Odio Roma e la Dolce Vita

Alfonso Berardinelli

Che cos’è Roma? Ci sono nato, da genitori nati a Roma, e sono cresciuto a Testaccio. Ma non ho mai capito cos’era questa città. Non mi è mai piaciuta, l’ho sempre rifiutata, da bambino mi sembrava che avesse un odore di sacrestia e di latrina. Ho studiato dai Salesiani fino a tredici anni, la vita personale dei preti mi incuriosiva, mi chiedevo in che cosa credevano loro, in che cosa dovevamo credere noi, se nella messa del mattino o nei film western e nei tornei di calcio con cui ci tenevano occupati di pomeriggio.

SDM La gran rottura della romanità

    Che cos’è Roma? Ci sono nato, da genitori nati a Roma, e sono cresciuto a Testaccio. Ma non ho mai capito cos’era questa città. Non mi è mai piaciuta, l’ho sempre rifiutata, da bambino mi sembrava che avesse un odore di sacrestia e di latrina. Ho studiato dai Salesiani fino a tredici anni, la vita personale dei preti mi incuriosiva, mi chiedevo in che cosa credevano loro, in che cosa dovevamo credere noi, se nella messa del mattino o nei film western e nei tornei di calcio con cui ci tenevano occupati di pomeriggio. Perfino con un gigante letterario come Gioachino Belli ho difficoltà. Mi piace leggerlo a voce alta a qualcuno, ma dopo la lettura mi sento letterariamente euforico e moralmente abbattuto. Posso essere fiero del fatto che Roma abbia prodotto un attore come Ettore Petrolini, ma sento che la sua comicità, la sua nausea di sé, è una scorante malattia che nessuno ha mai eliminato dall’aria di Roma.
    Perciò sopporto male i fanatici della bellezza di Roma, soprattutto se non sono romani. Li considero esteti e guardoni, ciechi alla tristezza, alla metafisica barbarie, al “delirio d’immobilità” che la città trasmette a chi ci nasce.

    Roma è un mito e un problema? O è semplicemente un luogo meraviglioso e irresistibile? In un lungo editoriale sull’ultimo numero della Lettura, Sandro Veronesi affronta e attualizza l’argomento con le migliori intenzioni, mettendoci dentro anche la non-romanità politica esibita da Matteo Renzi. Per smontare i pregiudizi (“a Roma non si lavora”, “Roma prima o poi corrompe tutti”) Veronesi esorta a mettere insieme le due facce della città eterna e capitale d’Italia: lo scenario storico-estetico e l’energia delle periferie. Non smetto di rimuginare sugli innumerevoli perché del mio non-amore (non ho amato, ahimè, neppure mia madre: troppo pathos materno) ma resto anche incapace di affrontare l’ingarbugliata vastità del tema. Approfitto perciò di chiunque dica la sua su Roma per poterlo approvare, contraddire e commentare.  E’ la ragione per cui ho recensito su questo giornale sia “Habemus papam” di Moretti che “La grande bellezza” di Sorrentino, due film opposti e forse complementari, ispirati dal desiderio di “far vedere” qualcosa che di solito non si vede: San Pietro, il Vaticano, i cardinali in conclave (Moretti), le ville, le fontane, le terrazze, i Lungotevere, la dolce vita (Sorrentino). Due visioni molto selettive, parziali e deformanti, che tuttavia mettono in primo piano, in forma visionaria, qualcosa che c’è, o aleggia, o dorme nell’inconscio dei romani e dei non romani approdati a Roma.

    La proposta di Veronesi, fra letteratura e cinema, è sensata, ma solo in apparenza. Il suo invito conclusivo (“vediamola, questa città”) sembra indicare la soluzione, invece indica il problema. Vedere Roma come unità è impossibile. Quell’unità o totalità c’è e non c’è. Nessuno l’ha mai pensata. Rimane comunque una pluralità che non trova un ordine e sfugge alla coscienza. Chiunque passi non distrattamente da una zona all’altra di Roma, sente che si smarrisce, per un attimo “perde i sensi” e si ritrova in luoghi reciprocamente incompatibili, come un sonnambulo.
    La compresenza dei due massimi precedenti storici, la Roma imperiale e il papato, allude simbolicamente e fisicamente a dimensioni trascendenti contraddittorie: Cesare e Dio, la spada e la croce, il potere politico e l’autorità religiosa, la terra e il cielo (il cielo di Roma è una liberazione: libera da Roma chi lo guarda).

