
Autodafè in Brianza
Il mio cognome mi tradisce, come a quell’altro lo tradì la parlata (“anche tu sei con loro, la tua parlata ti tradisce”) e prima che il gallo cantasse aveva già bell’e venduto la baracca, così prima che un altro pirla canti tre volte contro la Brianza intesa come categoria della Mancanza di Spirito (“paesaggio gelido, ostile e minaccioso”) subito tradisco pure io, e rinnego sei volte (meglio il tre per due, come nei raggelanti discount della Valassina) davanti al Sinedrio dei raffinati, della sinistra a chilometro zero, degli schifiltosi del capannone.
Mancuso Il delirio anti ricchi di Virzì
Il mio cognome mi tradisce, come a quell’altro lo tradì la parlata (“anche tu sei con loro, la tua parlata ti tradisce”) e prima che il gallo cantasse aveva già bell’e venduto la baracca, così prima che un altro pirla canti tre volte contro la Brianza intesa come categoria della Mancanza di Spirito (“paesaggio gelido, ostile e minaccioso”) subito tradisco pure io, e rinnego sei volte (meglio il tre per due, come nei raggelanti discount della Valassina) davanti al Sinedrio dei raffinati, della sinistra a chilometro zero, degli schifiltosi del capannone. “Mi interessavano due scenari”, ha detto il Virzì, “quello dell’hinterland con i grumi di villette pretenziose dove si celano illusioni e delusioni sociali, e quello dei grandi spazi attorno a ville sontuose dai cancelli invalicabili”. Quando uno si trova davanti a un colpo d’occhio autoriale così, che Kubrick è un orbo al confronto, educato tra la cintura di Torino e il bassoventre di Livorno, angoli di Grande Bellezza, presumo, è pronto a rinnegare tutto. E a confessare pure i particolari raccapriccianti che erano sfuggiti all’indagine, come quando ti intervista Salvo Sottile.
Rinnego l’orribile Brianza e i suoi grotteschi toponimi in “ate” (Ormate Brianza, s’è inventato lui. E allora perché non Biscazzate, o Cacate?). Che poi, in barba a ogni ortodossia fonetica, per noi diventano tutte “a lunghe” e sbadigliate: Velàaate, Usmàaate. Del resto il suffisso è celtico, o gentilizio-latino (Rohlfs), insomma sempre colonizzati come aborigeni siamo. Siamo colpevoli di rotonde, anzi di “labirinto inestricabile di rotonde”, ché per l’Estetica, si sa, sono meglio gli incroci a T, ma siamo pur sempre “la valle dei semafori / dove crescono i citofoni”, come ammise in un imbarazzante autodafé persino il Davide Van De Sfross. Sul sinedrio estetico online del Post, tempo fa misero una serie di fotografie di Filippo Minelli: “Una fitta rete di rotonde, incroci, paesaggi industriali e capannoni, architetture balorde, campi agricoli, tralicci, insegne colorate, enormi parcheggi”. Minelli schifava tutta la Padania, si fosse concentrato sul suo triangolo delle Bermuda, la Brianza, faceva prima. Abbiamo anche delle fioriere e degli acciottolati che non le vorrebbero manco a Tbilisi. Siamo colpevoli di villette a schiera di orribili geometri (colpevoli anche dell’istituto per geometri?). E meno male che Virzì non s’è accorto delle pizzerie “da frastuono di pesci fritti e Averna ghiacciato” (copyright Pino Corrias) e dell’affannata, recente ricerca di localini da cucina del territorio, peraltro povera, mica siamo in Maremma. Non c’è verso, né redenzione. Noi siamo la periferia esistenziale del mondo, lorsignori il centro storico (e morale, va da sé).
Ma poi. Citare Gadda, come fa il borgomastro del centro storico esistenziale Michele Serra, è una belluria da Baci Perugina. Dei gaddiani “villoni ripieni” in stile “egizio-sommaruga” è fin banale parlare, è koinè da paginuzza culturale che ha rotto anche un po’ il cazzo. Le “villule” di Gadda, ormai, le fanno leggere anche alle medie di Carugate. Roba da sinistretta così pigra da non aver mai letto altro, così plasmata nell’odio del lavoro autonomo altrui da non essere in grado di capire l’estetica né l’etica del laurà brianzolo. Avessero mai letto questa di Giovanni Testori, che nella villa attaccata alla fabbrichetta c’è nato e vissuto, a Novate (-àate): “Mio padre è venuto a Novate agli inizi del Novecento, con suo fratello. A Sormano avevano qualche telaietto per il tessuto e, avendo raccolto un po’ di risparmi, sono scesi in pianura, dai monti in cerca di fortuna. E così sono riusciti a costruire la prima parte dello stabilimento che, poi, successivamente, si è allargata. Lì, in quella casa, attaccata alla fabbrichetta, sono nato io”. Così attaccata da imparare che “in ogni gesto dell’uomo esiste un peso terreno e insieme un peso supremo; esiste un peso, un valore, un senso per cui chi entra in una fabbrica, sia per dirigerla, sia per timbrarvi il cartellino e lavorare, ha eguale grandezza di chi dipinge la Sistina e di chi scrive l’Amleto”. Dubito seriamente che l’occhio di triglia culturale di Virzì e degli altri operaisti da centro storico potrebbero mai capire una cosa così.
E’ dubbio che la bellezza salverà il mondo, ma è sicuro che la bruttezza è universale. La valle dei semafori e dei capannoni è ovunque ci sia tanto lavoro, pochi libri e ci si faccia il culo pure per pagare la scuola di stato al figlio sdraiato di Michele Serra. Il resto è centro storico da decrescita infelice. L’anima nera della Brianza non sono i danée, sono certo che se Berlusconi abitasse a Piombino, la Brianza come “apocalisse antropologica” (Corrias) non inquieterebbe nessuno, sarebbe un qualsiasi nowhere come il messinese, o il cesenate. Ai tempi del delitto di Erba, Umberto Galimberti sentenziò: “I brianzoli sono una tribù terribile. Sono nato a Monza e so di cosa parlo. Un mondo truce. La loro vita è governata dal laurà, risparmià, fare i danée”. Va bene, confesso anche questa. Ma sti cazzi! Sarà colpa della regina Teodolinda se poi è diventato il copycat della filosofia?
Mancuso Il delirio anti ricchi di Virzì


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