Colpi di tacco e punte di tristezza

Jack O'Malley

Il colpo di tacco solleva ma non riscatta, lenisce senza guarire, addolcisce un derby di Milano che è la metafora del calcio italiano: stanco, disilluso, inutilmente rissoso, emozionante come una grande coalizione e prevedibile come un tweet di Balotelli. A un certo punto, sfidando buonsenso e tradizione, la fascia di capitano dell'Inter si avvolge chissà come attorno al braccio di Nagatomo, un fluidificante della simpatia che, con tutto il rispetto, vale quel che vale.

Ultimo stadio di Alessandro Giuli - Bolliti di Lanfranco Pace - Arbitro cornuto di Quarantino Fox - Jungleland di Pierluigi Pardo

    Londra. Il colpo di tacco solleva ma non riscatta, lenisce senza guarire, addolcisce un derby di Milano che è la metafora del calcio italiano: stanco, disilluso, inutilmente rissoso, emozionante come una grande coalizione e prevedibile come un tweet di Balotelli. A un certo punto, sfidando buonsenso e tradizione, la fascia di capitano dell’Inter si avvolge chissà come attorno al braccio di Nagatomo, un fluidificante della simpatia che, con tutto il rispetto, vale quel che vale. Nella prestazione generale persino l’arbitro sembra spiccare per puntualità e buonsenso, mentre i cercatori di emozioni sparsi per il mondo devono aspettare che Rai International proponga un rallentatissimo replay di Elisabetta Canalis che fa “chi non salta rossonero è”, con il pretesto di Thohir appollaiato e orante nella fila appena dietro. Quando la regia si ricorda che potrebbero esserci dei minori davanti al televisore, interrompe in gran fretta il siparietto e va a cercare la statua di cera con le sembianze di Galliani che Madame Tussauds ha fatto recapitare a San Siro. Per contrappasso, su Bein Sport, succursale sportiva di Al Jazeera, Bobo Vieri continua a commentare con accento semiaustraliano la Serie A. Domenica all’intervallo era certo che il Milan avrebbe avuto ragione degli avversari perché aveva più voglia di vincere. A fine partita ha esaltato la voglia di vincere dell’Inter e Merry Christmas a tutti.

    Ciuffo moscio. Lo sprofondo rossonero è ormai più triste di un film di Natale. Allegri, ossimoro vivente, è campione di artifici retorici di fine partita, quando con lo sguardo assente cerca di sostenere le tesi più improbabili tanto che non ci stupirebbe se dopo avere ripetuto l’ormai classico “il Milan ha giocato bene” aggiungesse “e Galliani ha i capelli lunghi”. Mi pare che a questo punto il colpo di grazia definitivo al Milan lo potrebbe dare l’arrivo sulla panchina di un vincente nato, il cui nome è stato accostato ai rossoneri più volte in questi giorni: André Villas-Boas. Il ciuffo più moscio della Premier League raccoglie insuccessi da parecchio tempo (pare che Mourinho quando lo incontra per strada si giri dall’altra parte e dica: “No, grazie, non voglio niente”) e riesce nell’improbo compito di rivitalizzare le squadre da lui allenate il giorno dopo il suo esonero. Successe con il Chelsea, quando fu sostituito da Di Matteo che raccolse la squadra quasi eliminata in Champions e la portò a vincere la coppa. E’ successo questo weekend con il Tottenham: gli Spurs, allenati dallo Stramaccioni di turno, Tim “Robin Hood” Sherwood, sono tornati alla vittoria fuori casa battendo il Southampton 3-2. Il segreto? Adebayor, non proprio uno scarso, è tornato titolare. E ha segnato una doppietta. Con la caricatura di manager che è Villas-Boas non giocava. Perfetto per il Milan, no?

