
Shakespeare tra bulli e droghe e un sublime Ibsen girato da Demme
Con l’arrivo del nuovo film di Jonathan Demme, “Fear of Falling” (CinemaXXI), il quoziente d’intelligenza del festival schizza parecchi metri sopra la media già alta di Marco Müller (facciamo senza complessi i “culture-vultures” ma pour cause). E’ l’adattamento de “Il costruttore Solness” di Henrik Ibsen, un indimenticabile, singolarissimo matrimonio tra teatro e cinema sublime da non perdere se si vuol tenere in ordine le credenziali culturali.
di Mariarosa Mancuso e
I CORPI ESTRANEI di Mirko Locatelli, con Filippo Timi (concorso)
Dicono che vincerà. Quindi comincia con un tergicristallo ripreso in tempo reale. Filippo Timi accudisce il piccino all’ospedale, poi scende nel parcheggio e in macchina ascolta le informazioni sul traffico. Un ragazzino arabo, nello stesso ospedale, accudisce un amico. Il galleggiante dello sciacquone si rompe. La batteria della macchina si scarica. Un olio (forse) miracoloso viene massaggiato sul braccio del malatino. I due maschi si guardano e si chiamano per nome. Fine.
QUOD ERAT DEMONSTRANDUM di Andrei Gruzsniczki, con Ofelia Popii (concorso)
I rumeni non deludono. Bianco e nero, per riprodurre la cupaggine del 1984. Non quello immaginato da Orwell. Quello reale, dove pubblicare un articolo su una rivista americana di matematica dava diritto a una spia tutta tua alle calcagna. Code per il cibo, automobili spinte fino al distributore, rumorosissime macchine tritadocumenti, le cimici nel telefono. Sospetti, tradimenti, valigie con doppio fondo: una versione da camera di “Le vite degli altri”. Dirige un allievo di Lucian Pintilie, che ricordiamo per “Il pomeriggio di un torturatore”.
ACRID di Kiarash Asadizadeh, con Roya Javidnia (concorso)
Prima tutti imitavano il neorealismo pauperista di Abbas Kiarostami: bambini, quaderni di scuola, tutt’al più una bicicletta. Dopo l’Oscar a “Una separazione” tutti imitano il realismo borghese di Asghar Farhadi. “Acrid” è un girotondo più marcio che allegro (siamo in Iran, non nella Vienna di Arthur Schnitzler). Donne maltrattate e maschi impresentabili, ovviamente a nessuno scappa mai un sorriso.
ROMEO AND JULIET di Carlo Carlei, con Hailee Steinfeld (fuori concorso)
Girato in Italia, nei luoghi della tragedia! Come se Shakespeare fosse un giallista specializzato in “true crime”: veleni, droghe, adolescenti perversi, bullismo. Come se fosse un cretinetto “vivo-e-scrivo” sul modello di “Mangia, prega, ama” (con servetta baffuta, in una Roma dove per lavarsi ci sono brocca e catino). Ridateci Baz Luhrmann.
di Mariarosa Mancuso
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Con l’arrivo del nuovo film di Jonathan Demme, “Fear of Falling” (CinemaXXI), il quoziente d’intelligenza del festival schizza parecchi metri sopra la media già alta di Marco Müller (facciamo senza complessi i “culture-vultures” ma pour cause). E’ l’adattamento de “Il costruttore Solness” di Henrik Ibsen, un indimenticabile, singolarissimo matrimonio tra teatro e cinema sublime da non perdere se si vuol tenere in ordine le credenziali culturali. Demme si è innamorato dell’opera elaborata durante dieci anni di workshop da due collaboratori straordinari: André Gregory, attore e regista di teatro d’avanguardia senza pari (sono 35 anni che fa spettacoli solo per un pubblico di invitati) e Wallace Shawn, attore, comico, saggista, doppiatore (in “Toy Story” è il dinosauro) commediografo (“The Designated Mourner”, “Grasses of a Thousand Colors”). Noti per film affascinanti di classe come “La mia cena con André” e “Vanya sulla 42esima strada” diretti da Louis Malle (con adattamento del secondo da Chekhov di David Mamet) sono geniali New York intellectuals al cubo. Al seguito di Demme sul red carpet c’era la raffinata scrittrice Deborah Eisenberg (tra i tanti premi, un MacArthur Award), compagna di sempre di Shawn (il capomastro Solness come elfo diabolico, mentre Gregory è Brovik) i produttori Scott Griffin (impresario di “Resurrection Blues” di Arthur Miller) e Rocco Caruso, Lisa Joyce (una stupefacente Hilda) e Jeff Biehl (lo stralunato Ragnar). L’ormai celeberrimo Ibsen scrive la pièce su un tirannico capomastro-architetto che teme e ostacola l’ascesa del suo pupillo Ragnar, mentre sente il fiato del più giovane collega August Strindberg sul collo. Demme & co. erano emozionatissimi: era la primissima proiezione per il pubblico. Standing ovation dopo e “Happy Birthday” cantato in coro per i settant’anni di Wally (figlio del mitico direttore del New Yorker William Shawn). Stupendo il CineChat con Spike Jonze (Studio Universal). Alla complicata, lunga domanda del moderatore se “Her” parla dell’individuo oggi onnipresente virtualmente su chat, social network, Twitter blablà, il mai deludente Jonze, perplesso: “Non capisco la domanda; il film parla di intimate relationships” (rapporti d’amore).


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