L'utopia è il nuovo New Deal

Redazione

E’ stato proprio il Foglio a scrivere che assomiglio a Joker. Alludendo a una mia certa follia, più che al gusto del male (oso presumere). Oggi appare follia sperare. Io spero. Sono dunque folle? Rischio volentieri di sembrarlo, e persino di esserlo. Non rinuncio all’avventura intellettuale e, se qualcuno ci sta, anche politica verso terre nuove. Montale scrisse in “Prima del viaggio”: “E ora che ne sarà / del mio viaggio? / Troppo accuratamente l’ho studiato / senza saperne nulla. Un imprevisto / è la sola speranza. Ma mi dicono / che è una stoltezza dirselo”.

di Renato Brunetta*

    E’ stato proprio il Foglio a scrivere che assomiglio a Joker. Alludendo a una mia certa follia, più che al gusto del male (oso presumere). Oggi appare follia sperare. Io spero. Sono dunque folle? Rischio volentieri di sembrarlo, e persino di esserlo. Non rinuncio all’avventura intellettuale e, se qualcuno ci sta, anche politica verso terre nuove. Montale scrisse in “Prima del viaggio”: “E ora che ne sarà / del mio viaggio? / Troppo accuratamente l’ho studiato / senza saperne nulla. Un imprevisto / è la sola speranza. Ma mi dicono / che è una stoltezza dirselo”. Io credo sia il tempo del possibile, sperabile imprevisto. Un imprevisto però che nasce, come sanno gli scienziati, nel momento di distrazione dal lungo studio. Quasi un premio che prende forma nel momento del riposo. Ho studiato, come tanti. E l’idea è quella che leggerete. Di certo non c’è “imprevisto” come “sola speranza” se non ci si mette in viaggio, scegliendo di imbarcarsi, alzando le vele. Questo è il momento di tirare fuori dai cassetti dello studio e dell’immaginazione nuove mappe. Le mappe di un’utopia possibile.

    Quello che sto per esporre è il “caso serio” del mio lavoro di economista. Agli inizi degli anni Novanta cominciai a presentire, come molti del resto, che la fine del comunismo non potesse essere la fine della storia. Lasciare le briglie sciolte al capitalismo e al mercato, quasi fossero creature divine e provvidenti, perché si arrivasse al benessere, era utopia fasulla. E non sarebbe bastata neanche la vittoria delle democrazie liberali per garantirsi dai guai. Insieme a questo sogno fallace, soprattutto in Italia se ne manifestava un altro, nelle forme dell’utopia non conclamata di un comunismo rifluente, guidato non più da avanguardie operaie, ma da ottimati. Entrambe le opzioni avevano (e hanno) il limite terrificante di togliere serietà alla libertà degli individui. Quasi che il meccanismo sociale capitalista o para-comunista fosse garanzia di una felicità da riscuotere a fine mese o dal mercato o dallo stato. Falsa e squallida felicità. Per fortuna siamo sempre chiamati a scegliere, altrimenti la vita non sarebbe il dramma che la rende saporita e umana. Cominciai in quegli anni a elaborare una teoria, un modello di sintesi, un po’ keynesiano, un po’ marxiano nel senso della “Critica al Programma di Gotha”, un po’ capitalista nel senso felice di Adam Smith. Ne scrissi e riscrissi, qualcosa ho pubblicato nel 1994. Un lavoro mai finito, perché la politica è crudele, prende tutto o quasi del tempo. Ho continuato a sviluppare quelle idee giorno per giorno, depositate nel fondo caldo della battaglia politica. Ora quelle idee urgono, hanno becchettato il guscio. Lo dico sperando che Freud mi assista. Se fossi cattolico direi alla Mounier, che è “comunitarismo personalistico”. Ma sono Brunetta e lo chiamo socialismo liberale, quello che viene dopo la fine dell’età salariale.

