Debolezze domestiche e strapotere tedesco: così cresce la germanofobia francese

Marco Valerio Lo Prete

“Sans la France, l’Allemagne fait peur. Mais sans l’Allemagne, la France fait rire”. Tradotto: “Senza la Francia, la Germania fa paura. Ma senza la Germania, la Francia fa ridere”. Il presidente della Repubblica francese, Nicolas Sarkozy, una volta lo disse all’orecchio di un suo ministro. Accadde in una delle fasi più drammatiche della crisi greca, quando l’ex inquilino dell’Eliseo fece capire che non poteva smarcarsi dalle posizioni della cancelliera Angela Merkel.

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    “Sans la France, l’Allemagne fait peur. Mais sans l’Allemagne, la France fait rire”. Tradotto: “Senza la Francia, la Germania fa paura. Ma senza la Germania, la Francia fa ridere”. Il presidente della Repubblica francese, Nicolas Sarkozy, una volta lo disse all’orecchio di un suo ministro. Accadde in una delle fasi più drammatiche della crisi greca, quando l’ex inquilino dell’Eliseo fece capire che non poteva smarcarsi dalle posizioni della cancelliera Angela Merkel. Ancora oggi quella confessione continua a tormentare l’establishment francese. E il tormento si aggrava ogni volta che i dati macroeconomici allontanano Parigi da Berlino. Al punto che ora perfino nell’élite francese s’ode qualche voce suggerire l’impensabile: il motore franco-tedesco non funziona più, l’euro va abbandonato prima che il paese guida dell’Eurozona fagociti (di fatto) l’alleato di sempre.

    Nel terzo trimestre del 2013, il pil di Parigi è calato dello 0,1 per cento, allontanando quella ripresa di cui si era parlato a metà anno: il tasso di crescita sarà di due punti decimali nel 2013, poi dello 0,9 nel 2014. Proprio in queste settimane, in cui l’economia tornava a frenare e il debito pubblico veniva declassato nuovamente da Standard & Poor’s, mentre i focolai di rivolta anti tasse si ravvivano in tutto il paese e la popolarità del presidente François Hollande invece crollava ai minimi storici, ha fatto discutere l’uscita del libro “La fin du rêve européen” (Editions Stock), di François Heisbourg. Che “il sogno dell’euro” sia a rischio “fine” non era difficile prevederlo, nel paese dove il Front national da una parte e i partiti della sinistra anticapitalista dall’altra volano nei sondaggi pre-elezioni europee. Più difficile però sostenere certe tesi se si è membri dell’establishment, come nel caso di Heisbourg, europeista della prima ora, favorevole alla moneta unica quando la stessa fu concepita, presidente del blasonato International Institute for Strategic Studies (Iiss). Il problema è più grave della prolungata stretta sui conti pubblici, scrive lo studioso: “L’eventuale addolcimento della politica di austerity condotta a livello della zona euro forse permetterà di guadagnare tempo prezioso. Ma non risolverà il problema fondamentale dell’euro, quello di essere la moneta federale di un’Unione che non è una federazione”.

    Moneta “senza demos”, questo è l’euro secondo lo studioso. Gli europeisti, se vorranno tenere la moneta unica, non solo dovranno far prevalere il federalismo sulla democrazia – visto che i popoli non sembrano volerne sapere – ma poi dovranno pure costringere Berlino a “condividere la sua carta di credito”, cioè a garantire i debiti dell’Europa del sud. Missione impossibile, insomma, meglio finirla qui secondo Heisbourg. Non è l’unico a pensarla così. L’economista Steve Ohana ha appena pubblicato un altro libro, “Désobéir pour sauver l’Europe” (Editions Max Milo), con tanto di prestigiosa prefazione a cura di Jacques Attali. “La Francia non è il malato d’Europa – si legge nel testo – Essa è semplicemente malata di troppo euro”. Le tesi del premio Nobel statunitense Paul Krugman, secondo cui l’Ue perisce per eccesso di austerity e carenza di Banca centrale con poteri di prestatore di ultima istanza, sono tra le più citate nel volume. Da sinistra, critica l’euro anche Jacques Sapir, uno dei direttori della École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, che recentemente ha messo in guardia dall’“abbassamento dei costi salariali” in corso in paesi come Spagna e Portogallo, una tendenza che rende ancora meno competitiva la Francia: se il paese vuole evitare “una svalutazione interna” che porterebbe il tasso di disoccupazione al 16-18 per cento, allora l’unica via è quella della “dissoluzione della moneta unica” per “svalutare del 23 per cento”, rendere in questo modo i prodotti di Parigi più convenienti e “migliorare la nostra competitività rispetto alla Germania, i cui avanzi commerciali destabilizzano l’economia europea”.

    Berlino dunque è onnipresente in queste riflessioni: nel libro del fu europeista Heisbourg, si sostiene che “il giardino kantiano” costruito negli scorsi decenni per evitare nuove guerre fratricide è diventato troppo stretto per Francia e Germania; Sapir invece utilizza spesso la prima economia dell’Eurozona come termine di paragone: la deindustrializzazione francese non si ferma, “un impatto legato tanto alla perdita di competitività rispetto alla Germania (che è stata la prima a operare una svalutazione interna, tradendo il contratto implicito su cui l’euro si era fondato), quanto alla perdita di competitività rispetto alla zona del dollaro e legata al significativo apprezzamento dell’euro rispetto al dollaro a partire dal 2003”. Il politologo ed economista tedesco Henrik Uterwedde, in un saggio appena pubblicato dall’Institut français des relations internationales nell’ambito del Comitato di studi sulle relazioni franco-tedesche finanziato direttamente dai due governi, tenta di tracciare convergenze possibili tra i due paesi, ma non può fare a meno di notare che “mentre la Germania è in gran parte riuscita a superare le sue debolezze economiche con riforme e aggiustamenti strutturali, e conosce oggi una nuova dinamica di crescita e occupazione, la Francia lotta ancora contro la stagnazione, la deindustrializzazione e la diminuzione della competitività”. Scrive ancora Uterwedde: “Le divergenze strutturali dei due modelli economici, ma anche e soprattutto gli orientamenti differenti delle loro politiche economiche, sono responsabili di questo scarto tra i due paesi”. Qualche esempio? Il tasso di occupazione, cioè il rapporto tra gli occupati e la popolazione in età di lavoro, in Germania è passato dal 65 per cento del 1980 al 71 per cento del 2010, mentre in Francia è oggi al 64 per cento. Nel 2000, la produzione industriale francese equivaleva al 50 per cento di quella tedesca, oggi è pari al 40 per cento. Nel 1998, le esportazioni francesi erano il 56 per cento di quelle tedesche, oggi sono scese al 40.

    Secondo Pierre Briançon, direttore per l’Europa di Reuters Breaking news, “quelli che criticano la Germania hanno ragione: vivere in un’unione monetaria presuppone la reciprocità – ha scritto sul Monde nel fine settimana – Ma è comprensibile la sfiducia di Berlino, dove c’è il timore che l’irresponsabilità riprenda piede in Europa quando la crisi sarà finita. La Merkel ha qualche ragione ad aver trasformato la Francia, con la sua economia indebolita e il suo governo fiacco, nella propria grande preoccupazione personale. E si può dire che Hollande non stia facendo nulla per rassicurarla”.

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