
Padri comici e spaventati
Sono le sette e trenta del mattino, la colazione è pronta, la quindicenne arriva in cucina, lasciando dietro di sé, in corridoio, sul pavimento, la scia dei vestiti che ha provato ma non l’hanno convinta. Come i sassolini di Pollicino, la scia di cotone, felpa, acrilico e jeans arriva fino all’armadio della camera da letto, poi fa una curva ed entra in bagno, dove giacciono quattro scarpe, cinque calze e due asciugamani molto bagnati. La madre non ci fa caso, non ci si può rovinare la giornata già a quest’ora del mattino, pensa: magari poi raccoglie tutto, amore della mamma. Camilla, dài, devi chattare anche a quest’ora?
Sono le sette e trenta del mattino, la colazione è pronta, la quindicenne arriva in cucina, lasciando dietro di sé, in corridoio, sul pavimento, la scia dei vestiti che ha provato ma non l’hanno convinta. Come i sassolini di Pollicino, la scia di cotone, felpa, acrilico e jeans arriva fino all’armadio della camera da letto, poi fa una curva ed entra in bagno, dove giacciono quattro scarpe, cinque calze e due asciugamani molto bagnati. La madre non ci fa caso, non ci si può rovinare la giornata già a quest’ora del mattino, pensa: magari poi raccoglie tutto, amore della mamma. Camilla, dài, devi chattare anche a quest’ora? Facciamo colazione insieme, parliamo un po’, ti verso il caffè. La ragazza sta muovendo velocissima il pollice sullo smartphone, il pollice non è più un pollice ma una persona molto indaffarata, insonne, un dito più importante di Barack Obama, il dottor dito della comunicazione. Il signor dito si ferma per un momento, infastidito dall’interferenza, e manda un impulso al cervello della ragazza, che guarda sua madre e dice: ma di che dovremmo parlare, scusa? Poi massaggia il dito, come a dirgli: non farci caso, è solo mia madre, e il dito ricomincia a lavorare, febbrile. Non c’è tempo per raccogliere la scia dei vestiti, solo pochi minuti per dare un calcio a una scarpa in bagno perché i capelli, oggi, fanno davvero schifo. La ragazza e il suo dito destro escono di corsa, entrambi chini sul telefono, urlano ciao dopo aver lasciato, come messaggio finale, una spazzola sul tavolo della cucina, in mezzo ai biscotti. Il padre lava le tazze, la madre raccoglie i vestiti, non si guardano ma si chiedono, all’unisono, senza dirlo: ma chi è? da dove è uscita? E subito dopo: è colpa mia. Se è diventata un alieno con troppo eye liner, con quel dito prensile e scattante che mi sembra anche più grosso dei nostri pollici di una volta. Sicuramente Darwin parlerebbe di un’evoluzione del dito, ma allora perché quel cazzo di dito evoluto non lo usa anche per spostare la sua tazza dal tavolo al lavello? Sono venticinque centimetri d’aria, la cucina è piccola, potrebbe farcela. Potrebbe perfino sciacquare la tazza sporca di lucidalabbra appiccicoso alla fragola e caffè, metterla in lavastoviglie. E magari darmi un bacio, non con il dito, con la bocca anche piena di lucidalabbra appiccicoso alla fragola. Il pensiero successivo è: non ci ho parlato abbastanza? Ci ho parlato troppo? Non sono stato autorevole, ironico, carismatico, distaccato ma presente? Non sono stato un esempio, ho fatto troppi esempi? Avrei dovuto metterla in punizione quella volta che mi ha detto: stronzo? Il tormento davanti al mondo compatto dei figli cresciuti, adolescenti, appena maggiorenni, ancora con gli zaini della scuola da lanciare ogni volta in un nuovo angolo della casa, appartiene soltanto ai genitori: i figli stanno dentro un altro irraggiungibile mondo, sono solo sfiorati da quegli sguardi smarriti, da quel modo (se solo se ne accorgessero, lo troverebbero patetico) che hanno i genitori di specchiarsi nella giovinezza degli altri, di cercare le analogie con la loro, le differenze, i peggioramenti.
