Il Salva Roma non si salva

Debiti e veti dei sindaci, ecco il primo sgambetto in Aula al sindaco d'Italia

Marco Valerio Lo Prete

“Non annunci spot, ma visione alta e concretezza da sindaci”, aveva twittato domenica scorsa Matteo Renzi, sindaco in carica di Firenze, subito dopo aver giurato al Quirinale da nuovo presidente del Consiglio. “La cultura di noi sindaci”, ha ripetuto ieri due volte Graziano Delrio, già sindaco di Reggio Emilia e oggi sottosegretario alla presidenza del Consiglio, in un’intervista al Sole 24 Ore in cui rassicurava tutti sul fatto che le risorse per investimenti pubblici e sgravi fiscali si troveranno. Grazie alla “cultura di noi sindaci”. Ieri però, proprio dal mondo dei sindaci – con i loro bilanci spesso malconci e le società municipalizzate o in house ridotte sovente a macchine crea-consenso – è arrivata la prima grana parlamentare per il nuovo governo.

    “Non annunci spot, ma visione alta e concretezza da sindaci”, aveva twittato domenica scorsa Matteo Renzi, sindaco in carica di Firenze, subito dopo aver giurato al Quirinale da nuovo presidente del Consiglio. “La cultura di noi sindaci”, ha ripetuto ieri due volte Graziano Delrio, già sindaco di Reggio Emilia e oggi sottosegretario alla presidenza del Consiglio, in un’intervista al Sole 24 Ore in cui rassicurava tutti sul fatto che le risorse per investimenti pubblici e sgravi fiscali si troveranno. Grazie alla “cultura di noi sindaci”. Ieri però, proprio dal mondo dei sindaci – con i loro bilanci spesso malconci e le società municipalizzate o in house ridotte sovente a macchine crea-consenso – è arrivata la prima grana parlamentare per il nuovo governo. Il ministro per le Riforme, Maria Elena Boschi, è stato infatti costretto a ritirare il decreto salva Roma, di fronte all’impossibilità di convertirlo in legge entro la scadenza prevista – cioè domani – a causa dell’ostruzionismo annunciato da grillini e Lega nord.

    Nei giorni scorsi, in molti dal Pd avevano chiesto all’esecutivo di apporre la fiducia e garantire così i 485 milioni di euro che avrebbero permesso al comune di Roma di chiudere in ordine il bilancio del 2013 e quello pluriennale 2013-’15. Così non è stato, Renzi non ha offerto copertura a un decreto del predecessore Letta, e adesso il sindaco della capitale, Ignazio Marino, avrebbe minacciato le dimissioni. D’altronde il primo cittadino, dal momento del nuovo incarico a Renzi, era stato metodico: per due settimane, tra un’intonazione di “Bella ciao” e un impegno a rendere il “Tevere navigabile”, ogni 24 ore aveva rilasciato almeno una dichiarazione in cui chiedeva ascolto e fondi per la sua città, o si diceva certo dell’attenzione del sindaco di Firenze per gli ex colleghi. Non è bastato. Il decreto che Letta a dicembre si era visto respingere dal presidente della Repubblica in una prima versione giudicata troppo eterogenea, questa volta non ha fatto in tempo a essere approvato dal Parlamento.

    L’esecutivo proporrà con ogni probabilità un terzo decreto, ma l’iter fallimentare compiuto negli scorsi 60 giorni è una significativa anticipazione delle difficoltà che Renzi incontrerà, non solo da parte delle opposizioni. La senatrice di Scelta civica Linda Lanzillotta, già assessore al Bilancio a Roma con la giunta Rutelli, mette in guardia dall’“influenza che il Pd romano esercita sul Pd nazionale” e dal tentativo di “consentire l’elargizione di risorse nazionali ad alcuni comuni, quello romano nello specifico, senza che i comuni accettino vincoli nel loro utilizzo e mettano mano a un serio risanamento”.

