Signori della Corte, io vi accuso

Redazione

Da ferreo avversario del Porcellum ho sempre temuto che finisse sotto le grinfie della Corte costituzionale. Temevo che ne venisse fuori un rimedio peggiore del male. Avevo ragione, ma quanto è avvenuto supera le peggiori previsioni: perché, se si mettono in fila gli avvenimenti degli ultimi anni, bisogna arrivare alla conclusione che la schiera dei soggetti che ci hanno messo nei guai non si limita a tanti politici, ma comprende la Corte costituzionale, e in una certa misura il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

di Mario Segni

    Da ferreo avversario del Porcellum ho sempre temuto che finisse sotto le grinfie della Corte costituzionale. Temevo che ne venisse fuori un rimedio peggiore del male. Avevo ragione, ma quanto è avvenuto supera le peggiori previsioni: perché, se si mettono in fila gli avvenimenti degli ultimi anni, bisogna arrivare alla conclusione che la schiera dei soggetti che ci hanno messo nei guai non si limita a tanti politici, ma comprende la Corte costituzionale, e in una certa misura il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

    Torniamo al gennaio del 2012, poco meno di due anni fa. A settembre sono state depositate in Cassazione un milione due centomila firme che, con due quesiti, chiedono l’abolizione del Porcellum. La Corte li boccia entrambi. Ieri la stessa Corte dichiara incostituzionale in toto la legge che noi referendari volevamo cancellare. E’ possibile, sotto il profilo giuridico, conciliare le due decisioni? No, non è possibile. Se il motivo di fondo è che non si può ammettere un vuoto legislativo, ebbene oggi il vuoto legislativo c’è perché con la lista bloccata non si può votare, dice la Corte, e sappiamo che solo il Parlamento la può cambiare. Se non è possibile la reviviscenza di una legge abrogata, ebbene uno dei due quesiti abrogava tutte le disposizioni che abrogavano il Mattarellum, e quindi esprimeva in modo inequivocabile la volontà di tornare alla vecchia legge. Non è casuale che la quasi totalità dei costituzionalisti italiani avessero pubblicamente chiesto alla Consulta di accogliere il referendum. E al di là di tutte le sottigliezze, da giurista e da uomo mi sento di dire che alcuni princìpi di giustizia sostanziale e di elementare buon senso travolgono ogni cavillo formale: come si può, in nome della Costituzione, negare ai cittadini di cancellare una legge che si sa già essere in contrasto con la Costituzione?

    La verità è che quella fu una decisione politica, come lo è stata quella di ieri. Preceduta lo scorso anno da un tam tam di bene informati che a noi, ingenui referendari, spiegavano per filo e per segno perché la sentenza era già scritta, chi l’aveva scritta, e che cosa vi era scritto (e ne verificammo l’esattezza). Preceduta invece adesso da un cammino più tormentato, che indica probabilmente che se la decisione era già presa, era però incerto il momento in cui renderla nota. Ma in ambedue i casi accettando nella decisione la spinta politica dominante, l’anno scorso quella di non turbare la vita del neonato governo, oggi di spingere per un ritorno dolce alla vecchia partitocrazia. E qui il giudizio sulla Corte si fa ancora più severo, perché se si può pensare che nei limiti di un certa discrezionalità la Consulta debba preferire la salus rei publicae a una certa interpretazione della norma, bisogna però dire con molta chiarezza che in questi casi la voce che la Corte ha ascoltato è stata quella del desiderio dei potenti, non del bene pubblico. Perché mai come in questi casi gli effetti sono angoscianti.

    Il blocco del referendum di due anni fa ha fatto vivere il Porcellum per altri due anni, ha fatto svolgere in una palese incostituzionalità una nuova elezione politica e un atto di straordinaria importanza politica come l’elezione del presidente della Repubblica. La Corte ha già detto che la sentenza non ha effetti retroattivi, e lo ribadirà fra poco. Ma questo risolve il problema? No, diciamolo con chiarezza, e cerchiamo di farlo capire a chi conta. Agli occhi dell’opinione pubblica il Parlamento è totalmente delegittimato, e in parte lo è anche il presidente della Repubblica da esso eletto. Pensare che questi possano affrontare i problemi che ci aspettano con l’autorevolezza necessaria è assurdo. Le opposizioni già reclamano i seggi spettanti. Sarà forte la tentazione di tanti di ribellarsi a imposte e leggi sgradite in nome della illegittimità. Gli effetti a lungo termine sono ancora più devastanti. Se nel Parlamento prevarrà l’inerzia, come sinora è avvenuto, andremo a votare con un semplice proporzionale. In un paese diviso in tre blocchi che non possono accordarsi, il risultato sicuro è una spaventosa ingovernabilità.

    Ci rimane la speranza che Renzi riesca a varare il maggioritario che ha promesso. Ma voglio aggiungerne un’altra, che riguarda il ruolo che può giocare il presidente della Repubblica. La responsabilità di Giorgio Napolitano per la crisi che attraversiamo è grande. Se sino alla elezioni ha spinto per la riforma, subito dopo è diventato l’artefice e il sostenitore delle larghe intese, cioè dell’accordo che con il pretesto delle riforme costituzionali ha spostato alla calende greche la discussione della legge elettorale, e di fatto l’ha sinora bloccata. Napolitano, che resta sempre il principale protagonista, ha due strade: continuare a difendere strenuamente l’assetto attuale, o spingere per una immediata approvazione di una legge maggioritaria e sciogliere subito dopo le Camere. La prima scelta porta a un logoramento pericolosissimo. La seconda è difficile e impervia, ma può essere la via d’uscita. Gli esperti del Palazzo pronosticano la prima strada. Io non mi rassegno. Un vecchio amico veneto mi ha telefonato poco fa per dirmi: “Spero nell’imprevedibile, perché il prevedibile mi fa troppa paura”. Lo spero anch’io.

    di Mario Segni

    (Ex parlamentare, leader referendario)