
Comicissimo Checco
Eravamo quasi “all’acne del successo” – battuta checcozalonica rubata a un film precedente – quando cominciò il tormentone: “Il film di Zalone com’è? Fa ridere? Merita l’incasso stramilionario? Lo devo proprio vedere?”. Son domande che gettano nello sconforto. C’è una buona notizia: la curiosità mordicchia gli sdegnosi che non guardano i film campioni d’incasso e non leggono i libri in classifica, singolare categoria di eremiti che non perde occasione per dirsi “fuori dal coro” (a meno che non si tratti di ristoranti, scarpe col tacco, vestiti con la firma) e sempre si trova in affollata compagnia.
Eravamo quasi “all’acne del successo” – battuta checcozalonica rubata a un film precedente – quando cominciò il tormentone: “Il film di Zalone com’è? Fa ridere? Merita l’incasso stramilionario? Lo devo proprio vedere?”. Son domande che gettano nello sconforto. C’è una buona notizia: la curiosità mordicchia gli sdegnosi che non guardano i film campioni d’incasso e non leggono i libri in classifica, singolare categoria di eremiti che non perde occasione per dirsi “fuori dal coro” (a meno che non si tratti di ristoranti, scarpe col tacco, vestiti con la firma) e sempre si trova in affollata compagnia. E c’è una cattiva notizia: nessuno sente il bisogno di constatare di persona, comprando il biglietto (magari nei giorni con lo sconto) o sfogliando il romanzo in libreria.
Le Domandone puntano alla Verità Vera. O al punteggio di Amburgo, il combattimento che al netto dei soliti incontri truccati rivela una volta l’anno il reale valore dei pugili. Fu Viktor Sklovskij – critico letterario dai metodi originali, gli dobbiamo anche l’idea della “mossa del cavallo”, presa dagli scacchi – ad applicarlo alla letteratura: “Bulgakov al tappeto, Babel’ peso piuma”. In Italia si dà per scontato che nessuno – meno che mai i recensori – scriva quel che pensa davvero (tra gli opinionisti, si porta molto la frase “io, ovviamente, non ho visto il film”). Sai come vanno le cose, ci conosciamo tutti, per questo la rivoluzione non si può fare, il regista amico non si può stroncare, ai festival è tutto un “ma che brutto, ma che orrore, ma che delusione” e il giorno dopo piovono stellette. Con i libri, uguale: “Sai com’è, siamo amici, pubblichiamo per la stessa casa editrice…”. Poi ti prendono da parte e ti soffiano nell’orecchio quel che pensano davvero, ed è peggio della peggiore stroncatura che avevi in mente di scrivere.
Cominciate a guardare il trailer di “Sole a catinelle” che passa in tv (non guardate la tv? come abbiamo fatto a dimenticarlo? almeno un iPhone l’avete o siete fermi al Commodore 64?). Sono due minuti che non impegnano, e già mostrano l’ottima fattura del film di Gennaro Nunziante e i tempi comici sopraffini dell’attore Checco Zalone. Premessa (le abbiamo in odio, in questo caso serve): per un fenomeno incomprensibile, visto che tutti quanti lamentano la frenesia di questi anni, la commedia italiana – natalizia e no – funziona al rallentatore.
Uno dice una battuta, mette un bel punto fermo e aspetta. L’altro va a capo, rientra nella riga, alza il tasto della maiuscola, e dice la sua (a volte par di sentire il rumore del carrello da vecchia macchina per scrivere). Sarebbe il momento di ridere, ma siccome è comicità garbata non sempre succede. Se non è garbata, vedremo una merda pestata che impuzzonisce svariate scene, una gag con i calzoni calati in cerca di carta igienica, un cellulare nel culo del tacchino o uno slittino che si abbatte sul malcapitato, già da tempo in attesa a gambe larghe. Quando finalmente arriva la battuta siamo già stanchi. Non solo noi: anche chi lascia il divano di casa solo per il film di Natale, di Pasqua e di San Valentino.
Zalone fila via veloce, si fa da solo le controscene, anticipa lo svarione grillino del dittatore che di nome fa Pino e di cognome Chet (anche questa battuta è già nel trailer, così risparmiate e rallegrate il comico che dopo il primo record dichiarò: “Speriamo domani di incassare meno, così siamo tutti più tranquilli”).
Due camerieri stanno dietro il tavolo con lo champagne. Checco il guastatore, finito per caso nella villa dei ricchi quando non sa dove portare il figlio in vacanza-premio, li chiama “Philip… Pino”. Alla battuta avevamo riso (più di quanto ridete voi a leggerla: i comici bravi hanno la faccia, il corpo, i gesti, la voce e l’intonazione, per questo il film va visto, mettete a pizzo gli euri rinunciando alla dadolata di tofu biologico). Risentirla dopo Pino Chet suggerisce che Zalone sta ritirato a Capurso ma poco gli sfugge del mondo.