    Un’utopia alla Tommaso Moro, per cui non si sparge il sangue degli altri, ma al massimo si è disponibili a offrire al re il proprio collo. Il re è l’Europa con i suoi servi italiani. Una pacifica ribellione ci potrà salvare. Violiamo i dogmi dell’Europa, senza presunzione di impunità, ma confidando nel precedente del New Deal. Come capitò a Roosevelt, che riuscì a salvare l’America dalla catastrofe applicando criteri, strategie, decisioni e princìpi che poi anni dopo sarebbero stati condannati dalla Corte suprema, ma troppo tardi per fermarlo. Quando ormai aveva fatto tutto. Per fortuna.

    Tra un anno sarà troppo tardi per salvarci, temo, dal cataclisma sociale. Questa crisi dura da troppo tempo, con gli stessi effetti, gli stessi drammi, le stesse macerie di una guerra perduta. Noi dobbiamo deciderci a partire verso le Indie e magari troveremo il Nuovo mondo. Ho scritto “noi”: intendo noi come occidente, intendo noi come Italia. Io propongo la mia mappa. La metto sul tavolo del dibattito. Intanto, però, prendiamo subito il largo. Spezziamo il 3 per cento di Maastricht. Facciamo respirare la nostra società, i nostri giovani. Sviluppiamo. Investiamo. Facciamo manutenzione del nostro territorio, delle nostre case, del nostro patrimonio urbano. Restauriamo e ristrutturiamo. Modernizziamo. Costruiamo le reti del nostro futuro. Togliamo la gente dalle scrivanie della pigrizia statale. Aggiusteremo la rotta in mare aperto. Keynes, Roosevelt, New Deal, economia sociale di mercato, Eucken, Müller-Armack, Röpke. Weitzman, Meade.

    L’etimologia, che è la mistica dei laici, ci aiuta a capire che è l’ora. La parola “crisi” – come ognun sa – deriva dal greco e vuol dire decisione, scelta, che segue a un giudizio. E’, in greco, anche il momento culminante di una malattia. Dopo di che si scivola sul versante di pascoli erbosi oppure si precipita nella valle oscura. Questo nostro 2014 è il tempo della crisi, che più non si può. Non abbandoniamoci alla marea del pensiero unico e meschino. Decidiamo. Certo, per scegliere bene occorre conoscere. Ma anche immaginare con coraggio. Vedere più in là. Questa è l’utopia positiva. Può essere non-luogo, qualcosa che non c’è proprio (ou-topos) oppure un luogo del bene, del benessere (eu-topos). Forse entrambe le cose. Ma l’alternativa è la disperazione sociale. Espongo allora le mie 20 tesi.

    Patti sociali, istituzioni e piena occupazione
    1. Le moderne società industrializzate si sono fondate, non senza contraddizioni e traumi, su un insieme di patti sociali (più o meno espliciti) che hanno sin qui fornito benessere, stabilità e sicurezza per la gran parte degli individui coinvolti. Dalle regole salariali a quelle democratiche, da quelle sul welfare state a quelle sulla competizione e sull’azione dei mercati in condizioni di concorrenza.

    2. Le nostre istituzioni, dunque, non sono altro che i prodotti di questi molteplici patti sociali. Ogni patto sociale, d’altra parte, incorpora una sorta di equilibrio più o meno stabile tra costi e benefici: un compromesso in cui vengono opportunamente distribuiti vantaggi e svantaggi degli equilibri raggiunti.

    3. Nel patto salariale il lavoro viene scambiato in ragione di una remunerazione data: in cambio di questa “sicurezza” il lavoratore cede al capitalista il controllo sulla produttività della propria forza lavoro. Nel patto democratico ciascun cittadino cede una parte della propria libertà, in cambio di sicurezza consapevole e di potenzialità di espressione e di rappresentanza per tutti i cittadini.

