Il corpo di Tony

Paola Peduzzi

Non se ne vogliono andare, gli anni Novanta. Ci stanno appiccicati addosso anche se sono vecchi, quasi antichi, e i ragazzini guardano ai fatti di quegli anni con lo stesso spirito con cui noi ci chiudiamo in un cinema a vedere “A spasso con i dinosauri” (e passiamo tutto il tempo a fare paragoni con “Jurassick Park”, che è del 1993, per l’appunto). Non c’era Facebook, ti rendi conto? Sì, certo, non c’era quasi nemmeno l’email, erano tempi lontani, e non soltanto per quel che riguarda Facebook o i nostalgici e i loro orologi biologici che intanto sono andati avanti di vent’anni.

    Non se ne vogliono andare, gli anni Novanta. Ci stanno appiccicati addosso anche se sono vecchi, quasi antichi, e i ragazzini guardano ai fatti di quegli anni con lo stesso spirito con cui noi ci chiudiamo in un cinema a vedere “A spasso con i dinosauri” (e passiamo tutto il tempo a fare paragoni con “Jurassick Park”, che è del 1993, per l’appunto). Non c’era Facebook, ti rendi conto? Sì, certo, non c’era quasi nemmeno l’email, erano tempi lontani, e non soltanto per quel che riguarda Facebook o i nostalgici e i loro orologi biologici che intanto sono andati avanti di vent’anni: c’erano su le Torri gemelle e le bolle sembravano un gran bel modo di far crescere le economie, il prezzo da pagare a un benessere che pareva eterno. C’erano i Clinton, i Blair, la terza via nel suo splendore, le guerre contro i dittatori in nome dei diritti umani, la dottrina dell’interventismo liberale, le politiche economiche espansive, la finanza, la crescita, l’Internet-Eldorado. Dev’essere che eravamo felici, allora, spensierati e giulivi, o forse che lo erano i baby boomers e allora lo erano anche tutte le generazioni successive che degli umori di quei padri hanno assorbito tutto, soprattutto i sogni, ma ancora siamo qui a pensare troppo spesso che gli anni Novanta non sono mai finiti. O che, come ha detto qualche giorno fa Howard Kurtz, un giornalista che si occupa di media, “non saremo mai in grado di sfuggire alle passioni degli anni Novanta”.

    Wendi Deng è stata la terza moglie di Rupert Murdoch, il più grande tycoon del mondo per quel che riguarda giornali, tv, informazione e politica. Stanno divorziando, dopo 14 anni di matrimonio e due figlie, e pare che la fine del rapporto non sia tra le più tranquille, soprattutto se si legge l’ultimo numero di Vanity Fair (edizione americana): c’è un articolo firmato da un ritrattista del calibro di Mark Seal che ha l’unico scopo di distruggere Wendi e di far provare pietà – addirittura – per uno squalo come Murdoch. La notizia sarebbe che il tempio del radicalchicchismo s’è schierato con il re del conservatorismo globale piuttosto che con la cenerentola cinese, ma è ovvio che non si bada a questi dettagli, quando si sta scrivendo un capitolo del libro degli anni Novanta. Contano solo le cosiddette prove della storia d’amore tra Wendi e Tony Blair, che non potrebbe essere più scandalosa e perversa di così, se si pensa che senza l’appoggio di Rupert Murdoch con tutta probabilità Blair non sarebbe diventato Blair. Le prove dell’affaire sono alcuni appunti lasciati da Wendi sul conto di Blair: “Oh merda, oh merda, com’è possibile che Tony mi manchi così tanto. Perché è così affascinante, e i suoi vestiti sono così ben fatti. E ha un corpo così bello e le sue gambe sono davvero davvero belle. ‘Butt’… Ed è così alto e con una bella pelle. Occhi azzurri penetranti che amo. Amo i suoi occhi. E amo anche il suo potere sulla scena… e cos’altro e cos’altro e cos’altro…”.