    La profezia di Mou. I dodici anni di Mourinho sulla panchina del Chelsea sembrano una boutade per l’allenatore che vaga alla ricerca di stimoli e dovunque sia riesce a litigare anche con gli aiuto cameramen. Ma poche ore prima della superpartita contro l’Arsenal del longevo e disprezzato Wenger profetizza, quasi evangelicamente, che il suo regno nei blues dovrebbe durare dodici anni. E forse è pure tentato di dire che il suo regno non è di questo mondo, e gliela perdonerei volentieri al grande filosofo un po’ di messianica boria, pure se è sporcata dalla battuta un po’ seria sul contratto più scarso da quando è Mourinho, cosa che costringe a ricordare una legge immutabile del calcio e della vita: i contratti grossi arrivano con i risultati. E mi dicono che l’ultimo trofeo serio vinto da Mourinho sia la Liga (vado a cercare su Google cos’è), e dunque oltre i dieci milioni di sterline non si può andare.

    Italo-British. Non so, e non è affar mio, se Antonio Caprarica sia vittima, come dice lui, di una persecuzione da parte dei vertici della Rai oppure se ci sia sotto anche altro. I giudici giudicheranno. Quel che so è che mi mancherà profondamente il senso del luogo comune che il grande corrispondente da Londra sapeva trasmettere anche soltanto con una pochette o con una giacca di tweed. La sua presenza televisiva metteva voglia di mappamondi di legno e levrieri accarezzati di fronte a un camino, di ricevimenti regali e sfide di canottaggio a Oxford e Cambridge. Interpretava un’Inghilterra chiaramente inesistente e mitologica, una macchietta perfetta per gli italiani eruditi sulla vita all’estero da Beppe Severgnini, ma allo stesso tempo favolosa. Difficilmente troverò pace senza i collegamenti di questo paladino di un’identità britannica falsa e bellissima.

    Bocce e palloni. Io lo capisco, il povero Mauro Icardi. Arrivato per essere titolare all’Inter in estate, ormai fa la comparsa in campo. In compenso è protagonista di un personale film porno da quando ha rubato la moglie a un altro bel ragazzo come lui, Maxi Lopez. La morigerata Wanda lo consuma, ormai è noto, anche perché le statistiche sulle prestazioni dei due a letto vengono aggiornate dai diretti interessati in interviste e su Twitter quasi quotidianamente. E’ vero, lei twitta moltissimo, ma se considerate che quando non lo fa sta tendenzialmente trombando con l’attaccante nerazzurro il calcolo è fatto. Mazzarri, che è uomo di mondo, lo sa. Ecco perché non fa giocare Icardi mai più di 10-15 minuti: non perché non lo veda titolare, è che sa che a correre troppo potrebbe prendergli un colpo. Già pettinarsi in quel modo non deve essere semplice. Degli scarpini che indossa, poi, meglio non parlarne. Resterebbe il pallone, ma sono mesi che non lo tocca nemmeno per sbaglio. Le bocce, quelle sì.

    Rieducazione della curva. Più inutile della Cei e di un editoriale di Galli della Loggia, ecco l’ennesima polemica sulle curve chiuse in Italia. La buffonata semmai è stata la minacciata chiusura e poi apertura della curva dell’Inter al derby. Non si capisce se per l’intervento di Galliani, se per le minacce dei milanisti di disertare anche loro il settore caldo dello stadio o se per un’illuminazione di ragionevolezza, il derby è andato in scena con le curve aperte, anche se silenziose per protesta contro il divieto di fare la coreografia a inizio partita. Le curve chiuse perché quattro fessi dicono la parola “neri” (tra l’altro, complimenti a chi voleva chiudere la curva della Roma perché aveva scambiato la parola “carabinieri” in un coro con “squadra di neri”. Ma dove vivono? Mai stati allo stadio?) sono lo specchio di un mondo che ha devastato con il moralismo e l’etica da quattro soldi il tifo italiano, da sempre uno dei più belli del mondo. Il tutto però con la solita paraculaggine: una volta che hai detto di voler chiudere un settore sarebbe meglio farlo. Cedendo a pressioni e lamentele fai passare l’idea che vale tutto. E tanti saluti al piano di rieducazione delle masse da stadio.

    Ultimo stadio di Alessandro Giuli - Bolliti di Lanfranco Pace - Arbitro cornuto di Quarantino Fox - Jungleland di Pierluigi Pardo