    4. E ancora il patto sul welfare stabilisce forme le più varie di solidarietà (pubblica e obbligatoria) tra attivi e non attivi, e tra individui di generazioni diverse, con costi distribuiti su capitale e lavoro. In presenza di modificazioni sempre più rapide della struttura produttiva, le categorie in declino, caratterizzate da un rapporto “demografico” sfavorevole fra pensionati e lavoratori, hanno bisogno della solidarietà delle categorie emergenti, caratterizzate, invece, da un rapporto “demografico” favorevole. Tale solidarietà, nei sistemi a ripartizione, non è gratuita, dal momento che è offerta dalle categorie giovani in cambio di quella che verrà ricevuta nella fase della maturità dalle nuove categorie che allora emergeranno.

    5. Mercati e concorrenza non sono altro, poi, che insiemi di regole che cercano di coniugare efficienza e buon funzionamento delle economie, in un quadro di compatibilità sociali, politiche e morali. Ciascuno di questi compromessi definisce al suo formarsi una chiara matrice di costi-benefici (chi paga e chi riceve), di inclusioni-esclusioni (chi è ammesso a giocare e chi no), che è strettamente condizionata dai livelli e dalla diffusione delle tecnologie. Anzi lo stesso progresso tecnologico è stato visto come un processo sociale.

    6. Nella storia del capitalismo industriale si è assistito a una costante evoluzione di questi patti sociali, in ragione del più o meno lento modificarsi del progresso tecnico incorporato nei singoli sistemi. Così sono progressivamente cambiati i rapporti tra costi e benefici, e tra inclusioni ed esclusioni sociali di ciascun compromesso, sempre alla ricerca di nuovi equilibri. I rapporti che notiamo, oggi, nella distribuzione del reddito e nel welfare come nella rappresentanza democratica e nel funzionamento dei mercati non sono certamente gli stessi di un secolo o due fa, avendo dovuto essi adattarsi di volta in volta ai cambiamenti economici e sociali prodotti dal cambiamento tecnologico.
    7. Le nostre società, devono oggi affrontare lo stesso problema che le società nel XIX e nel XX secolo hanno affrontato, e in una certa misura, risolto positivamente soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale: l’eccesso di capitalismo competitivo all’interno dei singoli sistemi economici.

    8. Oggi la fonte dei problemi è la stessa, cioè un capitalismo competitivo mondializzante e i suoi eccessi, con il potere però dei singoli stati e dei singoli sistemi nazionali molto affievolito, se non del tutto inesistente. La maggior parte degli eccessi del capitalismo competitivo sta riemergendo dunque su scala mondiale: in un contesto di deregolamentazione e liberalizzazione dei mercati, la mobilità del capitale finanziario e industriale a livello globale è in grado di aggirare e rendere inefficaci le politiche economiche messe in atto a livello nazionale; in un numero crescente di settori finanziari o industriali, c’è una forte tendenza verso strutture oligopolistiche, sempre giustificata dalla necessità di favorire la competitività di questo o quel sistema nazionale o sovranazionale; e ancora la legislazione del lavoro e le misure dello stato sociale sono indebolite, o lentamente in via di smantellamento, proprio per aumentare la competitività delle imprese locali, così da favorire la nascita di nuovi posti di lavoro a livello nazionale, in una vana rincorsa (perché i divari sono troppo ampi) nei confronti di chi ha il costo del lavoro più basso.

    9. La crescente apertura dei mercati tende a indurre una disarticolazione profonda delle classi sociali nelle società occidentali. La disponibilità di nuove opportunità di profitto e di “dumping sociale” tendono a rafforzare la posizione dei datori di lavoro nei confronti dei lavoratori, con il ricatto sempre più frequente che “altrove” esistono costi della manodopera più convenienti, così la deindustrializzazione (minacciata o realizzata) indebolisce il potere di controllo delle istituzioni statali nei confronti tanto del capitale che del lavoro.

