
Il buon messicano
Ci possono essere solo pianti e corse a perdifiato dopo aver saltato la rete e spari mirati con precisione lungo quella linea. Solo crimini e tunnel nascosti ed esecuzioni con pistole placcate d’oro. La storia delle 2.000 miglia di confine che dividono il Messico dagli Stati Uniti può essere raccontata solo in un modo. Lungo quella linea c’è un muro dove uno scrittore può ambientare solo omicidi, un giornalista solo rastrellamenti, agguati.
di Eugenio Cau
Ci possono essere solo pianti e corse a perdifiato dopo aver saltato la rete e spari mirati con precisione lungo quella linea. Solo crimini e tunnel nascosti ed esecuzioni con pistole placcate d’oro. La storia delle 2.000 miglia di confine che dividono il Messico dagli Stati Uniti può essere raccontata solo in un modo. Lungo quella linea c’è un muro dove uno scrittore può ambientare solo omicidi, un giornalista solo rastrellamenti, agguati. E’ a ridosso del muro che erano addossate le fabbrichette fatte di lamiere, le maquiladoras dove Roberto Bolaño ha raccontato la storia vera delle donne violentate mutilate e uccise a Santa Teresa/Ciudad Juárez, sotto di esso che si allungano i tunnel della droga, opere di ingegneria stracciona ricostruite tutte le ore, dove strisciano carichi di cocaina ragazzetti che sperano di ottenere un giorno la loro pistola placcata d’oro. Il muro è fatto di legno, cemento, reti, è lungo 700 miglia, meno della metà della frontiera, in alcune parti è invalicabile, in altre è pochi fili di metallo tagliati. Il muro è recente, ha appena compiuto vent’anni. Gli americani lo iniziarono a costruire nel 1993, era Bill Clinton il presidente, l’operazione si chiamava Hold the Line, tagliò a metà Juárez a sud ed El Paso a nord. L’anno successivo l’operazione si chiamava Gatekeeper, questa volta tagliò San Diego e Tijuana sulla costa ovest, e con loro una storia di decennali bisbocce di tequila dei peggio bohémien d’America.
Il muro ha monopolizzato l’immaginario della frontiera, ma non è sempre stato così. Un tempo le strade interrotte dal filo spinato e i check-in dei Border Patrol americani con divisa verde scuro e fucile facile erano le strade di una sola città. Gli abitanti di Juárez andavano a mangiare gli hamburger dei fast food di El Paso, i cugini che si erano trasferiti a nord del confine tornavano tutti i fine settimana a salutare la famiglia e a lamentarsi di quanto il cibo americano fosse insipido. A Nogales, sul confine con l’Arizona, dove il muro ha diviso due città con lo stesso nome, a maggio una grande processione partiva dalla Nogales messicana e arrivava in quella americana. Si erigeva un piccolo palco, dove i cittadini riuniti eleggevano la “reina”, la reginetta delle Fiestas de Mayo, ci si ubriacava insieme. Lungo quel confine vive la stessa gente, ma il muro ha creato distanze incolmabili. Nel 2010, quando Sergio Adrian Hernández, un ragazzo di 14 anni di Ciudad Juárez, fu colpito a morte mentre cercava di attraversare, a premere il grilletto fu un agente con cognome messicano e pelle morena.
Tutte le storie che si sviluppano intorno al muro, siano esse di disperazione, di crimine, di politiche migratorie mai abbastanza lungimiranti, prevedono sempre che il muro sia attraversato in una direzione sola. E’ a nord che bisogna guardare, è l’America la terra da anelare. Per cercare fortuna, per spacciare metanfetamine, perché rifare i letti nei motel dell’Arizona paga comunque più di qualsiasi lavoro si possa trovare a sud del confine. Questa dinamica ha alimentato se stessa e sembra che oggi tutto quello che si può raccontare della frontiera è la difesa del fortino americano e le masse di migranti che si frangono contro di esso. Da Clinton in poi, nessuna Amministrazione ha smesso di costruire il muro, nemmeno quel Barack Obama che per due elezioni di fila ha conquistato quote impressionanti dell’elettorato latino. Ancora oggi, il 60 per cento degli americani pensa che costruire una barriera fisica per difendersi dal pericolo dell’immigrazione sia la cosa giusta da fare. Nessuno si è accorto che nel frattempo dietro al muro le cose stavano cambiando.