    Non si può che condividere ogni parola, ovviamente, e pure le tante speculazioni lette su quel “butt” sono del tutto inutili: non è un refuso per “but”, Wendi stava sicuramente per parlare della bellezza del sedere di Blair, e dev’essere stata interrotta (maledizione). Quel che non torna semmai è la credibilità dell’appunto lasciato, secondo quanto scrive Seal, in “broken english”: di solito le tempeste ormonali in stile adolescenziale si scatenano nella tua lingua madre, soprattutto se è diversa da quella del marito che stai cornificando. Come ha commentato su Twitter Maureen O’Connor, che è una delle giornaliste di costume più brave del mondo (classe 1985): “Mi rifiuto di credere che il dialogo interno e lo stimolo sessuale di Wendi Deng siano quelli di una teenager”; “Se stava scrivendo per se stessa, perché in ‘broken english’? Se hai problemi con una lingua non ci scrivi il diario”; “Poi: se non conosci bene una lingua e stai scrivendo cose che devi nascondere a tuo marito, perché non scrivere in una lingua che lui non può leggere”?. Per di più Wendi è descritta come una donna senza pietà che voleva lasciare la sua casupola misera in Cina con le sorelle, il fratello e la zietta anziana e che è diventata l’idola delle “Shanghai girls”, cioè di tutte quelle cinesi che cercano un marito occidentale ricco per farsi portar via dalla loro disperazione. Una signora che si è sposata soltanto gente che potesse darle qualcosa – un visto, un lavoro, una casa – e che quando ha capito di aver accalappiato un uomo come Murdoch – “come puoi non innamorarti di una donna così?”, diceva lui vecchio e sognante – si è concentrata sull’obiettivo e l’ha centrato in pieno. Una signora così “ruthless”, spietata, che poi tiene un diario da tredicenne fatto apposta per essere scovato da una cameriera?

    L’articolo di Vanity Fair non dice nulla di Wendi che già non si sapesse, ci aggiunge l’erotismo per Blair e una lezione di gattamortismo con Eric Schmidt, amministratore delegato di Google che sarebbe nella lista degli amanti della ex signora Murdoch: “Eric scopa con Lisa (presumibilmente Lisa Shields, vicepresidente per gli Affari media del Council on Foreign Relations, ndr). Lisa non avrà mai il mio stile, la mia grazia. Sono riuscita a far sì che Eric mi considerasse così bella e fantastica e giovane, così cool, così chic, così stilosa, così divertente, ma non potesse avermi. Non sono nemmeno triste… per aver perso Eric… E poi è così brutto. Per niente attraente… e grasso. Per nulla stiloso quando cerca di mettersi vestiti di moda… Sono coooosì cooooosì felice di non stare con lui”. Soprattutto in questo ritratto c’è l’ira contro Murdoch, un vecchietto che non diverte più la mogliettina di quasi quarant’anni più giovane e che si prende insulti davanti a tutti (“Vaffanculo, Rupert! Sei un cretino! Cosa farai quando me ne sarò andata?”). C’è pure il racconto di un episodio nella loro magione sulla Quinta strada a Manhattan: lei si è arrabbiata, lo ha spinto contro il pianoforte, lui è caduto, non riusciva a rialzarsi, hanno dovuto portarlo al pronto soccorso, e poi lui ha detto di essere inciampato in ufficio – povero vecchietto.

    La relazione tra Wendy e Tony non si sa quando è cominciata ma secondo le ricostruzioni è continuata almeno fino all’aprile del 2013. Gli incontri avvenivano nelle case di Murdoch, un po’ a New York e un po’ in California, lui arrivava con tutto il seguito della scorta, ma non si faceva troppi problemi a infilarsi nelle stanze di Wendi sotto gli occhi del personale della casa (chiedeva proprio: dove posso trovarla? Gli dicevano che al momento la signora era nella sua ala della magione e lui si incamminava tranquillo, e sicuro della strada). A volte dopo i loro incontri andavano insieme a spillare soldi a Murdoch a qualche evento mondano di fundraising organizzato da Wendi usando il nome del simpatico vecchietto. Dal 2011 Rupert non invita più Blair a casa sua. Le reazioni di Cherie non sono pervenute, ma a questo punto confidiamo in qualche appunto lasciato da Wendi mentre faceva le valigie.