E di cercare un passaggio segreto per entrare nella testa de “Gli sdraiati” (Feltrinelli): è il titolo del nuovo libro, autobiografico ma collettivo, di Michele Serra, ed è la definizione precisa, fulminante, dell’esercito di figli sdraiati dappertutto: sul divano, sul pavimento, a letto mentre studiano, sdraiati alla scrivania, sdraiati a tavola (“Quando ero incinta di mia figlia e parlavo con le altre madri in attesa, piene di certezze sui valori da insegnare ai bambini che sarebbero nati – racconta la madre della ragazza di quindici anni con la scia luminosa dei vestiti dietro di sé – io dicevo, scherzando, che mi sarebbe bastato insegnarle a stare composta a tavola. Mia figlia mangia come un carrettiere, e spesso mangia sdraiata”). Michele Serra osserva il suo personale ma assoluto, amatissimo Sdraiato, anzi lo chiama al telefono e quello naturalmente non risponde, lascia squillare a vuoto (“Una fragilità materna, non preventivata, rammollisce il mio aplomb virile. Mi rendo conto di sommare le due debolezze: la smania protettiva della Madre, le pretese di rettitudine del Padre. Mi vedo soccorrerti e contemporaneamente sgridarti: caricatura schizofrenica dell’autorità”). E’ l’autorità che manca, nel ponte levatoio che serve a passare dal mondo pesante dei genitori ingobbiti per l’ansia a quello lieve e pieno di briciole dappertutto degli Sdraiati? L’autorità contro cui ci si è ribellati, la durezza sconvolgente che esercitava, ad esempio, il padre di Oriana Fallaci: nella biografia di Oriana scritta da Cristina De Stefano c’è il ricordo più vivo dei quindici anni di Oriana, staffetta partigiana: sta camminando con il padre in una strada di Firenze e viene sorpresa da un allarme antiaereo, si rifugiano dentro un edificio, Oriana resta raggomitolata su se stessa, non osa abbracciare il padre, ma quando cominciano a cadere le bombe scoppia a piangere.
Suo padre le dà uno schiaffo: una ragazza non piange, le sibila. Subito dopo avere letto questo aneddoto, bisogna leggere “Gli sdraiati”, per riprendersi. “Autorità: attorno a questa parola organizzo, da quando sei nato, convegni tanto pomposi quanto inconcludenti. Ognuno dei relatori ha la mia faccia, è un’assemblea dei miei cocci intellettuali che cercano la perduta unità, rinfacciando agli altri la loro insipienza. Titolo ideale di questa farraginosa convention dovrebbe essere: quante volte invece di mandarti a fare in culo avrei dovuto darti una carezza. Quante volte ti ho dato una carezza e invece avrei dovuto mandarti a fare in culo”. E’ la prima pagina del libro, e contiene già tutto: la confusione, il senso di colpa, l’ansia, ma anche la stronzaggine di chi ha sempre quel cavolo di telefono in mano e non risponde mai. Sono suo padre, sono sua madre, gliel’ho comprato io quell’aggeggio (una pragmatica madre americana, nel regalare l’iPhone al figlio adolescente, gli fece firmare un contratto privato. Regola numero uno: non ignorare mai una chiamata quando sullo schermo leggi “mamma” o “papà”. Mai. E’ un telefono, sta suonando. Rispondi. Regola numero due: saprò sempre la password. Regola numero tre: se ti cade nel water, lo rompi, lo perdi, lo paghi tu. Fiorello, più realisticamente, lancia appelli perché gli adolescenti con le dita incollate al touch screen trovino il tempo di scrivere ai genitori almeno due parole, meglio se ogni ora: “Sono vivo”).