Nessun altro pezzo di muro è imponente quanto quello di Nogales. Costruito nel 2011, separa due città che hanno mantenuto lo stesso nome a nord come a sud. Paul Theroux del New York Times l’ha definito “più formale del Muro di Berlino, più brutale della grande muraglia cinese”. Quando ha deciso di attraversarlo per raccontare le due città gemelle, la guardia americana che ha controllato i suoi documenti ha ammesso di non essere mai stato dall’altra parte in vita sua. Fino a pochi anni fa, la Nogales messicana era una di quelle città che vivevano in funzione della loro controparte americana.
Le maquiladoras, piccole fabbrichette disastrate, si ammassavano lungo il confine per ricevere componenti dalle aziende americane e rispedire a nord i prodotti assemblati. I commercianti all’ingrosso come Jaime Chamberlain, ha raccontato Tony Allen-Mills sul Sunday Times, andavano dai loro fornitori messicani (nel caso di Chamberlain agricoltori di frutta e ortaggi) e bastava portare loro dei jeans Levi’s o un paio di Nike per strappare contratti vantaggiosi. Da qualche tempo a questa parte, però, i contadini messicani dei Levi’s di Chamberlain non sanno che farsene. Negli ultimi anni l’economia globale è cambiata, e anche il Messico è un paese diverso da quello da cui l’America continua a difendersi strenuamente. “Dopo decenni di lotte contro le minacce dei cartelli della droga e dell’immigrazione di massa, gli Stati Uniti si stanno lentamente svegliando dentro una realtà diversa”, scrive Allen-Mills.
E’ da decenni che il Messico delle maquiladoras e dei campesinos cerca di affacciarsi sulle soglie del primo mondo, e tutte le volte viene ricacciato indietro. L’ultimo tentativo è stato nel 1994, ma il crac del peso distrusse le speranze e la carriera dell’allora presidente Salinas. Da allora il Messico non ha più mantenuto le sue promesse, è rimasto la manifattura a basso costo dell’America, minacciato dalla Cina che nel frattempo diventava la manifattura a basso costo del mondo. E quando non c’era la Cina era il Brasile con le sue enormi riserve energetiche il faro delle economie emergenti d’America. Da qualche anno però la Cina ha iniziato a rallentare, il Brasile a impantanarsi. Fare affari con Pechino non è più conveniente come una volta, sia perché i salari dei lavoratori stanno aumentando sia per le intemperanze del regime (si chieda ai dirigenti del gigante farmaceutico GlaxoSmithKline arrestati negli scorsi mesi). Il Messico, che pure nel 2008-2009 aveva unito alla crisi globale gli anni peggiori della “guerra contro il narcotraffico” del presidente Felipe Calderón, ha saputo approfittare di questa situazione, investire e crescere. Oggi è in grado di rivaleggiare con la Cina per gli investimenti internazionali. A Nogales il panorama sta cambiando, le maquiladoras fatte di lamiera si stanno trasformando in fabbriche hi-tech e in manifatture di alto profilo, c’è una nascente industria aerospaziale che attira ingegneri americani come Thayne Hardy, che vive in Arizona ma tutti i giorni attraversa il muro “dalla parte sbagliata” per lavorare in una startup di Nogales.
Negli ultimi due anni il mercato dell’auto in tutto il paese ha conosciuto un boom, General Motors, Ford, Volkswagen, Nissan, Honda hanno ampliato la loro produzione. Mentre Detroit dichiara la bancarotta oggi il Messico ha più lavoratori nel settore dell’auto di tutto il Midwest americano. I numeri stagnanti dell’economia, su cui pesa il fardello di un sud del paese ancora sottosviluppato, non dicono il fermento che c’è a ridosso del muro, non parlano della vivacità, degli investitori stranieri che stanno iniettando miliardi di dollari. Nogales e le sue sorelle lungo il confine non sono la nuova Mountain View. Lo sviluppo messicano è ancora sporco, opaco, in parte basato sulla manodopera a basso costo, in parte sulla scarsa regolamentazione del lavoro. Le eccellenze, l’alta tecnologia, la meccanizzazione sono un’eccezione. Ma un’eccezione notevole e sempre più estesa, che sta cambiando il paese.
