
“Lo stato è spompato, tocca ai privati”. Il G20 a trazione australiana
“Il nostro messaggio per l’Australia e per l’economia globale è uno e uno solo: i governi hanno finito i soldi e ora tocca al settore privato generare crescita e posti di lavoro”. Parola di Joe Hockey, ministro delle Finanze del governo liberale australiano che da qui a fine anno avrà la presidenza di turno del G20. E’ lo stesso Hockey che in queste ore, parlando all’agenzia Bloomberg, ha tacciato da par suo le lagne dei paesi emergenti e gli allarmi europei sul tapering della Fed statunitense, cioè sul progressivo restringimento dei cordoni della Banca centrale dopo anni di politiche sempre più espansive e non convenzionali.
“Il nostro messaggio per l’Australia e per l’economia globale è uno e uno solo: i governi hanno finito i soldi e ora tocca al settore privato generare crescita e posti di lavoro”. Parola di Joe Hockey, ministro delle Finanze del governo liberale australiano che da qui a fine anno avrà la presidenza di turno del G20. E’ lo stesso Hockey che in queste ore, parlando all’agenzia Bloomberg, ha tacciato da par suo le lagne dei paesi emergenti e gli allarmi europei sul tapering della Fed statunitense, cioè sul progressivo restringimento dei cordoni della Banca centrale dopo anni di politiche sempre più espansive e non convenzionali: “Il mondo non può più contare su dosi quotidiane di metadone. Prima o poi dovevamo essere svezzati, e il tapering è nient’altro che questo”.
Per quei paesi europei che stentano ad agganciare la ripresa, il messaggio del governo di Canberra – guidato dal premier Tony Abbott che a Davos ha citato il filosofo conservatore inglese Roger Scruton per difendere le ragioni del libero mercato – rischia di essere uno choc. “Piuttosto un’occasione”, dice al Foglio con toni più concilianti Daniel Sloper, rappresentante speciale del governo per il G20, ieri in visita a Roma per incontri ufficiali con Palazzo Chigi e Banca d’Italia, dopo aver fatto tappa negli ultimi giorni in Spagna, Olanda e Francia. Diplomatico di professione, con una formazione in studi orientali che ormai da anni è consuetudine tra le élite del continente australe, Sloper sta facendo la spola tra le cancellerie del G20 e quelle dei paesi in via di sviluppo per raccogliere idee e proposte, oltre che per illustrare meglio le priorità del suo governo, aprendo il dibattito ancor prima del summit di fine mese tra ministri delle Finanze e banchieri centrali, e prima di quello di novembre tra capi di governo: “E’ un modo per sfruttare al meglio il G20, innanzitutto un foro di discussione, la più franca possibile”.
Poi, però, c’è l’agenda australiana: “Posti di lavoro e crescita”, sono i primi due dossier che Sloper nomina. Non sarà facile ritrovare la sintonia che caratterizzò il G20 di Londra del 2009, quello che si tenne mentre le ferite di Lehman Brothers erano ancora aperte e che si concluse con un messaggio straordinariamente univoco, con l’impegno di paesi industrializzati ed emergenti a stimolare l’economia con politiche fiscali e monetarie coordinate. “La situazione effettivamente è più complessa – dice Sloper – Non siamo tutti nella stessa crisi, né abbiamo più una ripresa a due o tre velocità, come si è detto per qualche tempo. Oggi ciascun paese fa un po’ storia a sé. A voler essere ottimisti, però, vuol dire che stiamo tornando alla normalità”. Probabile, ma il direttore generale del Fondo monetario internazionale, Christine Lagarde, ha appena auspicato “un nuovo multilateralismo”, pena il deflagrare di “crisi più profonde e più frequenti”, come dimostrano gli scompensi causati nei paesi emergenti dall’annunciato rallentamento delle politiche monetarie espansive degli Stati Uniti: “E’ normale che ministri delle Finanze e banchieri centrali prendano le loro decisioni in base alle esigenze nazionali. Ma gli effetti di ‘spillover’ vanno considerati”. Come? “Il