L'importante è finire

Redazione

Quando il 25 gennaio del 1929 Robert Walser bussò alla porta della clinica Waldau di Berna per chiedere di venire internato aveva cinquant’anni e aveva già scritto tutto ciò che doveva dire. Trasferito tre anni dopo al sanatorio mentale di Herisau, vi restò altri ventiquattro anni, alternando lunghe passeggiate ad appunti scritti a matita, in una calligrafia minutissima e arricciolata, e andati perduti. “Dice di sentire delle voci”, così recitava la sua cartella clinica.

di Ronald Giammò

    Quando il 25 gennaio del 1929 Robert Walser bussò alla porta della clinica Waldau di Berna per chiedere di venire internato aveva cinquant’anni e aveva già scritto tutto ciò che doveva dire. Trasferito tre anni dopo al sanatorio mentale di Herisau, vi restò altri ventiquattro anni, alternando lunghe passeggiate ad appunti scritti a matita, in una calligrafia minutissima e arricciolata, e andati perduti. “Dice di sentire delle voci”, così recitava la sua cartella clinica. In realtà, il poeta svizzero aveva piani molto più lucidi di quanto sospettassero i suoi infermieri. Solo tra le mura di quella casa di cura infatti egli sentiva di poter attuare il suo ultimo proposito: “Scomparire il più discretamente possibile”.

    Quando Roger Federer due settimane fa ha fatto il suo ingresso nella O2 Arena di Londra per il dodicesimo Masters Final consecutivo della sua carriera, il suo palmares contava 17 vittorie nelle prove dello Slam, 302 settimane da numero 1 in classifica e oltre 78 milioni di dollari di montepremi vinti. Cifre mai raggiunte da nessun altro. I numeri però non raccontano dell’allure di talento e bellezza con cui questo schivo svizzero è stato capace di mettere d’accordo tutti gli addetti ai lavori e le leggende del passato del tennis, costernate oggi, gli uni come le altre, nel vedere il loro campione vittima di acciacchi e sconfitte, sacrifici inevitabili da tributare all’avanzata del tempo.

    Per chi era abituato a vedere il nostro campione affrontare le finali più prestigiose del circuito professionistico riducendole al rango di allenamenti agonistici, scorrere il tabellino dei suoi risultati in questo travagliato 2013 è un’esperienza di dolore. Quarantacinque vittorie e diciassette sconfitte. Si dirà: quasi il triplo di vittorie. Ma le vittorie contano poco se collezionate col pallottoliere del computer Atp, che ai giocatori meglio piazzati riserva sempre sorteggi favorevoli quand’anche questi non decidano di deragliare dalla solita programmazione in favore di qualche apparizione in tornei meno prestigiosi bisognosi di più pubblicità. Sono le sconfitte a stupire, quelle arrivate in qualche anonimo ottavo di finale contro modesti numeri 30 o 40 del mondo, avventurose wild card di primo turno, giocatori che fino a qualche anno fa perdevano da Federer 6-0, 6-0 ed erano ugualmente contenti di essere scesi in campo per palleggiare insieme a lui.

    Per fortuna c’è la medicina ad alimentare ancora un po’ di speranza. Perché se è vero, come sostiene Roger, che i suoi ultimi pessimi risultati sono figli del riacutizzarsi di un infortunio alla schiena mai curato a dovere, allora basterà solo un po’ di riposo intervallato a qualche puntura miracolosa per ritrovare la confidenza perduta. Ma se, come sostengono in molti, quello scricchiolio lombare altro non è che la prima avvisaglia di una decadenza fisiologica (crudelmente amplificata dalla vigoria giovanile dei suoi ultimi rivali), allora non c’è scienza che possa arrestare questo processo. E cambiare la racchetta, sostituire il proprio allenatore, rivedere i propri impegni, sono solo estremi e teneri tentativi per provare a fermare qualcosa che sentiamo sfuggirci via.

    Poi accade però che dopo la sconfitta in semifinale a Londra sia lo stesso Federer a prendere la parola per dire di aver sempre saputo “che anno dopo anno tutto sarebbe diventato più difficile. Non si può continuare a giocare e vincere ogni partita. Ed è per questo che trovo tutto ciò intrigante. Voglio vedere come riesco a gestire questa nuova situazione, se riesco a continuare a combattere. Addirittura posso dire che è anche divertente, in un certo senso è come tornare al passato. Parlando di questa stagione, che mi ha visto scivolare alla posizione numero 7, vi dico solo che la schiena mi ha tormentato. Se quest’inverno riuscirò a lavorare bene, sono sicuro che tornerò a lottare per vincere (…). Sto già programmando il 2015”.