A intestarsi il nuovo sviluppo messicano c’è un presidente giovane e belloccio. Insieme a sua moglie, ex stellina delle telenovelas, formano una delle coppie più glamour del continente. Un anno fa, molti messicani non avrebbero scommesso un peso su Enrique Peña Nieto, eletto tra le file del Partito rivoluzionario istituzionale, che per settant’anni ha dominato il Messico con piglio dittatoriale e solo nell’ultimo decennio si è ricostruito una patente democratica. All’inizio del suo mandato Peña Nieto ha riunito tutti i partiti del Parlamento in un “Pacto por México” grazie al quale è riuscito a far approvare una serie impressionante di riforme, a cambiare la Costituzione, a sbloccare finanziamenti per le infrastrutture. Il Messico ha riformato l’educazione, le telecomunicazioni, il sistema bancario e fiscale, ha tolto questa settimana lo storico veto alla rielezione negli incarichi politici (non per il presidente, che continua a poter esercitare un solo mandato). Ma molte di queste riforme, ha notato il País, per ora sono rimaste sulla carta e attendono attuazione. Soprattutto, manca l’elemento principale, la riforma energetica. L’ex colosso statale del petrolio messicano, Pemex, è corroso dalla burocrazia e dalla corruzione. I giacimenti messicani producono una frazione delle loro potenzialità, i pochi guadagni sono rosicchiati dalle inefficienze del sistema estrattivo e dalle bustarelle. Servirebbe una privatizzazione che consenta di acquisire le tecnologie per lo sfruttamento degli enormi giacimenti di shale gas che il Messico sa di possedere ma non riesce a raggiungere con le sue sole forze. La nazionalizzazione del petrolio, però, è un pilastro della retorica anti gringos della sinistra messicana, e questo mese il principale partito di centrosinistra è uscito dalla coalizione del Pacto por México.
Poi c’è il narcotraffico. La guerra contro i cartelli iniziata nel 2006 dal governo messicano ha invaso i giornali di tutto il mondo di racconti strazianti, reportage in cui il muro della frontiera nord – da cui la droga deve passare, sia anche in capsule dentro il corpo di un immigrato guatemalteco o su flottiglie di aeroplani invisibili ai radar – è protagonista. Il controllo del confine nord è una pedina fondamentale per i cartelli del narcotraffico, che da anni ingaggiano guerre tra loro e con le forze dell’ordine (che spesso parteggiano per l’una o l’altra parte). Ciudad Juárez per anni è stata la città con il più alto numero di omicidi al mondo, altri centri come Nuevo Laredo o Tijuana seguivano poco dietro nelle classifiche. Ma il narcotraffico non è mai stato antibusiness. E’ bastato calare di poco la tensione ossessiva del presidente Calderón perché gli affari ricominciassero a pompare. E’ quel che Peña Nieto ha fatto, diramando istruzioni a tutti gli enti dello stato affinché nella comunicazione ufficiale la violenza del narcotraffico fosse minimizzata. L’attenzione dei media internazionali ha cominciato a scemare, gli omicidi sono leggermente calati, anche se soprattutto grazie alle iniziative locali, come l’applicazione a Ciudad Juárez della “teoria delle finestre rotte” (se le forze dell’ordine non tollerano le piccole infrazioni, sarà meno probabile che i grandi crimini si diffondano) già usata da Rudy Giuliani a New York. Il narcotraffico continua a essere una spina nel fianco, ci sono luoghi, come lo stato di Michoacán sulla costa del Pacifico dove i narcotrafficanti si combattono in campo aperto, appostano cecchini sui campanili delle chiese di paese e lanciano granate sulla pubblica piazza. Per contrastare questo fenomeno in Michoacán si sono creati dei “gruppi cittadini di autodifesa” che, armati, cercano di strappare paese per paese il territorio al controllo dei narcos. Non si fidano nemmeno delle forze dell’ordine, che a livello locale sono corrotte dal denaro dei trafficanti, e stanno costituendo un terzo elemento di destabilizzazione tra stato e narcotraffico. Ma lungo la frontiera era dall’inizio della guerra che le cose non erano così tranquille, anche i narcos si stanno adattando al nuovo clima di affari prosperosi, diversificano il loro business e si servono di una rete logistica costruita negli anni (“i cartelli della droga messicani sono come Amazon e Wal-Mart”, i giganti della mobilitazione delle merci, ha scritto Evelyn Krache Morris su Foreign Policy) per veicolare nuovi prodotti.
