
Il dolore, la rabbia e la “quasi gioia” della madre di un figlio disabile
"Ci tenevo a mostrare tutti i sentimenti negativi che questa madre prova, a non nasconderli. A me i sentimenti che fanno paura piacciono. E la mia impressione è che la narrativa italiana degli ultimi anni li mostri solo un poco, per poi autoassolversi sempre. Mi sa che non autoassolversi in letteratura non usi più”. La cosa più bella e potente del nuovo libro di Valeria Parrella (“Tempo di imparare”, Einaudi, 136 pagine, 17 euro).
di Paola Vitali
"Ci tenevo a mostrare tutti i sentimenti negativi che questa madre prova, a non nasconderli. A me i sentimenti che fanno paura piacciono. E la mia impressione è che la narrativa italiana degli ultimi anni li mostri solo un poco, per poi autoassolversi sempre. Mi sa che non autoassolversi in letteratura non usi più”. La cosa più bella e potente del nuovo libro di Valeria Parrella (“Tempo di imparare”, Einaudi, 136 pagine, 17 euro. Dove la madre di un ragazzino disabile che deve imparare con molta più fatica degli altri va in tandem con una donna che deve tornare a imparare anche lei, e non solo a scuola) non è soltanto l’onestà dei sentimenti negativi e avvilenti con cui la donna accompagnata da quella sofferenza quotidiana, che non ti abbandona e non ti abbandonerà mai, racconta di scuola, di genitori, di Asl e di ospedali. C’è soprattutto il racconto di una tortuosa evoluzione in quasi gioia e in consapevolezza, dopo tanta sofferenza e necessità di accettazione.
“Sì, io volevo parlare della madre più che di ogni altra cosa, e infatti il bambino e i suoi problemi sono volutamente più sfumati”, ci dice Valeria Parrella. “Raccontare il cinismo che è costretta a imparare, mettendo da parte un po’ di dolore ogni giorno, e negandolo per poter continuare a vivere. Mostrare l’invidia che tutti i genitori dei bambini ‘fuori norma’ hanno verso quelli sani, che vanno lieti e tranquilli alle feste, dove i bimbi speciali e le loro mamme pian piano invece smettono di andare, perché il genitore del disabile è soltanto a disagio e il suo bambino neppure si diverte”.
Ma poi c’è quell’immagine di riconciliazione con la città di Napoli in un giorno glorioso di sole, al bar sulla rotonda con i pescatori, in quel magico momento effimero, preziosissimo, che ogni madre che ha appena lasciato il figlio a scuola prova, sospendendo la fretta e le occupazioni, in attesa che la solita giornata frenetica abbia inizio. Ed è come se, dopo anni di sofferenza, ci si potesse riconciliare un po’ con tutto e pensare anche di potercela fare.
Si possono imparare anche cose buone da un’esperienza estrema come quella di accogliere e crescere un figlio con problemi? “Si entra in una comunione con persone anche molto diverse da te, ma che vivono una situazione simile alla tua, per via di un figlio come il tuo. Da anni io seguo molto da vicino i problemi della detenzione, e mi capitò, tempo fa, di partecipare a una festa in un penitenziario femminile di Pozzuoli, dove l’associazione ‘Il carcere possibile’, di cui faccio parte, si era adoperata per mettere giostrine e un po’ di verde nelle aree comuni esterne, dove le detenute possono stare con i figli. Facemmo una piccola merenda con loro, e a un certo punto ci trovammo a chiacchierare di bambini. Alle parole ‘bambino prematuro’, che pronunciai raccontando di mio figlio, alla donna davanti a me si velarono in un attimo gli occhi. Aveva un bimbo come il mio, la nonna se ne occupava mentre lei era in carcere. E lei si sentiva in colpa, non per essere una delinquente per quel figlio, ma per ogni minuto passato lontano da lui. Mi diede consigli come fa sempre chi ha un ragazzo più grande e ha già percorso i passaggi che verranno, disse che vedeva nei miei occhi la sua stessa malinconia. E io, in quel tempo passato insieme, provai una forma di empatia così forte da non poterla paragonare neanche al rapporto con una sorella”.
Quante cose da imparare… Che non è colpa di nessuno. Che, a chi dovesse chiederti come si impara a diventare cinici, puoi rispondere che “non c’è bisogno di essere bravi alunni per avere quell’odio carsico che ti scorre dentro mentre vorresti solo il contrario”. Che la prima di molte visite neuropsichiatriche che sarai costretto a prenotare nel corso degli anni te la si può concedere solo dopo settantotto giorni. Che l’ospedale è il tuo posto, è il posto che ti ricorda chi sei, perché solo lì dentro senti di essere in un luogo dove non devi misurarti, chè lì ci sono tuoi pari. Che i disabili sono un’altra tribù, e dove c’è un disabile l’intera famiglia è disabile. Che è una sconfitta essere costretti a una guerra da tribù povera contro uno stato che ti incita e ti costringe a fargli causa per poche misere ore in più di insegnante di sostegno, neanche fossero un trofeo ambito da chi ne farebbe così volentieri a meno. Ma anche, scrive Valeria Parrella, che “l’incapacità di mettersi davanti al problema: questa cosa qui genera l’handicap e rende gli uomini miseri, e io e te figlio, a questa abiezione non ci dovremo mai chinare”.
di Paola Vitali


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