Ecco perché bitcoin, Google e affini insidiano il monopolio bancario

Elena Bonanni

Più Google e meno sportello. Con il cruccio dei bitcoin. L'assedio digitale al fortino bancario non è una seccatura da poco per i banchieri, già in trincea per recuperare  la fiducia dei clienti collassata con la crisi. “Le banche devono sfidare Amazon e Google o muoiono”, ha avvertito dalle pagine del Financial Times Francisco González, boss della banca spagnola Bbva, per il quale le banche “stanno perdendo il loro monopolio sul fare banca”.

    Più Google e meno sportello. Con il cruccio dei bitcoin. L’assedio digitale al fortino bancario non è una seccatura da poco per i banchieri, già in trincea per recuperare  la fiducia dei clienti collassata con la crisi. “Le banche devono sfidare Amazon e Google o muoiono”, ha avvertito dalle pagine del Financial Times Francisco González, boss della banca spagnola Bbva, per il quale le banche “stanno perdendo il loro monopolio sul fare banca”. Già perché Paypal e iTunes, esempi di sistemi di pagamento usati sulla rete, sono visti per ora come un business di nicchia. “Ma potrebbero espandersi e cercare alleanze – ha detto González – E quasi certamente alcuni grandi nomi nel mondo digitale, compagnie con brand forti e milioni o miliardi di utenti, si butteranno nella mischia”.  Aggiungi l’exploit delle valute digitali create dai potenti algoritmi che viaggiano sulla rete e il cocktail micidiale è servito: un mondo di consumatori digitali che cerca sempre più di muoversi al di fuori del sistema bancario tradizionale. Tant’è che Amazon converte bitcoin, la valuta digitale più in auge al momento, in buoni acquisto ed eBay intende in futuro accettarli per le transazioni. “Le valute digitali sono destinate a essere molto potenti”, ha recentemente sentenziato il ceo di eBay John Donahoe. Nella Silicon Valley gli investitori sono pronti a scommettere che genereranno nei servizi finanziari una rivoluzione analoga a quella degli indirizzi internet (il famoso http). D’altra parte la crescita è stata impressionante: oltre il bitcoin, che a novembre ha superato la soglia dei 1.000 dollari (ottanta volte in più rispetto alle quotazioni di inizio 2013, ma per il Financial Times è “tutta speculazione”), ci sono anche gli alphacoin, fastcoin, litecoin, worldcoin, bbqcoin, i peercoin, i namecoin, gli hobonibkels, i gridcoin, gli zeuscoin. Il Wall Street Journal ne ha contate ben 80. Un mondo che fino a ieri sembrava relegato  ai geek informatici e che sconta i legami con il deep web del commercio illegale di droga, come il sito Silk Road chiuso lo scorso mese dall’Fbi. Ma che oggi ammicca al partito dei no euro e alle generazioni di nativi digitali. “Il bitcoin è il nuovo euro?”, si sono chiesti qualche settimana fa gli startupper di tutto il mondo riuniti a Berlino nella convention Tech Crunch Disrupt Europe. Nella capitale tedesca c’è un intero quartiere, Graefekiez, dove bar e negozi accettano il bitcoin. E il governo ha annunciato che acquisti e guadagni in bitcoin verranno tassati. A Cipro l’Università di Nicosia è la prima al mondo ad accettare le tasse universitarie in bitcoin in risposta alla domanda degli studenti internazionali.  In Italia la valuta digitale è comparsa nel turismo e nei piccoli esercizi, sebbene il fenomeno sia ancora molto limitato rispetto altrove. Piace perché non richiede commissioni bancarie, è anonima e indipendente da qualsiasi Banca centrale. Ma tra Pechino, Francoforte e Washington hanno già preso in mano il dossier.

    La valuta digitale pare più forte dove la fiducia nelle monete locali è bassa, come in Argentina, o dove le restrizioni monetarie sono alte, come la Cina. Lì i bitcoin spopolano (la Cina rappresenta il 62 per cento dei volumi globali) e Baidu, il Google cinese, ha iniziato ad accettarli. Non senza preoccupazione da parte delle autorità che ieri hanno vietato alle compagnie finanziarie di utilizzarli. E’ una moneta che non ha “reale significato”, dice la Banca centrale cinese che quindi ha imposto restrizioni all’uso e si propone di regolamentare la moneta evanescente in quanto pone un rischio per il controllo dei capitali. La Banca centrale europea invece un anno fa scriveva: “Al momento non mettono in pericolo la stabilità finanziaria” data la loro limitata connessione con l’economia reale e i bassi volumi scambiati, ma “gli sviluppi devono essere monitorati attentamente”. Per alcuni la crescita delle valute digitali è legata alla mancanza di fiducia nelle politiche monetarie. Non sarebbe un caso che la recente fiammata delle quotazioni del bitcoin sia iniziata a novembre con il taglio dei tassi della Bce. Chi pare benevolo è invece il dominus del dollaro Ben Bernanke: anche se non senza rischi le valute digitali “possono essere promettenti nel lungo termine” e un giorno potrebbero “promuovere sistemi di pagamento più veloci, più sicuri e più efficienti”, ha scritto in una lettera al Senato Usa che ha appena concluso una serie di audizioni sul tema. Non solo. Nel numero di dicembre della Chicago Fed letter è stato pubblicato un manuale introduttivo sul bitcoin: “Una significativa conquista concettuale e tecnica che potrebbe essere usata dalle istituzioni finanziarie esistenti (che potrebbero emettere i loro propri bitcoin) o persino dagli stessi governi”.  Negli Usa sono già in molti a crederci. I gemelli Winklevoss, gli studenti di Harvard famosi per aver conteso in tribunale l’idea di Facebook al fondatore Zuckerberg, hanno annunciato la creazione di un fondo di investimento in bitcoin. Chissà che il prossimo film di Aaron Sorkin, sceneggiatore di “The Social Network”, non parta proprio da qui.