    Nel maggio del 1992, Stan Greenberg e Celinda Lake, sondaggisti della campagna presidenziale di Bill Clinton, prepararono un documento confidenziale dal titolo: “Research on Hillary Clinton”. Tutti ammiravano il governatore dell’Arkansas e sua moglie, ma alcuni trovavano che ci fosse qualcosa di “viscido” in lui e di “spietato” in lei.
     Il documento fa parte dei cosiddetti “Hillary Papers”, l’archivio che Dana Blair, amica e consigliera dei Clinton per anni, ha lasciato all’Università dell’Arkansas dopo la sua morte, avvenuta nel 2001 (i file, che comprendono corrispondenze, diari, interviste, memo e racconti di conversazioni, sono stati depositati nel 2005 e sono stati resi pubblici nel 2010, ma ora che ha un senso spulciarli ci si stanno mettendo un po’ tutti, soprattutto i media conservatori). C’è di tutto, in questo archivio, dalla strategia alle riforme, ma naturalmente a contare sono le donne di cui Bill andava pazzo e come Hillary ha reagito alla presenza di quelle donne: molti esperti di politica americana sono convinti che se Hillary si candiderà alle presidenziali del 2016 dovrà ancora occuparsi del caso Lewinsky, perché gli americani, soprattutto le americane, non le hanno ancora perdonato la sua reazione calcolata, glaciale, cinica (sono per lo più esperti di destra e i liberal già gridano al complotto: volete tirare giù Hillary per la Lewinsky? Come siete anni Novanta!).

    Dana Blair ricorda una conversazione con Hillary, il 9 settembre del 1998 (ad agosto c’era stata la famosa distinzione tra sesso e sesso orale): “Hillary non vuole giustificare Bill, è stato uno sbandamento personale e lei non vuole assumersene la responsabilità. Ma cerca di contestualizzare quel che è accaduto: hanno adottato la strategia di agire pubblicamente come se non fossero disturbati affatto da quel che è accaduto. Hillary dice di non aver capito che prezzi sta pagando Bill. Dice di non essere intelligente abbastanza, sensibile abbastanza, libera abbastanza dalle sue preoccupazioni e che fa fatica a realizzare il prezzo che lui sta pagando”. Hillary disse alla Blair di aver ricevuto una lettera da uno psicologo che si occupava di terapia di famiglia, il quale sosteneva che “la maggior parte degli uomini con problemi di fedeltà è stata cresciuta da due donne e si è sempre sentito conteso tra loro”. L’insensibile, cinica, ambiziosa Hillary aveva quindi creduto alla teoria dell’infanzia difficile di suo marito, si era sentita colpevole come moglie, aveva creduto anche al fatto che Bill avesse tentato in ogni modo di disfarsi di Monica, ma lei era “una pazza narcisista fuori controllo”: “Hillary insiste che, al di là di quel che la gente dice, c’è stato un comportamento volgare e inappropriato, ma consensuale (non si è trattata di una relazione di potere) e non è stato sesso sotto nessun punto di vista (in piedi, sdraiati, orale, etc)”.

    Nei documenti della Blair non potevano mancare gli appunti di Bill Clinton, che risalgono alla metà degli anni Settanta (o almeno la carta da lettere utilizzata è di quegli anni), con una copertina con su scritto “Domani è giovedì”. Clinton confessa di aver comprato un regalo “for you”, di aver letto Gabriel García Márquez e Ignazio Silone, c’è un appuntamento per un giovedì, “se non ci sarai capirò, se ci sarai ci sarò anch’io”, c’è un’altra confessione: “Alle tre e mezza del mattino mi sono addormentato leggendo ‘To his coy mistress’ di Andrew Marvell”, una poesia erotica del Diciassettesimo secolo, e infine c’è una foto di un Clinton giovane con il sassofono e la scritta: “Ho pensato che potesse piacerti questa foto – Una volta ero persino più giovane”.

    Hillary decise di ignorare pubblicamente le relazioni extraconiugali di suo marito, perché quello era il modo migliore per far tacere gli avversari, per annichilirli: non stiamo soffrendo, era il messaggio che Hillary voleva mandare. Ci sono state incomprensioni, tradimenti, ma li abbiamo risolti, Chelsea cresce, quando passiamo per strada c’è sempre una folla festosa, noi non stiamo soffrendo. La si può battere, una donna così?

