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La ministabilità lettiana è contagiosa
Enrico Letta è a suo agio nei consessi internazionali; ancor prima di diventare presidente del Consiglio dei ministri non ha mai nascosto un sano interesse per quanto si muove al di fuori dei nostri confini; inoltre ha detto e ha scritto in tempi non sospetti di essere un sincero europeista. Basta, tutto questo, a garantire il successo del semestre italiano di presidenza del Consiglio dell’Ue che inizierà il 1° luglio?
Enrico Letta è a suo agio nei consessi internazionali; ancor prima di diventare presidente del Consiglio dei ministri non ha mai nascosto un sano interesse per quanto si muove al di fuori dei nostri confini; inoltre ha detto e ha scritto in tempi non sospetti di essere un sincero europeista. Basta, tutto questo, a garantire il successo del semestre italiano di presidenza del Consiglio dell’Ue che inizierà il 1° luglio? No. Innanzitutto perché nessuno con la testa sulle spalle e un po’ di memoria storica può essere in ansia per una mera turnazione che ci porterà al capotavola di qualche vertice brussellese. Mai sentito David Cameron, per esempio, sostenere che il suo governo sia imprescindibile solo perché nel luglio 2017 Londra presiederà il semestre europeo. Non c’è soltanto la buggeratura retorica: piuttosto anche i primi documenti del governo sull’agenda del semestre trasudano minimalismo non proprio benaugurante. Letta a dicembre aveva parlato di un semestre europeo da “giocare all’attacco”; poi però, nella Relazione programmatica per il 2014 appena presentata in Parlamento dal ministro Enzo Moavero Milanesi, ci si para dietro i timidi richiami della Commissione Ue per nominare gli squilibri macroeconomici nell’Eurozona, inclusi quelli causati da una Germania che su certi argomenti (vedi l’eccessivo surplus commerciale) non sembra voler rendere conto a nessuno. Gli “Stati Uniti d’Europa” Letta li ha evocati in un articolo dell’inserto culturale del Corriere della Sera, ma nel documento di Moavero gli Eurobond non sono nemmeno menzionati; al massimo c’è scritto che “va seguita l’evoluzione della discussione relativa alla mutualizzazione del debito pubblico a livello europeo”. Il libero scambio è lodato con diligenza; ci sono anche utili accenni alla liberalizzazione del mercato interno dei servizi da approfondire (anche in questo caso domandare a Berlino è lecito, rispondere è cortesia): però perfino il “dobbiamo firmare il Trattato di libero scambio con gli Stati Uniti” pronunciato a novembre da Letta si trasforma in “promuovere l’avanzamento e l’eventuale conclusione” di una sfilza di accordi (con gli Stati Uniti ma anche con Giappone, India, sud America…). Sul fronte immigrazione, Letta annunciò un “semestre di svolta”: ma tra “ribadirà l’importanza”, “si impegnerà a stimolare il confronto” e altre formule simili, la rupture per il momento non si vede. L’architettura istituzionale europea di tutto ha bisogno fuorché di minimalismo. Immaginazione, tenacia e politica, queste servono.


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