    Lanzillotta per mesi ha condotto una battaglia parlamentare per associare il salvataggio di Roma alla “chiusura di alcune fonti strutturali del disavanzo”, dice al Foglio. Ha proposto quindi di applicare “costi standard” alla gestione dei servizi a rete gestiti dal comune (come l’Ama per i rifiuti) e di cedere al mercato alcune di queste attività (la raccolta e lo spazzamento delle strade per esempio); di mettere in liquidazione le società in house che non offrono servizi al pubblico (Risorse per Roma ha per esempio oltre 600 dipendenti e Zètema circa 1.000); di vendere quote di Acea (società di servizi idrici ed energetici partecipata al 51 per cento dal Comune). Apriti cielo: da molti parlamentari del Pd, oltre che dagli esponenti romani del partito, sono piovute critiche al “falco privatizzatore”, e ieri il deputato piddino Marco Miccoli ha detto che “la Lanzillotta non vuole che si ripresentino le norme per salvare dal default Roma, in questo è anche peggio di Grillo e dei leghisti”: “Se due consecutivi decreti del governo Letta per salvare Roma non sono stati approvati dal Parlamento forse c’era qualche problemino che non era la Lanzillotta”, replica lei. E aggiunge: “Per settimane i parlamentari del Pd hanno agitato bandiere populistiche, come il presunto pericolo che la parziale privatizzazione di Acea costituirebbe per l’‘acqua pubblica’, nel tentativo di catturare il consenso dei cittadini”.

    Al contribuente capitolino, invece, si potrebbe ricordare che l’attuale situazione di bilancio e le tentate toppe spiegano l’impennata di tasse locali: tra addizionale comunale Irpef, Imu, Tari e Tasi (le ultime tre saranno sostituite dalla Iuc) – secondo il Centro Europa Ricerche – un cittadino romano contribuisce ai servizi locali per 1.040 euro ogni anno; il prelievo medio, in Italia, è di 440 euro. Seicento euro di differenza. E a dicembre, sempre su iniziativa della senatrice Lanzillotta, è stata eliminata la possibilità per Roma di inasprire ancora l’aliquota Irpef, dalla soglia di 0,9 per cento (già record) a 1,2.

    “I dati di realtà da cui bisognerebbe partire sono due – dice al Foglio Riccardo Magi, consigliere capitolino radicale eletto nella Lista Marino – Roma è già fallita e ogni nuovo sindaco che arriva dichiara di averla salvata”. Magi ricostruisce l’origine dell’attuale situazione: “Nel 2008, non appena Gianni Alemanno fu eletto sindaco, il governo rappresentato da Gianni Letta e Gianfranco Fini, con l’avallo di fatto del centrosinistra, si decise di evitare il dissesto formale di Roma. Si preferì optare per una gestione commissariale del debito della capitale, vietando espressamente di dichiarare ‘default’, costituendo una specie di ‘bad company’ che doveva prendersi in carico le pendenze pre aprile 2008. Ma quello del doppio bilancio per la città è un unicum giuridico mondiale, che certo non migliora il livello di trasparenza sui conti”. Il debito fino al 2008 è stato stimato a 20 miliardi di euro: da allora lo stato versa ogni anno 300 milioni di euro ad hoc a Roma, mentre il Comune accantona altri 200 milioni. Tutto bene quindi? No. Intanto perché il decreto Salva Roma contiene appunto 115 milioni aggiuntivi da far affluire nella bad company per il periodo pre 2008, e anche il Servizio studi della Camera dei deputati sostiene che occorrerebbero “opportune informazioni circa le motivazioni dell’emersione di nuovi importi autorizzati”. Inoltre, fa notare Magi, “nessuno parla degli ulteriori 200 milioni annui che dal 2017 saranno necessari per appianare il debito pregresso, come chiesto dal commissario al debito Massimo Varrazzani nella sua relazione depositata in Parlamento nell’aprile scorso”.

    In questa situazione, il consigliere radicale denuncia un “isolamento totale” nel tentativo di porre in agenda del Campidoglio “il tema del dissesto finanziario e delle società controllate e partecipate che ne costituiscono la fonte principale”. Tutto ciò mentre il Consiglio comunale approva per esempio mozioni bipartisan (ex sindaco Alemanno incluso) per “salvaguardare la natura pubblica di Atac – si legge nel testo – respingendo qualsiasi iniziativa di privatizzazione totale o parziale” (in Atac, società del trasporto pubblico con 12 mila dipendenti, in media ci sono ogni giorno 1.400 assenze giustificate).
    “I renziani in Campidoglio prenderanno in considerazione liberalizzazioni e privatizzazioni, come ha fatto il neo premier, o questo è un tabù?”, si chiede Magi. Interrogativo simile lo pone la senatrice Lanzillotta: “Renzi riuscirà a resistere agli istinti predatori della spesa pubblica che albergano in parte della constituency dei sindaci?”. Si capirà col prossimo Salva Roma.