    Commuove la sottile contraddittorietà di questa affermazione: trovare intrigante il non riuscire a vincere ogni partita e trarre divertimento da questa nuova condizione d’incertezza. Certo, c’entra l’amore per il gioco, il volersi ancora sentire parte di un mondo rutilante e in itinere come quello dei professionisti, meglio ancora se con moglie e figlie gemelle al seguito. Se De Coubertin approva, a Olimpia non saranno però felici nel vedere uno dei loro eroi eponimi ridotti al rango di comune mortale, non più giovane e bello, ma stanco e incerto, continuare a impolverare i suoi allori.

    Precipitato nel mondo del tennis quando questo aveva ormai abbandonato la bellezza del gesto e la delicatezza del tocco in favore di una diffusa quanto rozza muscolarità, Federer ha giocato con “nobile semplicità e quieta grandezza” (copyright J. J. Winckelmann) assecondando, e non contestando, quella che era ormai diventata la cifra del gioco moderno. Allo sforzo oppose l’imperturbabilità (non sudava mai, Federer), a quelle racchette impugnate come bastoni rispose con i fondamentali appresi dai manuali e dai primi maestri (qui dimostrando, ancora, come non sia lo sport a doversi piegare alle specificità dell’uomo, ma l’uomo a esser giocato dallo sport che ha scelto di praticare). I suoi servizi, come i suoi colpi da fondo campo, viaggiavano ugualmente a 200 chilometri all’ora, ma era come se dal suo volto fossero assenti tensioni e contrasti. Unica concessione la mano con cui era solito sistemarsi i ciuffi dietro alle orecchie. Lo svizzero ha così fatto sua la lezione di Lucrezio, che desideroso di scrivere il poema della natura e della consistenza finì col celebrarla laddove essa andava invece dissolvendosi: il pulviscolo che turbina nei raggi di sole, le ragnatele invisibili su cui inciampano i nostri occhi, le conchiglie infinite sul bagnasciuga. Vedete, ci dice Lucrezio, ci sono anche loro, anche se non ve ne accorgete. E così Federer.

    Valga per tutti il match point annullato in finale a Wimbledon nel 2008 contro Nadal. Sotto due set a uno, e nel pieno della bagarre di un tie break che lo vedeva rincorrere 8-7, Federer risponde banalmente alla prima di servizio del suo avversario. La palla rimbalza annoiata nella metà campo di Nadal, al centro dei due quadrati che delimitano le aree di servizio. Lo spagnolo si avventa sulla palla. E’ come se nella sua testa già sentisse il rullo di tamburi che accompagna un’esecuzione. Deve solo aspettare che arrivi all’altezza giusta e farsi trovare lì per colpirla con il suo dritto in topspin che nella stessa partita gli è già valso qualche decina di punti. Ha tutto il campo davanti a sé, basta aprire la racchetta. Invece decide di incrociare. E tira laddove Federer è rimasto dopo la sua risposta. Confida, lo spagnolo, che potenza, effetto, angolazione e precisione impressi al suo colpo siano sufficienti per forzare l’errore del suo avversario. Si gioca sull’erba, la palla schizzerà via come un ciottolo sull’acqua al primo rimbalzo. Sì, magari potrebbe colpirla – pensa Nadal – ma la palla scivolerà docile e rasoterra a rete o decollerà via sulla tribuna alle spalle dell’arbitro. Di sicuro in campo non ci resta, dice Nadal mentre carica il colpo. Il riflesso di Federer è immediato, così come la torsione delle sue spalle. Equilibrio e lombari sono in lui ancora un’equazione perfetta. Il braccio è teso e il movimento dura un istante. Quello che impiega la pallina a sfilare sopra alla rete e alla destra di Nadal che, immobile, può solo togliersi le ultime ragnatele dagli occhi con il suo polsino.

    Ora, colpi come questo sono colpi che uno come Roger Federer continuerà a mettere a segno. Fosse anche solo un punto a partita, debilitato da un busto ortopedico o fasciato in comode scarpe da barca: Federer riuscirà sempre a imprimere a un gesto un significato di meraviglia che non avrebbe potuto essere altrimenti. Bello e buono sono categorie necessarie (non sempre), ma non indispensabili per eccellere nello sport. Consistenza, efficacia, costanza sono i mattoni su cui si costruiscono solide carriere. Il privilegio di esser stati contemporanei di Federer è quello di aver assistito al momento in cui la bilancia del tennis ha dovuto ricalibrare le unità di misura in sua funzione. Oggi anche gli altri si sono adeguati. E Federer ha qualche anno in più.

