Machiavelli e Berlusconi, truffe mandragolesche e principesche

Giuliano Ferrara

Antonio Gnoli, giornalista di Repubblica che ha familiarità anche maliziosa con l’alta cultura, ha intervistato per un pamphlet Bompiani Gennaro Sasso, filosofo laureato e cittadino di questa Repubblica. Il tema è Machiavelli nel quinto centenario del suo Principe. Il risultato è un doppio ritratto di formidabile impatto: Machiavelli e gli italiani. Sasso ha ancora molto da dire e da domandare sul pensiero tragico del nostro maggiore scrittore e pensatore di storia e politica, e sul suo senso acuto, inconciliabile, della decadenza e della ruina dello stato come pericolo da scongiurare con ogni mezzo, eppure inevitabile, alla fine.

    Antonio Gnoli, giornalista di Repubblica che ha familiarità anche maliziosa con l’alta cultura (si può dire “alta cultura” o è vietato dalla legge?), ha intervistato per un pamphlet Bompiani Gennaro Sasso, filosofo laureato e cittadino di questa Repubblica (il resto degli elogi non serve). Il tema è Machiavelli nel quinto centenario del suo Principe. Il risultato è un doppio ritratto di formidabile impatto: Machiavelli e gli italiani.

    Nel libro agisce una corrente enigmatica, un non detto e non raccontato che sorprende nelle parole di uno degli studiosi che conosce meglio Machiavelli e il suo pensiero. A un certo punto Machiavelli scrive il fatale opuscolo sulla politica, sulla forza, sulla decadenza italiana, sugli strumenti del male, della menzogna, sulla costituzione di un potere che unifichi e salvi gli uomini dalla rovina sempre imminente, sulla storia e la sua ciclicità non assistita dalla divina provvidenza, affidata alla sola fortuna e alla virtù della forza e se necessario dell’inganno, in sapida combinazione; e poi scrive i Discorsi su Tito Livio, altro grande saggio di filosofia politica con cui il segretario fiorentino è entrato nel tempo moderno come suo “fondatore”. E poi scrive molto altro, la fatale commedia in cui la politica è trattata tra le righe con sarcasmo, la Mandragola, un trattato militare, uno di storia fiorentina più un vasto magnifico epistolario. Prima di questa carriera, iniziatasi post res perditas, dopo la sua personale rovina politica, determinata dal ritorno al potere della famiglia Medici, si sa dei suoi quindici anni di funzionario della signoria, ma niente altro. Mistero. Come è diventato Machiavelli il Machiavelli? Come si è formato negli anni che precedono il suo accesso alla seconda cancelleria del Soderini? Dove ha preso e come ha elaborato, come e con chi e in quale contesto ha confrontato la sua vasta, assemblata e disuguale cultura storica e filosofica? La verità, dice Sasso, è che non se ne sa alcunché di certo, di solido, di sensibile e significativo. C’è un vuoto biografico misterioso negli anni in cui, mentre la Firenze esoterica e umanistica brucia del grande fanatismo religioso e politico di Savonarola (alla fine del Quattrocento, fino al grande rogo) Machiavelli, figlio di un giurista, accede a una alta carica politica e poi si fa scrittore e inventore di verità e di miti politici immortali. O è proprio in reazione allo spirito popolare del fanatismo di Savonarola che matura il futuro uomo pubblico e pensatore politico dell’estrema ragion di stato incarnata dal “principe nuovo”?

    A questo vuoto si appaia un sospetto, e per Sasso più che un sospetto: Machiavelli è un pensatore anticristiano. Forse un altro grande studioso come il filosofo Leo Strauss esagera quando ne fa un profeta dell’ateismo, il Cristoforo Colombo di un continente moderno senza Dio, un esploratore dell’indicibile che procede per dissimulazione, ma il noto disprezzo di Machiavelli per il principato ecclesiastico e le sue basi religiose post pagane, che sarà replicato ed esplicitato in filosofia e mitologia letteraria da Friedrich Nietzsche quattrocento anni dopo, è un tratto pertinente che sollecita la più autentica curiosità. Diciamo che Machiavelli era un laico integrale, sia inteso in senso eufemistico, quando criticava il condottiero Baglioni per non avere ucciso il Papa Giulio II a Perugia, perdendo la sua scommessa con la storia.

    Sollecitato da un giornalista che fu suo allievo, dopo una vita passata a studiare Machiavelli e molte altre cose di filosofia teoretica e di storia della filosofia, Sasso ha ancora molto da dire e da domandare sul pensiero tragico del nostro maggiore scrittore e pensatore di storia e politica, e sul suo senso acuto, inconciliabile, della decadenza e della ruina dello stato come pericolo da scongiurare con ogni mezzo, eppure inevitabile, alla fine. Ma qui, allagandosi il loro campo visivo all’Italia di oggi, fatale approdo di ogni riflessione anche alta, che sembra non stare sulle proprie gambe se non appiccicata alla crisi della Repubblica e al fenomeno Berlusconi, introduco ovviamente una riserva.

    Sasso non è mai banalmente azionista, mai banalmente laico, mai banalmente democratico e liberale. E’ certamente di una scuola incompatibile con l’andazzo degli ultimi venti, ma anche quaranta e sessant’anni (Berlusconi gli dispiace e molto, ma non è che gli piacciano il regime democristiano precedente, il consociativismo o il comunismo nutrito in un mito antifascista che sa decrittare e criticare). Sasso non è un bigotto della virtù, un esibizionista delle buone intenzioni e uno spirito subdolamente perbene, come ce ne sono tanti nella Repubblica del moralismo. Machiavelli e  Croce lo hanno vaccinato, come studioso e come cittadino che non riconosce nella Costituzione la donna più bella del mondo, contro una visione della storia degna della stupidità di un Messer Nicia, il marito imbecille della bella Lucrezia nella Mandragola, o della operosa e callida truffalderia dei Callimaco e degli altri parassiti della commedia. Eppure resiste in lui il pregiudizio, vissuto con severa disperazione, secondo cui i nostri peggiori guai sono cominciati con quel Fra’ Timoteo di Berlusconi. Espressione, il Cavaliere, di un paese che “non ha reso principesco il mondo della Mandragola ma semmai mandragolesco il mondo del Principe”. E qui dovrei controargomentare che non fu principesca la fine della Repubblica che generò Berlusconi, e non lo sarà quella destinata a succedergli, ma sarebbe troppo lungo rimettere insieme, e in commedia, i cocci di vent’anni di questo giornale.

    • Giuliano Ferrara Fondatore
    • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.