Draghi e l'euro tra incubo giapponese e sogno americano

Marco Valerio Lo Prete

Buona notizia: l’Eurozona è oggi in una situazione migliore di quella che, alla fine degli anni 90, condannò il Giappone a una stagnazione lunga oltre un decennio. Lo ha detto ieri Mario Draghi, il presidente della Banca centrale europea. Cattiva notizia, che emerge invece dalle stime pubblicate dagli economisti della Bce: l’Eurozona continua ad arrancare rispetto agli Stati Uniti, dove adesso la ripresa è addirittura più vigorosa del previsto. Draghi è intervenuto pubblicamente, subito dopo l’ultima riunione dell’anno del Consiglio direttivo di Bce, esordendo sorridente di fronte alla stampa alla quale ha rivolto i suoi personali auguri per il Natale e il Capodanno in arrivo.

    Francoforte. Buona notizia: l’Eurozona è oggi in una situazione migliore di quella che, alla fine degli anni 90, condannò il Giappone a una stagnazione lunga oltre un decennio. Lo ha detto ieri Mario Draghi, il presidente della Banca centrale europea. Cattiva notizia, che emerge invece dalle stime pubblicate dagli economisti della Bce: l’Eurozona continua ad arrancare rispetto agli Stati Uniti, dove adesso la ripresa è addirittura più vigorosa del previsto.

    Draghi è intervenuto pubblicamente, subito dopo l’ultima riunione dell’anno del Consiglio direttivo di Bce, esordendo sorridente di fronte alla stampa alla quale ha rivolto i suoi personali auguri per il Natale e il Capodanno in arrivo. La maggior parte degli analisti questa volta non si attendeva decisioni spettacolari. I tassi d’interesse sono rimasti invariati, né è stata irrorata altra liquidità alle banche o alle imprese europee. D’altronde il presidente della Banca centrale aveva già sorpreso un po’ tutti a novembre, tagliando ai minimi storici (0,25 per cento) il tasso di riferimento a cui gli istituti di credito si approvvigionano di liquidità. Tuttavia da allora si erano continuate a inseguire le voci di ulteriori scelte espansive per sostenere l’economia. Qualche dirigente della Bce aveva addirittura evocato una versione europea del Quantitative easing, cioè l’allentamento monetario introdotto dalla Fed con i suoi massicci acquisti mensili di asset. Draghi ha sottolineato che i tassi di riferimento rimarranno a lungo a questi livelli o ancora più in basso, poi ha precisato di avere a disposizione “un’artiglieria potente”, salvo aggiungere subito dopo che il Consiglio non ha optato per nessuna scelta in particolare. C’è stata comunque una discussione tra i banchieri centrali sull’ipotesi di introdurre tassi negativi sui depositi, per spingere le banche a non lasciare la liquidità in eccesso parcheggiata presso la Bce: “Ma una discussione breve”, ha specificato l’ex numero uno della Banca d’Italia.

    Il confronto con gli Stati Uniti, per il momento impietoso, è piuttosto quello che riguarda l’economia reale: il pil di Washington nel terzo trimestre è cresciuto infatti del 3,6 per cento su base annua, più delle attese del 3,0 per cento. Gli economisti della Bce, invece, prevedono che il pil dell’Eurozona si contragga dello 0,4 per cento nell’anno in corso, cresca dell’1,1 per cento nel 2014 (cioè meno della metà degli Stati Uniti) e dell’1,5 nel 2015. Pure l’inflazione continuerà a essere “bassa a lungo”, ha detto Draghi: più 1,4 per cento quest’anno, più 1,1 nel 2014 e più 1,3 nel 2015, con le stime riviste al ribasso di 0,1-0,2 punti per 2014 e 2015, comunque sotto la soglia di riferimento del 2 per cento. E proprio lo spettro della deflazione, cioè del calo generalizzato dei prezzi che rende più oneroso l’aggiustamento soprattutto nei paesi con molto debito, ha fatto chiudere le Borse europee in calo, con Milano a meno 1,75 per cento.

    Perché dunque Francoforte non osa di più? Innanzitutto perché i mercati hanno già risposto positivamente al taglio del costo del denaro, ha replicato Draghi: lo dimostrano l’andamento dei titoli di stato, le migliori condizioni di emissione di bond bancari nei paesi periferici, un’ulteriore riduzione della frammentazione finanziaria nella zona euro e un calo degli squilibri del sistema di pagamenti interbancario Target 2 (spesso obiettivo polemico degli economisti tedeschi più ortodossi che paventano perdite per la Bundesbank). Al punto che – ha notato con malizia il banchiere centrale – anche alcuni colleghi governatori che avevano votato “no” nella riunione di novembre, si sono successivamente espressi a favore della scelta. Il presidente della Bce, poi, ha ribadito più volte di avere a disposizione altre munizioni per garantire la stabilità dei prezzi nel medio termine. A chi gli chiedeva della possibilità di un nuovo round di operazioni di rifinanziamento a lungo termine per gli istituti di credito (Ltro), del tipo di quelle già predisposte tra fine 2011 e inizio 2012, Draghi ha così replicato: non solo la situazione del mercato finanziario oggi è “fortunatamente diversa”, ma bisogna pure riflettere sul fatto che “le banche utilizzarono quella liquidità soprattutto per comprare titoli di stato, perciò non molta parte di quel flusso è arrivato all’economia reale”. Una conferma indiretta del fatto che la Bce sta riflettendo su come affinare tale strumento, tenendo presente pure che la politica monetaria ha bisogno di più tempo per avere effetto quando è in corso un processo di “deleveraging” (o riduzione dell’indebitamento) da parte di banche e aziende.

    Secondo Draghi, comunque, l’Europa non è così malconcia come lo era il Giappone alla fine degli anni 90. Perché la politica monetaria è stata più reattiva, prima di tutto; poi perché il nostro continente, attraverso Asset quality review e stress test sulle banche, non lascerà che l’incertezza domini nel settore creditizio per anni. Infine perché il processo di riforme strutturali, seppure a velocità diverse, è stato avviato ovunque. Proprio ai governi va uno degli ultimi avvertimenti del governatore per questo 2013: “Non si può attendere che la crescita nasca dalla creazione illimitata di debito”.