    10. Da qui l’esigenza di proporre una nuova generazione di patti sociali che vada al di là dei confini delle nazioni. Ma non è pensabile di realizzare soluzioni cooperative a livello globale se prima non si risolve la causa originaria della crisi attuale del modo di produzione capitalistico: l’anacronistica e inefficiente remunerazione, attraverso la forma salariale, del lavoro. D’altra parte, se i paesi ricchi sono la causa degli squilibri a livello globale, è dai paesi ricchi che deve venire la riforma capace di innescare il circuito virtuoso.

    11. La società attiva come bene pubblico “Share economy” di Weitzman e “Labour-Capital Partnership” di Meade, che vedremo in seguito nel dettaglio, pur con le ovvie differenze, hanno in sé i catalizzatori automatici per la piena occupazione. Dunque l’adozione generalizzata e progressiva di questi schemi di remunerazione del lavoro potrebbe portare, in tempi relativamente brevi, a un’inversione epocale di tendenza: non più disoccupazione ed esclusione sociale in aumento, non più emarginazione e spreco di capitale umano, ma inclusione sociale, responsabilizzazione e qualificazione delle potenzialità individuali e collettive, non solo all’interno dei paesi ricchi, ma anche nel resto del mondo.

    12. Ma andiamo con ordine. La fine della società dei salariati porta a una sorta di “effetto domino” positivo nei regolatori sociali che da essa avevano tratto origine. Infatti, in un regime salariale stabilizzare i redditi dei lavoratori che riuscivano a rimanere occupati significava dover “aggiustare” gli equilibri del mercato del lavoro attraverso la disoccupazione. Per far sì che questa disoccupazione non fosse conflittuale, e quindi eversiva nei confronti del sistema, occorreva trattarla con i cosiddetti ammortizzatori sociali, tutti quegli strumenti, cioè, che fornendo un reddito ai disoccupati contribuivano a mantenerli in una lista d’attesa di durata indefinita. Ma, più si protrae la lista d’attesa, più la disoccupazione diventa di lunga durata, più il capitale umano diventa obsoleto, e sempre meno il lavoratore riesce a inserirsi in nuove realtà occupazionali. Con l’aumento della disoccupazione di lungo periodo e lo spreco di capitale umano conseguente, aumentano pure le spese per il welfare, in un circuito vizioso senza fine. I costi aggiuntivi del welfare, poi, non possono che ricadere sui lavoratori occupati, aumentando il costo del loro lavoro, e diminuendo la competitività delle merci da essi prodotte. Da qui ulteriori investimenti e razionalizzazioni organizzative volti a risparmiare lavoro, quindi ulteriori distruzioni di impieghi e nuovo aumento della disoccupazione.

    13. Questo tipo di meccanismo infernale porta, dunque, all’esclusione dalla vita attiva di fasce sempre più rilevanti di individui, relegandoli nella marginalità economica (nei lavori sommersi, neri, irregolari o illegali) e sociale, facendone dei disadattati e, quindi, dei potenziali free-rider. Se lo stesso meccanismo salariale viene applicato nei paesi poveri o in via di sviluppo, assistiamo a un simmetrico aumento della precarizzazione, attraverso il lavoro, però aumentando l’occupazione mal pagata, non protetta, senza regole di welfare. Nel frattempo vengono distrutti i posti di lavoro tradizionali nelle attività primarie ed artigianali. Il risultato di un simile processo è l’impoverimento progressivo, il rallentamento della crescita e la spinta all’emigrazione.

    14. Ma l’emigrazione viene attratta non già dai segmenti primari del mercato del lavoro dei paesi ricchi come per il passato (le industrie manifatturiere), ma dai segmenti secondari, marginali e sommersi, in una sorta di precarizzazione cumulativa. Sotto l’alibi della competizione globale, il sistema salariale miete così le sue vittime. In questo modo le società civili, fondate tutte sui valori portanti del lavoro, finiscono per perdere di identità, lasciando spazio agli egoismi (ciascuno cerca di risolvere individualmente i problemi della sopravvivenza) e ai fondamentalismi (l’esclusione del dialogo e della possibile convivenza di modelli culturali e politici diversi).

