
Una lezione a Reality e l'arrivo del film salvifico al Festival di Roma
E’ arrivato il film salvifico del Festival di Roma. I primi del concorso – “Dallas Buyers Club” escluso – erano così appiattiti sullo “specifico filmico” che l’orologio, consultato troppo spesso, sembrava fermo. Poi è arrivata “her” (sic), che conferma Marco Müller gran direttore di festival. La cagnetta sembrava Uggie, il Jack Russell di “The Artist”, tanto si era rotolata per terra, aveva scodinzolato, guaito, tip-tappato sulle zampe per “her” al Festival di New York, pur zeppo dei migliori film di Berlino, Telluride, Sundance, Cannes (fratelli Coen, Abdellatif Kechiche, James Grey, Alexander Payne, eccetera).
di Mariarosa Mancuso e
HER di Spike Jonze, con Joaquin Phoenix (concorso)
In un futuro non troppo lontano, quando Los Angeles avrà i grattacieli di Shanghai, la fidanzata 3.0 saprà ogni cosa di te. Quindi sarà bravissima a compiacerti, quando lo vorrà: ella infatti è il sistema operativo del tuo avanzatissimo smartphone, con la voce sexy di Scarlett Johansson. La fidanzata 3.0 ne approfitterà per leggere le tue mail, curiosare nella tua causa di divorzio, e assillarti con una scenata di gelosia. Bravissima anche in questo, quando lo vorrà. Proprio come i vecchi modelli umani. Bravissimo, e paziente, Joaquin Phoenix.
DALLAS BUYERS CLUB di Jean-Marc Vallée, con Matthew McConaughey
Mezz’ora è di troppo. Le cattive multinazionali farmaceutiche basta nominarle e lo spettatore già si indigna. Qualche sperimentazione bisogna pur farla, mica possiamo contare sul malato che fa guerra ai colossi e trova la cura (le dosi, per la verità, la sostanza era giusta). Matthew McConaughey malato di Aids ha perso i chili che servono per l’Oscar. Jared Leto ha i vestitini a fiori e le ciglione, sexy anche con le calze smagliate.
SONG’E NAPULE di Manetti Bros, con Alessandro Roja (fuori concorso)
Una lezione a “Reality” (qui ci sono le scene che mancavano al film di Matteo Garrone) e al Stefano Piedimonte, che nel romanzo “Nel nome dello zio” tentò – con più calcolo che gusto per il pop – di mischiare camorra e Grande Fratello. Il diplomato al Conservatorio, poliziotto raccomandato, si infiltra come tastierista del neomelodico Lollo Love. Canta le serenate alle ragazze affacciate al balcone di mattoni forati, e suonerà al matrimonio della figlia di un boss.
WHO IS DAYANI CRISTAL? di Marc Silver, con Gael García Bernal (Alice nella città)
Nuove frontiere dell’impegno. Gael García Bernal dorme per terra sui cartoni, sale con i clandestini sul tetto dei merci che attraversano il Messico, mangia alla mensa dei poveri. Stesso percorso dei tre ragazzini nel film “La gabbia dorata” di Diego Quemada-Diez (nelle sale). Di solito è la fiction, a spingere il pedale della retorica. Qui se ne incarica il documentario del messicano più famoso a Hollywood.
di Mariarosa Mancuso
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E’ arrivato il film salvifico del Festival di Roma. I primi del concorso – “Dallas Buyers Club” escluso – erano così appiattiti sullo “specifico filmico” che l’orologio, consultato troppo spesso, sembrava fermo. Poi è arrivata “her” (sic), che conferma Marco Müller gran direttore di festival. La cagnetta sembrava Uggie, il Jack Russell di “The Artist”, tanto si era rotolata per terra, aveva scodinzolato, guaito, tip-tappato sulle zampe per “her” al Festival di New York, pur zeppo dei migliori film di Berlino, Telluride, Sundance, Cannes (fratelli Coen, Abdellatif Kechiche, James Grey, Alexander Payne, eccetera). Ma solo il film di Spike Jones con il mega-watt, super-wow Joaquin Phoenix ha fatto schizzare il cuore nella stratosfera. Eravamo un poco trepidanti di controllare se l’entusiasmo cosmico avrebbe retto alla seconda visione del film di Spike Jonze sull’amore virtuale tra un umano e un Sistema Operativo senziente, dialogante, accarezzante, spiritosa, sensuale. La risposta è un sonoro sì. Visto senza dover seguire la trama con l’attenzione della prima volta, si notano molte più delizie visive e sonore. Alla conferenza stampa c’erano Rooney Mara (“The Social Network”, “The Girl With the Dragon Tattoo” di David Fincher) il regista e Joaquin in grandissima forma. Allergico al conformismo, è noto per comportamenti bizzarri (tutt’altro che incomprensibili) verso i riti tritacarne dello star system. Una giornalista ineffabile gli chiede giuliva “tre aggettivi” per descrivere il film e il suo ruolo. Senza un attimo di pausa Phoenix alza le spalle, “Non so cosa sia un aggettivo…”. Una risata fragorosa sommerge la “collega” ignara, fiera di riferire il suo exploit al bar, sbuffando che per lei “her” era incomprensibile. La quadrupede abbaia nel microfono che prevede candidature plurime all’Oscar per il film; Joaquin minimizza indicando la cagnetta dell’encomio: “Ed ecco a voi mia zia!”. L’incontro con Jonathan Demme (“Silenzio degli Innocenti”, “Something Wild”, “Rachel Getting Married”) era denso di chicche; la più utile è la risposta su cosa è essenziale per fare un buon film: “The story-telling”. “Se non racconti bene la storia, perdi l’attenzione del pubblico… ogni altra cosa è ancillare”.


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