
Chi è davvero Matteo Renzi
«Quando, il 13 settembre del 2012, al palazzo della Gran Guardia di Verona, Matteo Renzi a un certo punto disse: “Ci candidiamo a guidare questo Paese per i prossimi cinque anni”, fummo in molti a pensare che fosse un megalomane. Non per il plurale maiestatis, ma per la sproporzione tra l’obiettivo dichiarato e la sua esperienza politica. Invece, aveva ragione lui» (Michele Brambilla) [1].
«Quando, il 13 settembre del 2012, al palazzo della Gran Guardia di Verona, Matteo Renzi a un certo punto disse: “Ci candidiamo a guidare questo Paese per i prossimi cinque anni”, fummo in molti a pensare che fosse un megalomane. Non per il plurale maiestatis, ma per la sproporzione tra l’obiettivo dichiarato e la sua esperienza politica. Invece, aveva ragione lui» (Michele Brambilla) [1].
Se tutto andrà come sembra, Renzi prenderà il comando del governo a 39 anni gli stessi che aveva Mussolini quando divenne a sua volta presidente del Consiglio [2].
Renzi, ovvero scout, Ruota della fortuna, camicia bianca, maniche arrotolate, giubbotto di Fonzie, rottamare ecc.
Alessandro Campi: «La parlantina sciolta che avvolge e disorienta l’interlocutore, l’autostima forse esagerata, l’ostinazione e il coraggio che ha sempre mostrato nei momenti decisivi, il piglio volitivo e decisionistico, l’argento vivo e la perenne agitazione, una sfrontatezza compensata da un viso da bravo ragazzo un filo evidente di narcisismo e un po’ della prosopopea che i fiorentini hanno da secoli. Eppure resta la domanda su chi sia per davvero Matteo Renzi» [2].
Matteo Renzi nasce l’11 gennaio 1975 a Firenze, secondo dei quattro figli di Laura Bovoli e Tiziano Renzi, ex consigliere comunale della Dc a Rignano sull’Arno [3].
La prima sconfitta della sua vita al Liceo classico Dante di Firenze, come rappresentante studentesco. La lista capeggiata da Leonardo Bieber, “Carpe Diem”, supera la sua, “Al buio meglio accendere una luce che maledire l’oscurità”. Dopo il diploma nel 1993 comincia a lavorare alla Chil, l’azienda di famiglia che si occupa di marketing e giornali [3].
Nel 1999, a ventiquattro anni, si laurea in Giurisprudenza con una tesi su «Giorgio La Pira sindaco di Firenze». Nello stesso anno diventa segretario provinciale del Partito Popolare. Campi: «Politicamente, lo si continua a definire un ex-democristiano, ma quando nel 1996 lui esordì con i Comitati Prodi la Dc storica già non esisteva da un pezzo» [2].
Nel 2001 è coordinatore della Margherita fiorentina, nel 2003 segretario provinciale, dal 2004 al 2009 presidente della Provincia di Firenze.
Dà del tu a tutti [4].
Brambilla: «Nel settembre del 2008 si mette in testa un’altra idea da matti, candidarsi alle primarie per il sindaco di Firenze. Tutti a dirgli Matteo sta’ bono, non fare il passo più lungo della tu’ gamba. Eppure vince, e vince contro uno favoritissimo, Lapo Pistelli, deputato e responsabile nazionale Esteri del partito. Ancora una volta aveva ragione lui, il giovane Matteo, che naturalmente poi l’anno dopo sbanca le elezioni comunali e diventa sindaco di Firenze [1].
Pistelli: «Matteo è talmente rapido da farti venire il mal di testa. Ed è sistematico il modo in cui colpisce. Sempre allo stesso modo. Come un serial killer. Prenderlo è difficile. E anche le rare volte che perde, c’è sempre una botta di culo a rimetterlo in pista. Ha la provvidenza dalla sua» [5].
«Da sindaco gli viene prima di tutto riconosciuto il gran colpo di aver smantellato la cupola di potere sedimentata in dieci anni di amministrazione di Leonardo Domenici» (Denise Pardo) [6].