    15. In questo contesto le politiche macroeconomiche, le politiche di cooperazione, le strategie volte a migliorare l’efficienza e la trasparenza dei mercati sono tutte armi spuntate che portano unicamente a incancrenire gli squilibri, di fatto ritardando solamente la loro virulenza. Alla fine prevale solo la miopia del protezionismo non solo economico, ma politico e culturale.

    16. Si tratta, quindi, di cambiare “paradigma”, superando la società dei salariati, verso sistemi, sempre più diffusi, di partecipazione. Ma cosa comporta l’innesco di meccanismi che portano automaticamente verso la piena occupazione? Innanzitutto i sistemi economici a partecipazione tendono a stabilizzare la produzione e il consumo di beni e servizi al livello di pieno impiego, mentre consentono l’aggiustamento dei redditi nominali. Ne deriva un implicito azzeramento della disoccupazione.

    17. Da qui un miglior utilizzo del capitale umano che diventa, di fatto, una merce scarsa, fortemente ricercata dalle imprese. Dunque, se il lavoro diventa una merce scarsa, dal lato dell’offerta si mettono in moto meccanismi e comportamenti tali da indurre miglioramenti generalizzati nella formazione del capitale umano, sia prima di entrare per la prima volta nel mercato del lavoro (scuola e prima formazione), sia durante tutto il ciclo di vita dell’individuo.

    18. La piena occupazione, infatti, fa venir meno l’angoscia del distacco dal lavoro, e consente sempre maggiori possibilità di programmare, nel medio lungo periodo, i cicli di lavoro e di investimento, informazione e cultura. Sia dunque che assumiamo modelli della “Share economy” di Weitzman che quelli della “Labour-Capital Partnership” di Meade, oppure modelli misti, la mobilità sociale degli occupati diventa centrale nel processo di sviluppo.

    19. La “Share economy” di Weitzman. L’idea essenziale di Weitzman è che si possa sconfiggere disoccupazione e inflazione attraverso nuovi modi di remunerazione del fattore lavoro. Weitzman afferma che è il sistema di remunerazione basato sul salario a rendere difficile l’uscita dalla stagflazione, mentre un sistema retributivo alternativo, dove sia considerato normale legare la remunerazione del lavoro a un qualsiasi indice dell’andamento dell’impresa (come quota dei ricavi o dei profitti) potrebbe produrre proprio gli anticorpi necessari per combattere la stagflazione. Secondo Weitzman, un sistema di partecipazione non è globalmente più rischioso di un sistema salariale. Sono soltanto la forma e l’effetto dell’incertezza che si presentano in forma differente. Un’economia di partecipazione stabilizzerebbe il prodotto aggregato (e il consumo) dei beni e dei servizi a livello di piena occupazione, mentre consentirebbe l’aggiustamento dei redditi nominali. Mentre un’economia salariale può garantire i redditi solo di alcuni, scaricando sui disoccupati, sul prodotto e sui consumi il costo dell’aggiustamento. Vi è quindi un’ineludibile dimensione di miopia, se non di vero e proprio egoismo, da parte dei lavoratori più garantiti, e verosimilmente a più alto tasso di sindacalizzazione, che si oppongono a modalità partecipative di flessibilità dei redditi nominali, senza vedere i benefici di medio periodo che potrebbero derivare da questa loro concessione: la diminuzione dei prezzi, l’aumento dei redditi reali dei lavoratori, la piena occupazione.