governo australiano sostiene la riforma delle organizzazioni internazionali, come il Fmi, per un assetto più rispettoso dei nuovi equilibri economici”, e questo nonostante “il legislatore statunitense abbia finora bloccato il processo di riforma del Fmi deciso nel 2010” per garantire maggiori poteri di voto soprattutto ai paesi emergenti. Inoltre il governo australiano, consapevole che non sarà soltanto sul comunicato finale che si giudicherà il successo del vertice tra i grandi del pianeta, intende concedere spazio e importanza al “Mutual assessment process” introdotto in questi anni a livello di G20: “Ciascun paese partecipante dovrà mostrare di avere una strategia complessiva di riforme nazionali, e di aver cominciato ad applicarla. Noi spingeremo affinché la direzione sia innanzitutto quella della deregulation e della facilitazione della vita delle imprese. I governi in questi anni hanno risposto alla crisi in maniera diversa: chi con una stretta delle politiche fiscali, spesso con inasprimenti della tassazione, chi con politiche generose di spesa. Oggi tutti però sono consapevoli che, in entrambe le direzioni, c’è un limite a quello che lo stato può fare per sostenere l’economia. Riforme strutturali nei singoli paesi sono la migliore garanzia di una ripresa bilanciata a livello internazionale”.
Nel comunicato finale – ancora tutto da scrivere – l’enfasi sulla crescita dovrebbe essere abbinata a riferimenti quanto più possibile circostanziati alle infrastrutture (da sostenere con finanziamenti privati) e al commercio internazionali da rilanciare. Di infrastrutture c’è “un deficit”, dice Sloper, citando i dati Ocse sui principali paesi industrializzati: “Da qui al 2030, l’Organizzazione internazionale stima che siano necessari oltre 50 trilioni di dollari di investimenti”, quasi tre volte il pil dell’Unione europea. Quanto agli scambi di merci, pur sottolineando che la sede deputata resta l’Organizzazione mondiale del commercio, Sloper osserva: “Occorre ragionare sul numero crescente di accordi di libero scambio regionali. Una buona notizia, certo, ma troppi accordi che si accavallano tra loro comportano pure maggiori costi per le imprese che si muovono nelle loro maglie e che si devono adattare a regimi normativi e regolamentari differenti”. Per questo, dopo l’accordo di Bali dello scorso dicembre che conteneva alcune concessioni ai paesi in via di sviluppo, “sarà bene rafforzare un approccio davvero multilaterale alla materia”.
A dimostrazione dell’importanza che attribuisce alle forze imprenditoriali, il governo australiano ha esortato il gruppo Business 20, cioè i rappresentanti delle aziende dei venti paesi protagonisti, a “presentare per la prima volta le proprie raccomandazioni specifiche ai governi a metà anno, prima del summit finale tra i leader, così che possano diventare argomento di discussione e non soltanto un appello di maniera”. Tanta fiducia ai privati, dunque, ma in cambio anche l’impegno degli stati affinché l’Ocse concluda per esempio entro il 2014 la stesura dei nuovi standard Beps, cioè su erosione della base imponibile e spostamento dei profitti aziendali nei paesi dove il fisco è più leggero: “L’Australia rimane favorevole a una competizione tra regimi fiscali, non insegue una impossibile uniformità. Ma le scelte dei privati devono essere informate e tracciabili”.
Al prossimo G20, insomma, il connotato mercatista sarà tutt’altro che dissimulato. Ne risentiranno forse quei temi solitamente considerati più spendibili in pubblico dalle cancellerie, come il global warming? “Di cambiamento climatico discuteremo, certo, ma per quegli aspetti che sono propri del G20, cioè di un forum che si deve concentrare sulla governance e sul coordinamento economici. E compatibilmente col fatto che oggi la priorità rimane quella di stimolare crescita e lavoro”.


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