Filippo Sensi: «Quando gli fanno quella domanda, la domanda, e cioè se, in fondo in fondo, sia davvero di sinistra, Matteo Renzi si mostra tutt’altro che contrariato, anzi. Come a dire di non temere l’esame del sangue che pure gli viene richiesto ogni due per tre per capire se, veramente, sia uno di noi, uno dei nostri. Glielo ha chiesto Enrico Mentana, quest’estate alla festa del Partito democratico di Genova, ultima domanda, quella quando hai le difese basse e puoi scivolare. Ma il sindaco di Firenze ne ha approfittato per un finale in crescendo, declinando la parola sinistra, così insidiosa e ispida, con una sfilza di impegni presi e, secondo lui, onorati a Firenze. Le biblioteche pubbliche, gli asili nido, la pedonalizzazione, il wifi libero. Cioè, una sana lista di cose “tradizionalmente” di sinistra, senza rinunciare, tuttavia, al suo frame più abituale, quello della lotta contro il conservatorismo, contro una certa compiaciuta supponenza, e poi, colpa grave, contro la voluttà minoritaria della sconfitta» [7].
Da sindaco guadagna quattromiladuecento euro al mese: «Che va bene, ma è meno di quel che prende il capo segreteria di un consigliere regionale» [8].
La parola “rottamazione” la pronuncia per la prima volta nell’agosto 2010, quando in un’intervista a Umberto Rosso di Repubblica attacca i dirigenti del Pd: «Se vogliamo sbarazzarci di nonno Silvio dobbiamo liberarci di un’intera generazione di dirigenti del mio partito. Non faccio distinzioni tra D’Alema, Veltroni, Bersani... Basta. È il momento della rottamazione. Senza incentivi. […] Ma li vedete? Berlusconi ha fallito e noi stiamo a giocare ancora con le formule, le alchimie delle alleanze: un cerchio, due cerchi, nuovo Ulivo, vecchio Ulivo... I nostri iscritti, i simpatizzanti, i tanti delusi che aspetterebbero solo una parola chiara per tornare a impegnarsi, assistono sgomenti ad un imbarazzante Truman show. Pensando: ma quando si sveglieranno dall’anestesia? Ma si rendono conto di aver perso contatto con la realtà?» [9].
Nel 2012 si candida alle primarie del centrosinistra. Perde al ballottaggio con Bersani: lui prende il 39,1%, Bersani il 60,9. «Fu quella domenica sera in cui perse il ballottaggio che Renzi preparò la sua rivincita. Arrivò alla Fortezza da Basso, a Firenze, guidando la sua station wagon – niente autisti e niente scorte – con la moglie Agnese a fianco e il rosario sullo specchietto. Pronunciò un formidabile discorso in cui disse soprattutto una cosa: ho perso. In un Paese dove alle elezioni non perde mai nessuno, Renzi si mostrò, forse più che mai, diverso. E lì cominciò la sua rimonta» [1].
Pippo Civati, Giorgio Gori, Giuliano Da Empoli: lunga è la lista di amici, consiglieri, professori, esperti d’immagine e colleghi che Renzi ha messo da parte o in alcuni casi promosso per allontanarli (come il suo ex vicesindaco Dario Nardella, oggi deputato). Salvatore Merlo: «E dunque Renzi si scrive i discorsi da solo, trova da solo le sue citazioni, le immagini, le figure retoriche, le invenzioni linguistiche, scopre da solo quali sono i libri da leggere (pochini quelli che ha letto), studia da solo i complessi problemi di un paese strano come l’Italia» [10].
Con Letta premier i rapporti sono sempre freddi. «Durante l’estate 2013 comincia la marcia: il sindaco decide – lo annuncerà più avanti – di candidarsi alla segreteria e inizia a costruire attorno a sé una rete di contatti extra politici. E così, 13 luglio, dà il là al suo tour da presidente del Consiglio ombra: arriva l’incontro con Merkel, arrivano i contatti con i poteri che contano. I mesi passano, Renzi si convince che per togliere di mezzo il governo sarebbe stato necessario votare con il Porcellum ma poi si arriva al 5 dicembre del 2013 e cambia tutto: la Consulta dichiara il Porcellum incostituzionale e per la prima volta Renzi confessa a un suo collaboratore a Palazzo Vecchio che il piano B è quello: se non si riesce a fare la legge elettorale si rottama Enrico e si va a Palazzo Chigi. Detto, fatto» (Claudio Cerasa) [11].
Note: [1] Michele Brambilla, La Stampa 14/2; [2] Alessandro Campi, Il Mattino 15/2; [3] Wanda Marra e Davide Vecchi, il Fatto Quotidiano 8/12/ 2013; [4]. Paola Maraone, Gioia 11/10/2012; [5] Tommaso Labate, Corriere della Sera 15/2; [6] Denise Pardo, l’Espresso 28/10/2011; [7] Filippo Sensi, Europa 27/9/2013; [8] Monica Ceci, Gioia 15/10/2010; [9] Umberto Rosso, la Repubblica 29/8/2010; [10] Salvatore Merlo, Linkiesta 18/8; [11] Claudio Cerasa, Il Foglio 14/2.


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