La fuga dai paesi emergenti agita le banche ma puntella l'euro

Marco Valerio Lo Prete

Lunedì scorso, Janet Yellen, dopo il giuramento di rito, è ufficialmente diventata la prima donna a guidare la Federal reserve statunitense. Proprio nelle stesse ore, il predecessore Ben Bernanke veniva nominato “fellow” della Brookings Institution, uno dei più prestigiosi think tank di Washington. Bernanke torna così alla vita da cittadino comune, dopo aver guidato la Banca centrale statunitense durante la crisi economica più grave che si sia vista dal 1929 a oggi. I mercati internazionali, invece, a giudicare dagli scossoni degli ultimi giorni, dovranno faticare molto di più per tornare anch’essi a una vita normale, imparando per esempio a fare a meno dei generosi stimoli monetari che Bernanke dal 2008 non gli ha mai negato.

    Lunedì scorso, Janet Yellen, dopo il giuramento di rito, è ufficialmente diventata la prima donna a guidare la Federal reserve statunitense. Proprio nelle stesse ore, il predecessore Ben Bernanke veniva nominato “fellow” della Brookings Institution, uno dei più prestigiosi think tank di Washington. Bernanke torna così alla vita da cittadino comune, dopo aver guidato la Banca centrale statunitense durante la crisi economica più grave che si sia vista dal 1929 a oggi. I mercati internazionali, invece, a giudicare dagli scossoni degli ultimi giorni, dovranno faticare molto di più per tornare anch’essi a una vita normale, imparando per esempio a fare a meno dei generosi stimoli monetari che Bernanke dal 2008 non gli ha mai negato. L’ex governatore della Fed, prima di lasciare il posto di comando, ha confermato infatti che la quantità di asset acquistati mensilmente dalla Fed nell’ambito del Quantitative easing (allentamento monetario) si ridurrà di 20 miliardi di dollari, attestandosi a 65 miliardi di acquisti per ogni mese. I rubinetti non si chiudono tutto d’un tratto, ma la direzione è segnata ed è quella di una normalizzazione della politica monetaria americana. Così, complice pure la stabilizzazione delle prospettive di crescita cinesi, i capitali che negli scorsi anni erano affluiti nei paesi emergenti alla ricerca di rendimenti più elevati, si stanno ritraendo bruscamente, con annesso crollo delle valute locali. I banchieri centrali del mondo emergente protestano per l’insensibilità di Bernanke, la cui stretta monetaria non avrebbe tenuto conto delle ricadute internazionali, e in queste ore anche Christine Lagarde, direttore del Fondo monetario internazionale, ha invocato un approccio meno nazionalistico, altrimenti andremo incontro a crisi globali “più frequenti e più dannose”. Ieri le Borse asiatiche hanno chiuso in forte calo, quelle europee in modo contrastato (Francoforte a meno 0,6 per cento, Piazza Affari a più 0,6), dopo i forti ribassi degli ultimi giorni.

    Tutta colpa della Fed e dei paesi occidentali che non hanno stimolato a sufficienza la propria economia, facendo mancare il loro sostegno ai paesi emergenti, scrive sul New York Times il premio Nobel per l’Economia Paul Krugman. Sbagliato, è colpa dei paesi emergenti che negli ultimi tempi hanno approfittato dell’abbondante liquidità “made in Usa” per rimandare le riforme strutturali e permettersi pure il lusso di virate populistiche e autoritarie, replica Dani Rodrik, dell’Institute for Advanced Study di Princeton. Gli economisti, insomma, sulle responsabilità dell’instabilità di queste settimane sono divisi.