Così l’incipit universale della guerra sfinente fra Giovani e Vecchi (dove per essere Vecchi basta essere genitori, visti con lo sguardo di un figlio, negli attimi di passeggera, velocissima curiosità, che un figlio concede: mamma non ti puoi mettere quella gonna, sei vecchia. Mamma ma voi non uscite mai, che vita miserabile, siete vecchi, mamma ma che palle la vendemmia nelle Langhe, andateci voi che siete vecchi), l’incipit definitivo, struggente, rassegnato a questa distanza è: “Ma dove cazzo sei?”. Subito dopo, il ridimensionamento delle aspettative. Anche una parodia dei Comandamenti che un figlio dovrebbe seguire, anche pochissimo, basterebbe. Michele Serra lascia in giro biglietti “comicamente imperativi”, delle specie di suppliche camuffate da ironia affettuosa, sul frigo, in bagno, sulla porta d’ingresso: “Prima di uscire, controlla di avere lasciato accese tutte le luci di casa!”, “Verificare lo stadio di decomposizione dei cibi prima di ingoiarli”, “Il water marezzato di merda è un’installazione artistica o mi è consentito pulirlo?”, “Lasci i tuoi peli nel bidè per motivi religiosi?”, “Per piacere, se passi dal ferramenta compra uno scalpello, dobbiamo rimuovere dal lavandino i tuoi sputi di dentifricio calcificati”.
E’ un libro che fa ridere, e fa sentire anche una sofferenza. Riesce a tenere entrambe le cose insieme, perché forse è davvero così, che ci si sente: la sofferenza di essere smarriti, quasi falliti di fronte alla montagna altissima, ma sdraiata sul divano, di questa giovinezza che non ha nemmeno bisogno di ribellarsi, dovrebbe sentirsi sollevata di dovere soltanto lasciare pulito il water, e la comicità che sta dentro le cose della giovinezza, quelle scarpe gigantesche, scafi di gomma imbottita in qualunque stagione, in qualunque luogo della terra, l’indifferenza suprema al giro che fa la terra intorno al sole, e quindi la capacità di dormire sempre oppure mai, di solito in contrapposizione al resto del mondo, l’attacco di panico che, in altre vite, altre voci, altre stanze, prende la madre della quindicenne quando la quindicenne annuncia: faccio il bagno. Perché fare il bagno significa usare tutti gli asciugamani del bagno, e lasciarli poi bagnati per terra, insieme ai vestiti che ci si toglie (in questo, maschi e femmine sono identici: si svestono con un unico gesto, che comprende e sfila la maglietta, attaccata alla felpa, attaccata al reggiseno, lanciata sul pavimento. Serra scrive: “La parte superiore del tuo vestiario è tutt’una, un multistrato che si compone vestendosi ma non si divide svestendosi”), fare il bagno significa riempire la vasca fino all’orlo, starci dentro un’ora con tutti gli apparecchi elettronici a disposizione accesi, tablet, telefono, computer portatile in attesa dell’occasione di provocare un cortocircuito elettrico. E poi, una volta uscite gocciolanti come Venere, non togliere il tappo. Lasciare la vasca così, piena d’acqua e di bagnoschiuma in via di sparizione, a ricordo della regale abluzione, insieme alle impronte di piedi bagnati fino alla camera da letto, dove finalmente ci si potrà sdraiare di nuovo. Non potresti togliere almeno il tappo? Raccogliere gli asciugamani, appenderli al gancio? Le tue mutande! L’assorbente! Il computer è pieno di gocce! La risposta è universale: “Ah sì lo faccio, adesso però chiudimi la porta”. Michele Serra si chiede se il problema nuovo, inedito di questi millennials che chattano tantissimo e a voce dicono solo: ah, no, boh, cià, sia che è tutto troppo poco: lasciare pulito il cesso. Spegnere le luci. Non venire bocciati. Chiudere i cassetti. Rispondere al telefono. Troppo poco, anzi niente, per sfamare l’entusiasmo, il bisogno di eroismo che un ragazzo, non solo Oriana Fallaci nel 1943, potrebbe avere. “Così che se io, per dire, mi presentassi con gli occhi spiritati e ti dicessi che devi partire subito, stanotte stessa, per liberare armi in pugno un popolo oppresso, o per evangelizzare i selvaggi, o per ricacciare oltreconfine gli impuri, allora sì che ti vedrei balzare dal divano, farti in un attimo hombre vertical, preparare lo zaino e abbracciandomi mormorare chino al mio orecchio: finalmente, padre mio, invece delle meschine cazzate con le quali mi assilli da quando sono nato, mi indichi una Meta degna di questo nome!”. Non il tappo del dentifricio da richiudere, non lo zucchero da non spargere fuori dalla tazzina, non le incrostazioni di sugo da togliere dalla padella prima che si marmorizzi, ma una grande impresa, qualcosa che finalmente appaghi il bisogno di assoluto. Padre e figlio finalmente si abbracceranno stretti, ingoiando le lacrime, riuniti dalla battaglia, e il padre dirà: “E non preoccuparti per le righe di merda! Ciò che mi era parso, fino a oggi, un compito ingrato, mi sembrerà il più leggero e insieme il più onorevole dei compiti. Perché saranno le righe di merda di un eroe!”.