    Bill Clinton non ha avuto una storia con Elizabeth Hurley. Il pettegolezzo è durato quasi quanto quello dello “scherzo” del paparazzo francese sulla relazione tra Barack Obama e Beyoncé (sì, ci avete creduto tutti, la faccia di Michelle mentre Obama si faceva selfie con la biondina danese ai funerali di Mandela parlava chiaro, e poi anche Obama che non ne imbrocca una in politica ed è sempre lì che mastica cicche e smanetta il BlackBerry non può che essere innamorato – e invece no). Un ex fidanzato della Hurley, Tom Sizemore, ha detto la settimana scorsa che l’attrice aveva avuto una relazione con Clinton, lui stesso aveva dato all’ex presidente il numero di telefono della Hurley, e Clinton aveva chiamato lì davanti a lui e aveva ottenuto un appuntamento. Appena è circolata la notizia Liz Hurley ha smentito (“ludicrous”), e dopo poche ore lo stesso Sizemore ha detto di non aver mai incontrato in vita sua l’ex presidente e di essere sostanzialmente un drogato che si inventa storie. Il Daily Mail però non è riuscito a trattenersi (è il suo mestiere non farlo) e così si è messo ad affiancare foto, un sacco di foto, una via l’altra, con un cappello introduttivo: la storia tra Bill e Liz è falsa, è stata smentita, non ha senso di esistere, ma non vi pare che ci sia una somiglianza straordinaria tra Liz Hurley e Monica Lewinsky? (Sul sito del tabloid ci sono le foto, potete giudicare voi e contare i minuti che mancano a una causa della Hurley contro questi cafoni). Non era vero niente, ma in un attimo gli anni Novanta erano ancora qui, vivi e sensuali.

    Samantha Power aveva 23 anni quando ha iniziato a raccontare al mondo la guerra in Yugoslavia. Era la più riconoscibile tra tutti i giornalisti, con i suoi capelli lunghi e rossi, le lentiggini, l’aria da ragazzina e la competenza di una vecchia professoressa. Partì nel 1993, si fermò tre anni, scrisse per magazine famosi, compresi l’Economist e New Republic. Quando rientrò in America andò alla scuola di Legge di Harvard e continuò a occuparsi di diritti civili, cercando di trasferire il dibattito dai salotti e dagli atenei – dobbiamo difendere i diritti – a operazioni concrete, sul campo, laddove i diritti erano già abbondantemente violati. Nel 2003 scrisse un libro stupendo, con cui vinse un Pulitzer, “A Problem from Hell: America and the Age of Genocide”. Power inizia raccontando il genocidio armeno, poi descrive come Raphael Lemkin cercò di convincere gli americani a fermare le atrocità del nazismo in Europa, e le difficoltà a riconoscore l’Olocausto, perché allora regnava una sostanziale indifferenza per l’antisemitismo. Lemkin e i suoi sforzi sono il simbolo della riluttanza americana – occidentale – a riconoscere i genocidi e a intervenire per fermarli, come è accaduto, così racconta Power, in Cambogia, Iraq, Bosnia, Ruanda e Kosovo. La tesi di fondo di questo saggio – che contiene racconti tragici e meravigliosi – è che, se non c’è l’opinione pubblica a insistere, i leader politici americani tendono a evitare di parlare di genocidi e di definirli tali: si appigliano all’interesse nazionale oppure sostengono (e la Power si scaglia contro questa argomentazione con parecchia forza) che una risposta americana sarebbe inutile e non farebbe che accelerare violenza e instabilità.

    “A Problem from Hell” è il manifesto dell’interventismo liberal degli anni Novanta, è la rivendicazione da parte della sinistra della difesa dei diritti civili e del regime change, è l’urlo di tutti quelli che allora non si accorsero della tragedia del Ruanda, provarono a ignorarla e finirono per capire che non era possibile. Tra questi c’era anche Susan Rice, che è l’attuale consigliera della sicurezza nazionale dell’Amministrazione Obama. Tra questi c’era soprattutto la stessa Samantha Power, che ora è l’ambasciatore americano all’Onu, cioè è nel posto giusto per portare avanti la causa cui ha dedicato la sua vita, in quell’organizzazione che è stata creata apposta per evitare al mondo, dopo la Seconda guerra mondiale, altre brutture (e che ha assistito inerme a quel che di tragico è accaduto negli ultimi settant’anni).

    La Power è diventata l’ombra di se stessa, una Mia Farrow più giovane e con i capelli più lunghi (e con meno figli e problemi psichiatrici), da quando ha lasciato che il presidente Obama annunciasse una guerra imminente in Siria nell’estate scorsa – una guerra giusta, una guerra contro un dittatore che gasa il suo popolo – e cambiasse idea nel giro di qualche giorno, e poi per sempre. Lei che ha ricordato ai leader americani la loro irresponsabilità nei confronti dei massacri nel mondo, condannando la Realpolitik, ora fa parte di un team di diplomatici e di esperti di politica estera che non è stato capace di chiamare “golpe” la presa del potere con la forza dei militari egiziani e che non è stato capace di fermare la strage dei siriani fatta dal loro dittatore.

    In questo romanzo generazionale non poteva che esserci anche chi ha tradito i meravigliosi anni Novanta.
     

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi