Evangelii Gaudium

La conversione del papato comincia dai vescovi latinos

Matteo Matzuzzi

Ci vuole un lungo e profondo discernimento per comprendere le linee guida della “Evangelii Gaudium”, la lunghissima esortazione di Francesco svelata ieri al mondo. Il professor Giovanni Filoramo, storico del cristianesimo, invita a esaminare con attenzione la prima parte: è lì che si avverte tutta la portata del cambiamento promesso dal Papa gesuita. La seconda, invece, è un “pot-pourri – in qualche caso confuso – in cui si ribadiscono tematiche già sentite più volte, come la critica al neopelagianesimo. Niente di nuovo”.

    Ci vuole un lungo e profondo discernimento per comprendere le linee guida della “Evangelii Gaudium”, la lunghissima esortazione di Francesco svelata ieri al mondo. Il professor Giovanni Filoramo, storico del cristianesimo, invita a esaminare con attenzione la prima parte: è lì che si avverte tutta la portata del cambiamento promesso dal Papa gesuita. La seconda, invece, è un “pot-pourri – in qualche caso confuso – in cui si ribadiscono tematiche già sentite più volte, come la critica al neopelagianesimo. Niente di nuovo”. Nei paragrafi iniziali, però, “disseminati di molti riferimenti teologici”, il Papa traccia con estrema chiarezza il percorso che la chiesa dovrà seguire per raggiungere quello stato di missione perenne più volte richiamato in omelie e discorsi di questo primo scorcio di pontificato: “Penso che la conversione del papato di cui parla Francesco vada interpretata in senso forte, e non solo come un vezzo retorico. Il Pontefice dice chiaramente che bisogna ridare sovranità alle conferenze locali. E questo è ciò che voleva il Concilio”, spiega Filoramo, che aggiunge: “Dal mio punto di vista, Bergoglio sottolinea che c’è la necessità che l’annuncio sia capace di adattarsi a tutte le culture, quindi siamo davanti alla ripresa di passi del discorso con cui Giovanni XXIII aprì il Vaticano II nell’ottobre del 1962. Torna a farsi sentire in modo forte la questione del rapporto tra annuncio e cultura, o meglio, tra annuncio e culture”.

    Una sensazione confermata dalla lunga riflessione del Papa riguardo la religiosità popolare: “Non è abituale che in un testo del genere vengano citati molti documenti di vescovi latinoamericani”, spiega Filoramo. “Il fatto è che lui sa bene quanto pericolose per la chiesa siano quelle esperienze religiose che si affermano facendo leva proprio sulla pietà popolare, così forti in America del sud. Il nemico cui si riferisce Francesco sono soprattutto i movimenti pentecostali, che prendono sempre più campo in quel continente. Sono una minaccia per la chiesa cattolica”. Ecco perché il Papa vuole responsabilizzare le conferenze locali, “perché possano affrontare direttamente – e senza passare sempre per gli uffici della curia romana – i problemi culturali locali”. Si tratta di un “invito affinché i vescovi tengano in considerazione le specificità indigene, che durante i pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI erano cadute nel dimenticatoio, senza trovare una reale possibilità di esprimersi”. E’ a questa interpretazione che va ricondotto, secondo lo storico del cristianesimo, il passaggio in cui Francesco parla di “conferenze episcopali come soggetti di attribuzioni concrete”, inclusa anche qualche autentica autorità dottrinale: “Ma qui tenderei a considerare in chiave debole quel ‘dottrinale’ messo nero su bianco dal Papa. Non vedo rischi per i dogmi né penso che possano sorgere chiese autocefale. Ancora una volta ci vedo solo un impulso a guardare con più attenzione le culture locali, e poi teniamo presente che dottrina è anche la liturgia”.

    Fondamentale è l’inculturazione
    Per Filoramo, il disegno di Francesco è anche un ritorno al passato: “Le chiese locali sono state più autonome nei decenni scorsi, basti pensare alla conferenza del Celam (il Consiglio episcopale latinoamericano, ndr) di Medellín del 1968 in cui prese campo la Teologia della liberazione. Certo, poi hanno preso una deriva pericolosa”, nota. A ogni modo, sono tanti gli elementi che inducono a valutare la “Evangelii Gaudium” come una sorta di “seme gettato per una chiara svolta del papato”. Nonostante sia “un documento enciclopedico in cui c’è tutto”, il Pontefice ribadisce che “il rapporto con il mondo non si fa con la trasmissione di una moltitudine di dottrine, e in questo si legge una chiara critica a una chiesa troppo teologica. La necessità – dice il nostro interlocutore – è che la chiesa esca per andare alla ricerca di nuovi modi di esprimersi, per non essere schiacciata e superata dai nuovi movimenti”. E’ un punto chiave, questo: “Francesco afferma che il modo in cui un messaggio trascende le differenti culture necessita sempre di mediazioni culturali. Si tratta di inculturazione”. Una questione affrontata, seppur con altre parole, già dalla “Gaudium et Spes”, la costituzione pastorale sul rapporto tra chiesa e mondo firmata da Paolo VI l’8 dicembre 1965, ultimo giorno del Concilio Vaticano II.

    • Matteo Matzuzzi
    • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.