tra il ‘Chapo’ e il Pri”. Tanto la Dea quanto il governo messicano hanno immediatamente smentito Jordan, ma i giornali di opposizione hanno sparato l’intervista in prima pagina.

    Durante la campagna elettorale del 2012, Enrique Peña Nieto di narcotraffico a malapena voleva sentir parlare. Soprattutto, non voleva sentir parlare dei “capos”, dell’assurda strategia del suo predecessore di contrastare il narcotraffico a suon di arresti eccellenti. Non è così che si sconfigge la criminalità organizzata, è sul lavoro nelle strade, sulle cause sociali, sulla corruzione che bisogna concentrarsi. Il piano fu applaudito da tutti. Dopo il “sexenio” di Felipe Calderón, con 60.000 morti e 25.000 desaparecidos (è più verosimile che il numero dei morti si avvicini in realtà ai 100.000), chiunque ripudiava la strategia muscolare del presidente del Pan. Quando Peña Nieto fu eletto, cercò di far dimenticare al mondo che il Messico era ancora in guerra. Lo fece con i fatti, promuovendo un accordo parlamentare tra i tre partiti principali e facendo approvare grandi riforme, alcune epocali come quella dell’energia. Lo fece anche con il marketing, centralizzando le comunicazioni del governo affinché parlassero di investimenti, non di morti squartati, e dirigendo con sapienza i media del paese sui temi a lui più cari. Ritirò l’esercito dalle strade, e il numero dei morti iniziò lentamente a calare, nonostante le esplosioni locali di violenza, come quella di questi mesi nello stato di Michoacán. Poi, a luglio dello scorso anno, la prima notizia inaspettata: Miguel Treviño Morales, capo del cartello degli “Zetas”, è stato arrestato. Il governo cerca di mantenere basso il profilo, Peña Nieto evita di ricamare sull’arresto come amava fare il suo predecessore. Ma la notizia è grande, i giornali di tutto il mondo parlano di “Z-40”, questo il suo soprannome. Sabato scorso arriva il turno di Joaquín Guzmán, e questa volta l’entusiasmo del governo è malcelato, difficile non provare soddisfazione per l’arresto dell’uomo che ha ossessionato il Messico e messo nel sacco i tuoi due predecessori per 12 anni, anche se è da un anno che vai dicendo in lungo e in largo che i pesci grossi non ti interessano. Peña Nieto, ha scritto Evelyn Krache Morris su Foreign Policy, “sembra non poter resistere al fascino del colpo di scena”, e questa settimana, a due giorni da Guzmán, è arrivato un altro arresto eccellente, quello di un leader importante del (moribondo) cartello del Golfo.

    Certo, c’è il fascino del colpo di scena. Guzmán era diventato l’uomo più ricercato del mondo dopo la morte di Osama bin Laden, mettere le mani su di lui vuol dire conquistare un patrimonio indispensabile di fiducia pubblica. Lo stupore di Phil Jordan della Dea (non pensavo che il Pri lo avrebbe arrestato), visto di converso significa fugare molti dubbi sulla connivenza del governo con la criminalità. Ma c’è anche una ragione che ha a che vedere con le trasformazioni di lungo periodo. Nella storia del narcotraffico messicano, tutti i grandi cambiamenti sono avvenuti durante le transizioni tra differenti sistemi di potere. Ogni èra dominata da un grande capo (per i feticisti, prima di Guzmán ci sono stati Miguel Angel Félix Gallardo e Amado Carrillo Fuentes) è finita quando è crollato il sistema di potere a cui essa faceva riferimento, e di cui era parassita. Ogni presidenza ha il suo capo di riferimento, si diceva, ma sarebbe più corretto dire che ogni capo ha la sua presidenza di riferimento. Per Joaquín Guzmán questa era costituita dai due “sexenios” dei presidenti del Pan: Vicente Fox, sotto cui Guzmán fuggì di prigione e diventò grande, e Felipe Calderón, il presidente di guerra che ha reso Guzmán il re della criminalità mondiale. Le transizioni sono pericolose, perché la rete di legami, amicizie, corruzione che un capo si costruisce tutte le volte vacilla, si modifica, in parte si sfalda. Quando la transizione è di ampia portata la rete dei legami tra lo stato e il parastato del narcotraffico si strappa completamente, ed è difficile ricostruirne un’altra da zero. Servono molti soldi e un’abilità che forse, dopo due decenni di potere, è andata perduta. In questo senso, la cattura di Guzmán è per Peña Nieto la prova più tangibile non tanto della sua fermezza contro il narcotraffico, quando della sua volontà di cambiare il Messico. Con lo spoil system: la burocrazia del Pri è pletorica, ed è tornata ai posti che aveva perso dodici anni fa – ma anche con riforme concrete. Peña Nieto ha tentato di riformare il sistema giudiziario, di semplificare i molti corpi delle forze dell’ordine, che in Messico esistono a livello municipale, statale e federale: più sono vicini al territorio e più sono corruttibili, per questo il presidente ha cercato di espandere il ruolo della polizia federale, e ha creato un nuovo corpo militare, la Gendarmería nacional, da inviare nelle zone più turbolente. Non tutte le riforme sono andate a buon fine, la Gendarmería per esempio è stata depotenziata nel corso dell’iter di approvazione della riforma, ma il rimescolamento di forze ha confuso i cartelli. Il potere in Messico ha iniziato a cambiare, e le vecchie tigri hanno fatto fatica ad adeguarsi.