La prima tappa della vacanza con il bimbo che non rimedia un brutto voto neanche in condotta – più avanti, quando finalmente dice una parolaccia, il padre esulta: “Ma allora sei normale!” – è la casa di una decrepita zia molisana, tirchia da far paura, bolletta media dell’elettricità quattro euro. Non ci sono altri bambini, bisogna spiegare ai vecchi seduti sulla sediolina che esistono creature sotto il metro che ogni tanto giocano (conoscete qualcuno che abbia fotografato meglio l’Italia dei figli unici fatti dopo molte riflessioni? noi no). Secondo tentativo, una famiglia di immigrati in procinto di imbarcarsi su un traghetto. Zalone interpreta a modo suo il fardello dell’uomo bianco: “Giusto che ti portino loro in gita, con tutto quel che abbiamo fatto per loro. Faglielo pesare”. In “Che bella giornata” buttava il cuscus preparato per la gita domenicale dalla fidanzata araba ai pesci: “Gli ho dato la pastura… non era pastura?”.
Non andremo avanti citando le battute una per una, con il rischio di rovinarle, giacché i tempi giusti li ha Checco Zalone, mica noi, e a smontare la comicità si finisce con l’ucciderla. Stupisce però lo stupore davanti a un successo e a incassi che sono frutto di fatiche e di ripensamenti, anche se lo spettatore non è tenuto a saperlo. Il mago prova il suo numero centinaia di volte. Arrivato sulla scena, il coniglio esce al momento giusto dal cappello. Applauso. Se il coniglio non esce, pernacchia.
Tentiamo una sintesi. I nemici di Checco Zalone danno battaglia (persa) perché siamo di fronte a un successo meritato. Il più imperdonabile di tutti. Vincere al botteghino non è come vincere alla lotteria, che azzecchi il biglietto miliardario per caso. Nel cinema, la botta di culo ha molte declinazioni. Il film è uscito in tante sale (vero anche nel caso di Zalone, ma sono stati gli esercenti a richiederlo, non ce la fanno a pareggiare i conti proiettando “Miss Violence”, il film greco premiato alla Mostra di Venezia, oppure “Tir”, il documentario italiano premiato al Festival di Roma: immaginate un camionista, o anche un impiegato alle poste, o anche uno di noi, che la sera paga per vedere un camionista in canottiera che telefona alla moglie dalla cabina di guida). Gli hanno fatto un sacco di pubblicità. Il pubblico rimbecillito dalla tv vuole solo film idioti (di tutte la più offensiva: il pubblico paga il biglietto, ha il diritto di scegliere quel che piace a lui, non ai registi che disprezzano gli spettatori).
“Sole a catinelle” arriva dopo una sceneggiatura che non convinceva, e complice il produttore Pietro Valsecchi è stata scartata, ripartendo da zero. Ha richiesto mesi in sala di montaggio, con tagli feroci (mai affezionarsi alle scene, la regola “Kill your darlings” – uccidi le cose di cui vai più fiero – vale anche in questo caso). Ha un copione lustrato e rifinito. Ha un attore ragazzino – si chiama Robert Dancs – bravissimo e per niente lezioso. Prende in giro i poveri e prende in giro i ricchi. Dopo “Cado dalle nubi” e “Che bella giornata” Zalone ha portato in giro per l’Italia uno spettacolo, il “Resto umile World Tour”, e poi nessuno l’ha più visto. Non ha fatto l’ospite di giro in tv. Non ha fatto dichiarazioni sul bestiario della politica, sulla crisi economica, sulla violenza domestica, sul video di Miley Cyrus, sui tweet di Matteo Renzi.
Checco Zalone ha fatto il suo mestiere, lavorando e imparando dai grandi. Solo un paio di nomi: Alberto Sordi, un altro che non si faceva illusioni sugli “italiani brava gente”, e Sacha Baron Cohen. La gag di “Sole a catinelle” sui ricchi che gli aspirapolvere li sistemano nella galleria d’arte contemporanea, mentre i poveri li vendono e li comprano a comode rate mensili, fa venire in mente Borat infiltrato nella casa dei ricchi sudisti. Sacha Baron Cohen rischia di persona – anche di recente, guardate su YouTube la consegna del premio Chaplin. Sul palco una vecchietta gli porge in segno di omaggio il bastone originale di “Luci della città”: prima che il numero comico arrivasse dove doveva arrivare, abbiamo creduto che davvero sul palco ci fosse la bambina che aveva recitato nel film.