Si può ridere, quindi, anche con il panico che prende di fronte a tutti quei divani coi cuscini sformati dai corpi, davanti a tutti gli asciugamani per terra, davanti all’impossibilità oggettiva che un figlio diciottenne abbia voglia di venire con noi a vendemmiare l’uva alle otto del mattino, e soprattutto davanti all’indifferenza assoluta che gli Sdraiati ci offrono. Sembrano dire, con i loro monosillabi: ma perché questi si agitano tanto? Ma perché pensano che il posacenere pieno di cicche non buttate e le cuffie infilate nelle orecchie siano il simbolo di qualcosa, sia qualcosa di cui discutere? Non hanno niente da fare? Non si possono sdraiare un po’, dormire fino alle due del pomeriggio? Forse è per questo, forse sono così perplessi da tanta agitazione che non riescono nemmeno a guardarci dritto in faccia, come fa Pia, l’amica del figlio che Serra va a prendere alla stazione, rimandando una cena programmata da settimane (ma il figlio ha perso il treno): “Pia pronuncia solo pochi monosillabi, per giunta non indirizzati al suo unico interlocutore, che sarei io, ma a una figura invisibile che si trova un paio di metri alla mia sinistra, leggermente più in alto di me: è lì che Pia fissa lo sguardo quando – per così dire – parla”. Lui si permette di svegliarla a mezzogiorno, perché pensa che sia un buon orario di compromesso tra l’ansia di un cinquantenne nevrotico e il bisogno di riposo di una diciassettenne sdraiata. Le appoggia un caffè sul comodino. Ma, più pericolosamente, coltiva un’illusione, ha un piano folle: vorrebbe farle vedere il mare in tempesta dal terrazzo. Addirittura, vorrebbe condividere lo spettacolo della natura. Pia invece si sdraia sul divano e accende la tivù: “C’è la nuova serie di Qualcosa (Dice un acronimo americano tipo Pi En Iu o Ai Ti Si o Uai En Ti)”. E lui teme che ci sia, in quella separazione (lui sul terrazzo a guardare la pioggia, a pensare a chi curerà i suoi vasi dopo di lui, e lei sul divano, di spalle alla pioggia e a lui, a guardare Pi En Iu), la separazione definitiva tra il passato e il futuro degli umani. Nessuna possibilità di un anello di congiunzione. Nessuna possibilità di condividere qualcosa, o di sentire di non avere completamente sbagliato tutto, pensando di avere ragione, e illudendosi che sarebbe bastata un’amichevole chiacchierata sul da farsi. “Tu, che hai di fronte un dopopadre esitante e in fondo complice, possibile che non capisci la fortuna che hai? Lo so bene che non basta, come Senso della Vita, un water pulito. Non sono così cretino”. La sofferenza, quando cammina insieme all’autoironia, sembra ancora più sincera.
Ma questi figli sdraiati, di malumore, con i computer appoggiati alla pancia, e la televisione accesa a volume altissimo, le suole delle scarpe ben stampate sui divani, stanno solo prendendo le misure al mondo, nel loro modo. Che non può essere il nostro e che non può nemmeno concederci il piacere di specchiarci o di sentirci né avversari né complici. Di offrirci la possibilità vanitosa di sentirci protagonisti anche della loro vita, delle loro scarpe di gomma. E’ la loro vita, è la loro gomma, sono i loro pollici bionici (e un po’, per emulazione, diventano anche nostri). A un certo punto, come nel libro, succederà qualcosa di semplice come raccogliere un asciugamano bagnato da terra, o anche di più, e i padri e le madri (dopo avere gridato al miracolo, crollando a terra in ginocchio) si accorgeranno che i figli facevano soltanto finta di tenere sempre le cuffie nelle orecchie.


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