    Il valore simbolico dell’arresto di Guzmán supera di gran lunga quello pratico. Anzitutto perché il cartello di Sinaloa è pieno di eccellenti rimpiazzi. Ci sono due grandi vecchi, gli unici due sopravvissuti a tutte le ère del narcotraffico messicano, che aspettano questo momento da cinquant’anni. Si tendeva a definirli luogotenenti di Guzmán, ma più che subordinati erano consiglieri e pari ruolo. Ismael Zambada García, detto “El Mayo” e Juan José Esparragoza Moreno, detto “El Azul” sono gli ultimi veterani del crimine messicano, sanno come funzionano gli affari, possono costruire reti di relazione, sono degli strateghi raffinati. Ma, appunto, sono gli ultimi. Il narcotraffico messicano sta rimanendo a corto di volti riconoscibili e, dicono gli analisti, questo potrebbe essere l’inizio di un processo di frammentazione dei cartelli. Ma ci sono anche i “narcojunior”, la terza generazione di giovani del narcotraffico, che finora sono apparsi sui media solo per le foto del lusso sfrenato che postano sui social (cuccioli di ghepardo come animali domestici, supercar, armi placcate d’oro, yacht) ma che ora potrebbero essere pronti ad assumere la responsabilità degli affari. Uno dei nomi accreditati è quello di Dámaso López Jr., detto “El mini lic”, figlio del braccio destro di Joaquín Guzmán (Dámaso López senior fu l’infiltrato dentro le istituzioni messicane che propiziò la fuga del capo dal carcere di Puente Grande nel 2001). Meno di trent’anni, figlioccio di Guzmán, attivo su Twitter (anche qui, foto di macchinoni e vestiti griffati), López sarebbe stato scelto di persona dal grande capo per raccoglierne l’eredità. A López è già stato dedicato un “narcocorrido”, una canzone popolare con intenti celebrativi, e questo è un buon segno per lui.

    L’altra ragione per cui i narcotrafficanti non sono spaventati dalla cattura di Guzmán è perché quello del “vuoto di potere” è un problema che i cartelli hanno risolto almeno da un decennio. Anche se continuano a stilare schemi piramidali delle gerarchie dei cartelli, gli analisti sanno bene che il narcotraffico oggi è composto da entità flessibili, in gran parte autonome, che rispondono al capo solo in ultimissima istanza ma che sono indipendenti le une dalle altre. Come ha mostrato il cartello degli Zetas, che in pochi anni ha perso tre capi supremi ma ha continuato a incrementare la sua forza militare, la struttura dei cartelli è abbastanza flessibile da resistere alla decapitazione. Il problema, semmai, è se dentro all’organizzazione nascono delle lotte per la leadership. E’ stata questa la piaga della “strategia dei pesci grossi” di Felipe Calderón: la morte o l’arresto di un capo provocava la nascita di due o più aspiranti rimpiazzi, armati fino ai denti e pronti alla guerra interna. E se il cartello si indebolisce, i suoi rivali ne approfittano per dichiarargli guerra. Il risultato sul territorio erano picchi di violenza che impiegavano mesi (e migliaia di vittime) a placarsi. E’ quello che si teme possa succedere con l’arresto di Joaquín Guzmán, ma forse potrebbe non essere questo il caso. Il cartello di Sinaloa è chiamato anche la Federazione, che forse è il nome che più gli si addice: un gruppo di imprenditori che ha sempre messo gli affari davanti ai dissidi personali. Tanto più quando il capo è ancora in grado di gestire la transizione – e da un carcere messicano potrebbe essere facile. In Messico nessun carcere è mai stato sufficientemente inviolabile da tagliare i legami che un capo ha con l’esterno. Ogni guardia ha un prezzo, e far arrivare all’interno messaggi, soldi, donne è relativamente facile per un uomo con liquidità sufficiente – figurarsi per il re del narcotraffico mondiale. C’è un solo modo per troncare definitivamente i legami di potere di un capo, l’estradizione negli Stati Uniti.

    L’Amministrazione Obama l’ha chiesta, ovviamente. E’ l’America che ha messo la taglia più grande sulla testa di Guzmán (5 milioni di dollari, il Messico la metà), il capo ha carichi pendenti con sette diverse corti distrettuali negli Stati Uniti, e la Dea non vedrebbe l’ora di fare di lui il testimone più promettente di tutta la sua storia. E’ un criminale già evaso da un carcere di massima sicurezza messicano, e gli americani temono che possa farlo di nuovo. Ma Peña Nieto, per ora, sembra restìo a cedere il suo prigioniero. Il procuratore generale messicano, Jesús Murillo Karam, ha detto alla sua controparte americana, Eric Holder, che per ora Guzmán resterà in Messico. La decisione spetterà a Peña Nieto, che con Obama ha rapporti molto migliori del suo predecessore Calderón, ma che vuole dimostrare che il Messico sta voltando pagina. Cedere il capo alla giustizia americana darebbe all’opinione pubblica un segnale di impotenza. Certo, c’è il rischio che Guzmán scappi di nuovo, e si trasformi in un eroe (questa settimana nel Sinaloa alcune migliaia di persone sono scese in piazza per chiederne la liberazione). C’è il rischio che continui a governare gli affari da dentro il carcere. C’è il rischio che, come successe a Puente Grande, trasformi la prigione in un suo feudo personale. Ma cedere Guzmán significherebbe dichiarare l’impossibilità di portare a termine una strategia anti criminalità. Se lo lasci andare, la guerra contro il narco è persa.

    di Eugenio Cau