Sghignazzando sull’aspirapolvere esposto come opera d’arte, Checco Zalone spazza via i brutti film italiani che negli ultimi mesi hanno mostrato studi d’artista, prendendosi terribilmente sul serio. “Cos’è questo?” chiede Micaela Ramazzotti al marito scultore anni 70 Kim Rossi Stuart, indicando un gigantesco donnone di argilla. “Il ritratto della tua assenza”, risponde l’artista (avevano litigato per via delle modelle nude a studio, ora fanno pace e fortunatamente il film di Daniele Luchetti finisce). “L’ultima ruota del carro” di Giovanni Veronesi mostra lo studio di un pittore con bicicletta, ispirato a Mario Schifano (altra macchietta). La canzone sugli “uominisessuali” cantata nel locale gay di Milano, con il dito puntato durante il ritornello – “e se eri tu così? e se eri tu così?” – potrebbe essere un numero di Borat. Come zio Michele da Avetrana, che dà le ricette di cucina e ritratta ogni ingrediente (“una cipolla… non no, cancelli… mica ho detto cipolla!”). I mugugni lo constrinsero a fare marcia indietro. Come se fossimo in una tv che non campa sul plastico di Cogne, e per i delitti e gli scomparsi non mette in scena interminabili reality con certi criminologi che non vorremmo incontrare dopo l’imbrunire.
Due domeniche fa siamo rimasti alzati per seguire il programma culturale su Rai 3. Presentato come “Un talent di scrittori, wow! Un’idea che il mondo ci invidia”, anche se il Guardian lo aveva bollato in anticipo come “vulgar, ill-conceived and wrong-footed” (greve, mal congegnato, pieno di passi falsi: critica preventiva andata a segno). E abbiamo immaginato un’incursione di Checco Zalone a “Masterpiece”. Avrebbe curato – nei nostri sogni almeno – la concorrente anoressica con la stessa mezza pagnotta che in “Sole a catinelle” allunga all’attrice scheletrica di “Anoressia mon amour” (i cinefili duri e puri segnalano che si tratta del vero set di “Nostalghia” di Andrei Tarkovsky, a saperlo prima ci avrebbero portato via dalla sala per schiamazzi).
Sarebbe tornato comodo, per altri aspiranti romanzieri, il metodo usato in “Sole a catinelle” per curare il bambino con il mutismo selettivo: domanda a voce normale, domanda a voce alta, domanda a voce più alta ancora, domanda urlata, finché il bambino risponde e la mamma quasi sviene per l’emozione e ricambia invitando sullo yacht. Il bambino non più muto all’occorrenza si può zittire, con un altro piccolo trauma, ricordandogli che ha un padre stronzo (“poi domani ti riattivo, ma adesso dormi…”). Il concorrente di “Masterpiece” uscito di galera – “una rissa… qualcuno si è fatto male…” pronunciato con molti sottintesi, sicuramente la sua prova narrativa più riuscita – ricorda la divisione in due squadre, nell’oratorio di “Che bella giornata”: “Chi ha il padre in galera di qua, chi ha il padre tossicodipendente di là”. Lo scrittore di “Nuovo nichilismo solidale” meritava il commento “Della Che Guevara avete anche il borsello?”.
Che gioia sarebbe stato vedere Checco Zalone di fronte a Giancarlo De Cataldo e Andrea De Carlo, beati nel loro ruolo neanche fossero Balzac e Dickens redivivi. Vederlo commentare la serie di concorrenti – saranno meglio nella prossima puntata, nella prima devono aver confuso le schede degli scartati e quelle degli eletti – con la stessa sicurezza con cui parla di finanza. A furia di prestare soldi ai poveri, che come lui non possono pagare, è chiaro che la bolla scoppierà (qualcuno ha mai spiegato in maniera tanto semplice la crisi dei subprime?). A furia di esibire casi umani, tutti convinti che per scrivere basta l’esperienza, è parimenti chiaro che le case editrici falliranno. Perché dovrei leggere uno che scrive peggio di me, e ha cose meno interessanti da raccontare? Tanto vale che me lo scrivo io il romanzo, magari divento famoso. Il Guardian invocava un programma che rompesse l’equazione “lettore=sfigato”. Pare difficile contrastarla con l’equazione “romanziere=sfigato” (e già che siamo in tema di “Masterpiece”: togliete quei caratteri di piombo dalla sigla, mancava solo la falce con il martello, la grafica sovietica va bene per la sigla della serie tv “The Americans”, dove si parla appunto di una coppia di spie russe che si fingono americane).
C’è stata, a proposito di Checco Zalone, anche la polemicuccia morale a firma Michele Serra e Selvaggia Lucarelli. Per via di una scena che capiscono solo i grandi, e di certo non turba la serenità dei piccini non ancora in età di sexting. Il teatrante del Vajont Marco Paolini – in “Sole a catinelle” fa una piccola parte con sciarpetta al collo da industriale illuminato – ha sentito il bisogno di preservare la propria verginità artistica dichiarando: “E’ stato un lavoro come un altro”. Succede, quando si fanno film che piacciono alla gente che non piace.


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