    Il popolo di Roma, di cui si ritrovano al presente poche tracce, non crede, non ha creduto a nessuna delle due trascendenze. Non è un popolo religioso e neppure civile. Il potere imperiale è morto da due millenni e da allora sembra che per i romani non sia successo niente. Le teste di pietra degli imperatori, a guardarle bene, somigliano ancora oggi a quelle dei macellai e dei proprietari di ristoranti. Il potere dello stato nazionale e dei ministeri (“voi non sapete che cos’è un ministero. Nessuno lo sa”, avvertiva Carlo Levi nel 1950) è un potere kafkiano, proprio così: Orson Welles usò il vecchio Palazzo di giustizia, chiamato “Palazzaccio” dai romani, nel suo film sul “Processo” con Tony Perkins.

    Il cristianesimo ha trovato a Roma il suo habitat politico, ma lo spirito sembra volato via, lo si ritrova nel silenzio di qualche piccola chiesa nascosta. La cupola di Bramante e Michelangelo o il colonnato di Bernini glorificano la chiesa, non aiutano molto a pensare a vita e morte del profeta di Nazaret.
    Roma si sottrae alle definizioni che procedono per luoghi comuni, eppure tutti i luoghi comuni su Roma aiutano a capire qualcosa di vero, se portati alle loro più lontane deduzioni senza dimenticare che c’è anche altro, c’è sempre altro. I romani indubbiamente lavorano, ma impiegano troppo tempo per arrivare sul posto di lavoro, e la città, in genere, non incoraggia a pensare che il lavoro che si fa giunga a buon fine e sia apprezzato.

    “Chi ha visto Roma non potrà più essere infelice”, ha scritto Goethe. Ma solo qualche decennio dopo un altro poeta, Leopardi, a Roma non trovò che disagi, delusioni e infelicità. Rileggo qualche riga famosa del suo epistolario: “La letteratura romana è così misera, vile, stolta, nulla, ch’io mi pento d’averla veduta e vederla, perché questi miserabili letterati mi disgustano della letteratura…”. E quattro giorni dopo: “Pare che questi fottuti Romani che si son fatti e palazzi e strade e chiese e piazze sulla misura delle abitazioni de’ giganti, vogliono anche farsi i divertimenti a proporzione, cioè giganteschi, quasi che la natura umana, per coglionesca che sia, possa reggere…”. Due settimane più tardi conclude: “Venerdì 15 febbraio 1823 fui a visitare il sepolcro del Tasso e ci piansi. Questo è il primo e l’unico piacere che ho provato in Roma”.

    Per chi non ne avesse abbastanza, aggiungo quello che scrisse Giuseppe Prezzolini facendo nel 1970 un bilancio di Roma capitale: “Cento anni d’incompetenza, di trascuranza, di cupidigia, d’affarismo (…) promesse non mantenute, spese rovinose, costruzioni assurde e fatiscenti, distruzioni ignobili, bilanci truccati, corruzione permanente (…). Con rassegnazione dobbiamo abituarci a considerarla come un errore di gioventù”.

    Scriverò mai un libro o un saggio su Roma? Vorrei, ma non ci credo. Anche in questo sono un fottuto romano, due volte fottuto perché non è neppure riuscito a godersi né vita dolce né grande bellezza. Nego che Roma sia bella? No, ma certo (come dice Patrizia Cavalli) è brutta ad altezza uomo, quando ci si cammina dentro e non la si guarda dall’alto. Bella o no, se Roma fosse una donna direi che non è il mio tipo. Le cose più belle di Roma sono nella luce delle grandi ville, o nascoste nel semibuio delle pinacoteche e delle chiese. Poi c’è il cielo, divino in tutti i sensi, monoteista e politeista, a piacere. Solo che non è davvero il suo cielo. Roma non lo merita.

    SDM La gran rottura della romanità