    Ma c’è anche un altro fattore, finora sottovalutato, che potrebbe aver amplificato gli effetti delle mosse della Fed: l’eccesso di rischi che gli istituti finanziari si sono assunti in questi anni di politica monetaria espansiva. Il problema non sono soltanto i 3 trilioni di esposizione delle banche europee verso tutti i paesi emergenti, come hanno stimato alcuni analisti per Reuters. Pesa anche una possibile bolla sottostante: “Ci sono troppi operatori che hanno investito troppo senza capitale sufficiente alle spalle, cioè con una leva finanziaria elevatissima. Questi soggetti, banche incluse, tendono a spostare i propri investimenti al primo piccolo movimento inatteso. Potrebbe essere questa la spiegazione di una reazione così scomposta alle decisioni della Fed che, comunque, continua a immettere liquidità nel sistema a un ritmo sostenuto”, dice al Foglio Fabio Scacciavillani, un passato al Fondo monetario internazionale, oggi capoeconomista del Fondo sovrano dell’Oman. “Scelte volatili come quelle di questi giorni sono tipiche di soggetti molto esposti finanziariamente. La graduale transizione verso una politica monetaria più ‘normale’ causa movimenti bruschi da parte di quei soggetti che finora si sono esposti sui mercati più esotici alla ricerca di rendimenti maggiori, e che hanno investito aumentando la cosiddetta ‘leva’, cioè il rapporto tra il totale delle attività e il capitale proprio”.

    Portafogli composti perlopiù da investimenti volatili e rischiosi, non invece da investimenti produttivi con obiettivi di lungo termine, sono influenzati da sbalzi improvvisi di ottimismo o pessimismo, con investitori che si comportano come lemming che ciclicamente si suicidano in massa, scrive l’economista Stephen Grenville, già banchiere centrale australiano, oggi al think tank Lowy Institute. Scacciavillani, alla luce degli ultimi bilanci annuali degli istituti di credito, osserva: “Nel 2012, cioè quando le politiche monetarie espansive erano in pieno corso, la leva finanziaria delle banche dell’Europa occidentale era pari a 42,08, mentre il rapporto tra attivi e mezzi propri delle banche statunitensi era pari al 9,35”. Tra gli istituti meno prudenti spicca, per esempio, “la tedesca Deutsche Bank, con una leva di 62,3 nel 2008 e ancora di 38,9 nel 2012”. Non a caso il titolo di Borsa del colosso creditizio tedesco ha guadagnato più di altri dopo la decisione di metà gennaio di ammorbidire i criteri di Basilea per calcolare il “leverage ratio” (cioè il rapporto tra capitali e impieghi). Con regole più lasche per misurare la leva finanziaria, che entreranno in vigore il 1° gennaio 2018, le banche avranno più tempo per ricapitalizzarsi e in teoria maggiori possibilità di elargire credito. Il problema è che alcune potrebbero approfittarne per imbarcarsi ancora in investimenti rischiosi. L’Economist, infatti, due settimane fa ha dedicato un editoriale e un reportage alla “preoccupante bolla” del settore creditizio, bolla che – secondo il settimanale inglese – a Basilea si è preferito non sgonfiare, soprattutto a causa delle fortissime pressioni di banchieri tedeschi e francesi. I dati dell’ultimo rapporto R&S Mediobanca descrivono la stessa tendenza identificata da Scacciavillani: gli impieghi delle banche tedesche sono pari a 37,8 volte il capitale, poi nella classifica di rischio vengono le banche francesi (29), più distanti le banche italiane (17,8). “Alla luce di questi ‘fondamentali’, si comprende meglio la reazione rapsodica di fronte a eventi pur non così catastrofici”, conclude Scacciavillani.

    Mentre i paesi emergenti cercano di abituarsi alla nuova normalità, l’euro paradossalmente rifiata. “Si comporta come una valuta rifugio”, scriveva ieri il Wall Street Journal, rafforzandosi anche se le Borse scendono. I capitali dai paesi emergenti per il momento defluiscono infatti nell’Eurozona. Fino a quando? Fino a quando reggerà la promessa del presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, di fare di tutto per difendere l’integrità dell’euro, e sempre a condizione che l’Eurozona non scivoli in una spirale deflazionistica (cioè di prezzi in calo) che deprime i consumi e rende insostenibili i debiti pubblici. In Italia, per esempio, l’indice nazionale dei prezzi al consumo di gennaio è aumentato solo dello 0,7 per cento rispetto al gennaio 2013; l’inflazione non era così bassa dal 2009. Perciò crescono le attese per la riunione di giovedì della Bce. Draghi, secondo l’agenzia Bloomberg, starebbe cercando il sostegno preventivo della Bundesbank per poter interrompere le operazioni che “sterilizzano” la liquidità usata per acquistare titoli di stato dei paesi in difficoltà. Un altro modo per iniettare liquidità in più (circa 175 miliardi), in attesa di scelte anche più radicali.