    20. La “Labour-Capital Partnership” di Meade. La partnership d’impresa assomiglia, nella versione di Meade, a una cooperativa, ma è al tempo stesso qualcosa di più. In essa, sia i lavoratori sia i soci di capitale detengono quote azionarie, con caratteristiche peraltro ben distinte, nel senso che, oltre alle normali azioni di capitale, esistono anche “azioni di lavoro”, con pari diritto ai dividendi, ma non trasferibili, e che si annullano al momento dell’uscita volontaria dall’impresa del lavoratore. Meade in sostanza cerca di coniugare i vantaggi di una società per azioni, con i vantaggi di una cooperativa. Il “passaggio al macro” è del tutto conseguente: mantenere tutte le funzioni tipiche di un sistema capitalistico, ma in un quadro di diritti proprietari modificato, e quindi di una diversa remunerazione dei fattori produttivi: in parte con un salario fisso, in parte con i dividendi delle azioni (che mantiene anche in caso di disoccupazione involontaria). Pur nella massima varietà dei possibili equilibri fra capitale e lavoro nelle diverse partnership, il risultato è comunque tendenzialmente tale da assicurare ai soci lavoratori un peso decisivo nella struttura societaria.

    Conclusioni
    Tutto quanto esposto non può non riguardare anche 2 altri aspetti: 1) la gestione flessibile e contrattata degli schemi a partecipazione, che adotti di azienda in azienda, di reparto in reparto, di gruppo in gruppo coefficienti e parametri, in una sorta di pluralismo partecipativo, capace di apprendere in tempo reale e, quindi, continuamente monitorare e modificare, sia le quote variabili che quelle fisse della remunerazione del lavoro, in ragione dei cambiamenti tecnologici in atto. 2) Il problema del welfare state che, sviluppatosi nella società dei salariati, è sempre di più diventato l’ammortizzatore delle inefficienze e delle iniquità distributive proprie del modo di produzione capitalistico. Al contrario, una società attiva in cui, attraverso gli schemi della Share Economy o della Labour-Capital Partnership, la piena occupazione fosse la norma, non avrebbe certamente problemi di finanziamento per i suoi sistemi di sicurezza sociale pubblici e/o privati. Il numero degli occupati sarebbe sempre e comunque di gran lunga superiore a quello dei non attivi, anche scontando l’aumento della vita media, cosicché tutte le reti di mutua assistenza, solidarietà e assicurazione avrebbero costanti e incrementali fonti di approvvigionamento.

    In Italia quella che ho esposto come utopia esiste nella pratica di molte piccole imprese industriali e artigiane, in moltissime attività professionali, nell’universo delle partite Iva, della miriade di attività distributive, dove questa circolazione di talenti umani è praticata come mobilità virtuosa, dove vige il merito, dove padrone e dipendente, principale e subordinati, sono in fondo tutti imprenditori di un’opera comune, capaci di realizzare prodotti e servizi di qualità e di rischiare ed essere solidali tutti insieme, in una sorta di welfare dal basso. La fine dell’età salariale – come l’ho chiamata – esiste già nel corpo sociale e produttivo italiano, nel permanente miracolo di chi regge una concorrenza internazionale spietata nonostante la gramigna burocratica e l’imperversare di una cultura egemone, di un classismo ancora marxista e statalista, con il simmetrico cinismo di un capitalismo senza capitali, sussidiato, ancorato all’egoismo dei paradisi fiscali e della cattiva finanza. Si tratta di dare dignità e rappresentanza politica piena a questa utopia con i piedi per terra, trasformandola in un soggetto dominante, sia nel sociale che nella società e nella rappresentazione della stessa. Insomma far governare l’Italia migliore. Sono pronto naturalmente a discutere di queste mie ipotesi con chi abbia la pazienza di cimentarsi con esse, al di fuori delle schermaglie dialettiche di circostanza, per lavorare insieme su un futuro possibile che non sia il piccolo cabotaggio sulle rotte conosciute. Consapevole che “ogni giorno ha la sua pena”. Ma questi sono giorni in cui la nostra pena deve lottare per la speranza e non abbandonarsi alla deriva del nostro naufragio.

    di Renato Brunetta
    * capogruppo di Forza Italia alla Camera