    Si comprende la delicatezza di questo momento. Nella testa, tutto è ancora integro: traiettorie, strategie, colpi. E’ il corpo a non rispondere più come si vorrebbe: riflessi, giunture, cartilagini. E in questa rincorsa tra ciò che si è stati e quel che siamo diventati, si rischia di finire prigionieri di un labirinto in cui ogni colpo mancato, ogni errore gratuito concesso al nostro avversario, diventano lo specchio deforme dei nostri giorni migliori. Un appuntamento mancato con se stessi, un sogno che al mattino si fa fatica a ricordare: una vaga sensazione di disagio e un umore già impiastrato di grigio.

    Provare a risalire questa china si può. Ma non sempre è la cosa migliore. Ci sono sport come la boxe che sul disagio e la disperazione dei loro idoli hanno costruito saghe dell’intrattenimento il cui unico scopo è stato invece quello di demolire anche l’ultima scia di bellezza che quei titani avevano lasciato dietro di sé. Anche Muhammad Ali, il più grande di tutti, ci è cascato. Altro grande divulgatore della lezione di Lucrezio – riscrivere la fisicità della boxe attraverso la sua dissoluzione, “volo come una farfalla, pungo come un’ape” – Ali resta sul ring fino agli anni Ottanta continuando a incrociare colpi contro pugili molto più giovani e affamati di lui. Uno degli ultimi, Larry Holmes, lo scuote di pugni per dieci round. Ascoltato il verdetto dei giudici, Holmes si dirige verso Ali per sussurrargli qualcosa all’orecchio. Poi, rientrato negli spogliatoi, si mette a piangere.

    Bisogna saper scegliere in tempo, recitava una canzone, e non arrivarci per contrarietà. Perché Kronos è padre che non fa sconti e che continua a inghiottire i suoi figli. O al massimo concede loro esìli di cartapesta in qualche circo sgarrupato dove continuare a coltivare l’illusione di fare ancora prodezze in sella accalappiando bisonti al lazzo. Un salto giù dal cavallo, il sapere che non ti ha abbondanato e che ti fa ancora intrecciare nodi inestricabili alle zampe dell’animale. Bene, bravo, bis. E però qualcosa manca. La terra non ti trema più sotto i piedi e nell’applauso che parte dagli spalti non c’è nessun segno di gratitudine.

    Meglio sarebbe allora ritirarsi, salutare le scene ancora integri e competitivi, senza regalare a qualche sconosciuto amatore la storia della vita, di quelle che si raccontano a Natale e non si è mai stanchi di raccontare e di quella volta che ho battuto Roger Federer. Prenda esempio da un altro grande del passato come Björn Borg, che neanche ventisettenne con sei Roland Garros e cinque Wimbledon in bacheca, decise che ne aveva avuto abbastanza e si congedò dai campi facendo piombare tifosi e avversari in un pozzo di sconforto. Ombroso e inquieto com’era (lo chiamavano “l’orso”), Borg si arrese infine al tedio e inscenò un comico rientro sui campi durato per sua e nostra fortuna un solo anno. Le vicende della sua vita privata, tra divorzi e patrimoni dilapidati, aggiunsero decadenza a decadenza rendendo oltremodo insopportabile il paragone con quello che fu. Ma Federer è persona equilibrata che ha da tempo abbandonato schiamazzi e capricci adolescenziali. E’ un ambasciatore del tennis ancora in attività, rispettato dai suoi avversari e venerato dai tifosi, e moglie e figlie non sembrano aver ancora spento in lui la sacra fiamma dell’agonismo. Deponga gli ultimi sforzi, allora, e faccia come Michel Platini che aveva la sua stessa età quando disse basta al calcio, al sudore e alla fatica. Capitano della Francia campione d’Europa, pluriscudettato in Italia ed eletto per tre anni consecutivi miglior giocatore d’Europa: a cosa poteva aspirare di più Michel per la sua carriera?

    Se ancora non dovesse essere convinto, Federer allora si rilegga Walser e ciò che scriveva riguardo a un altro lucidissimo talento che decise di ritirarsi dalla scena ancora nel pieno della sua ispirazione: “Hölderlin – scrive Walser – giudicò conveniente, anzi riguardoso, rinunciare a quarant’anni di età al proprio sano intelletto: con ciò offrì a molti l’occasione di compiangerlo nella maniera più dilettevole e gradevole. La commozione è qualcosa che fa bene alla salute, e perciò è bene accetta”.

    di Ronald Giammò