Quest’anno la “reina” delle Fiestas de Mayo di Nogales è una ragazza alta e coi capelli lisci che si chiama Maribel Basaca Portillo. Le Fiestas sono molto diverse da com’erano quando la città era una cosa sola con la Nogales del nord. La processione non passa più il confine, l’elezione della reginetta non si tiene più su un palchetto improvvisato in terra americana, ma in un auditorium sul lato messicano. A ogni momento i ragazzi tirano fuori dalle tasche i loro iPhone per scattare foto da caricare su “el Face”, Facebook, portano vestiti di marca, a sera dopo la festa vanno a bere in locali alla moda. A Nogales e in tutto il Messico, giù fino alla capitale che può vantare quartieri degli affari da metropoli occidentale e parchi cablati con il wifi e sistemi di bike sharing da capitale europea non italiana, sta nascendo una nuova borghesia di cui l’America non si sta accorgendo. Anche questa guarda al muro della frontiera nord, non per attraversarlo clandestinamente ma per andare a fare gli acquisti di Natale nei mall di San Antonio. La nuova borghesia messicana ha soldi da spendere, capitali da investire, beni immobili da acquistare. Lo vorrebbe fare in America, ma il muro glielo impedisce, o le rende quasi impossibile la vita.
Così gli americani, che continuano a costruire muri, che cercano di rafforzare il loro fortino, stanno iniziando a guardare questi messicani danarosi con occhi nuovi. E lungo il muro la legislazione diventa sclerotica. In Arizona un progetto per costruire nuove fortificazioni coi soldi dei privati si è interrotto questo mese perché nessun privato era abbastanza interessato alla costruzione di nuovi muri. Dei 2,8 milioni di dollari necessari ne sono stati raccolti solo 250 mila, oggi a Phoenix in molti pensano che Jan Brewer, la governatrice repubblicana che ha fatto passare una legge sull’immigrazione durissima e contestata, farebbe meglio a incontrare i governatori degli stati messicani di Chihuahua o Guanajuato piuttosto che i capi di stato di Germania e India. Nel Nuovo Messico le procedure per il passaggio della frontiera sono state alleggerite per consentire ai messicani di passare più agevolmente. In California, dove l’aeroporto di San Diego è sull’orlo del collasso per il troppo traffico, è in studio un progetto per costruire un ponte che scavalchi il muro e faccia viaggare i turisti americani via Tijuana. A El Paso, Texas, il volume degli scambi con la vicina, violentissima eppure in continua crescita Juárez aumenta di dieci miliardi di dollari all’anno, e l’arrivo di una borghesia ricca e in fuga dalle violenze ha portato a un boom del settore immobiliare. Con l’economia che ferve appena a sud del muro, continuare a costruire fortificazioni rischia di essere una misura depressiva, oltre che costosa: la spesa necessaria per mantenere solo il muro che già esiste sarà di almeno 7 miliardi di dollari nei prossimi vent’anni, e ancora più soldi costerebbero i droni per la sorveglianza e i sistemi di telecamere che vorrebbe sviluppare l’Amministrazione Obama, una delle più dure di sempre nel rafforzamento dei confini. E’ un problema anche per i repubblicani, che sembrano non capire che solo le loro politiche dogmatiche sull’immigrazione li tengono lontani da un elettorato latino tendenzialmente conservatore ma fino a oggi tutto democratico.
di Eugenio Cau


Il Foglio sportivo - in corpore sano
Fare esercizio fisico va bene, ma non allenatevi troppo
